Perché rendicontare a scuola?

Abbiamo voluto dedicare l’ultimo numero della rivista “ArtedoUniversoScuola” alla rendicontazione sociale in quanto “finalmente” tutte le scuole italiane da settembre a dicembre entreranno in questo circuito virtuoso previsto dal DPR 80 del 2013, che permetterà alla scuola italiana di raccontarsi in una forma di “storytelling”, per riconoscersi e farsi riconoscere.

La rendicontazione sociale infatti è prima di tutto una metacognizione che deve partire dal collegio docenti che riflette sugli obiettivi prefissati, sui risultati raggiunti e sui processi attivati per poi passare alla presentazione degli stessi agli stakeholder. Se manca il primo momento “interno”, “intimo”, la rendicontazione sociale rischia di essere una vetrina buona per la pubblicità, ma non per un processo di miglioramento che è poi la “mission” del regolamento della valutazione del sistema scolastico come pensato nel DPR 80.

E anche Artedo è orgoglioso della sua “rendicontazione sociale”. Il prossimo anno scolastico vedrà 200 discentes nel ruolo dirigenziale dopo un percorso appassionato, di studio, di riflessione quotidiana e di capacità di creare comunità virtuali ed umane: è stata la nostra carta vincente, la nostra forza e dal 1° settembre nel nostro ruolo dirigenziale dobbiamo partire proprio da questa nostra esperienza per creare “comunità educanti”, ricche di valori inclusivi e formativi.

La rendicontazione sociale non deve essere vissuta come un adempimento burocratico ma è uno strumento indispensabile ed utile per creare capitale sociale e io invito i dirigenti, sia discentes, sia quanti hanno creduto alle tante proposte editoriali che hanno arricchito il nostro percorso concorsuale, di mettere subito in campo le migliori energie per realizzare momenti “aperti” per raccontare la scuola che si andrà a dirigere: raccontare la memoria storica che ogni scuola ha; valorizzare quanti professionisti hanno lavorato per una scuola efficace e capace di coinvolgere la comunità per una scuola che garantisca il successo scolastico.

Dedicheremo proprio a questo tema una particolare attenzione al nostro meeting “Per una dirigenza di qualità” a Lecce il 22 e 23 agosto in quanto il doversi cimentare subito con la rendicontazione sociale può rappresentare l’occasione propizia per creare l’imprinting giusto per una felice partenza nel lavoro dirigenziale.

La rendicontazione sociale ha valore in sé in quanto connaturata all’autonomia ed all’esigenza di dimostrare, in modo trasparente, il ritorno educativo che la scuola è stata capace di assicurare, valorizzando al meglio le risorse a disposizione: umane, finanziarie e di contesto sociale.

Parafrasando Einstein “Non tutto quello che si può contare conta, e non tutto quello che conta si può contare”, si può affermare che in un documento per il bilancio sociale si devono evincere la cultura educativa della scuola, le sue priorità, i modi e le risorse per realizzarle, la reti tra le scuole e con la realtà locale, i processi e gli esiti relativi a più settori, la sua volontà di chiamare a confronto diversi stakeholder, portatori di nuovi punti di vista. E sarà l’occasione per cominciare a lavorare per una scuola “plurale” e di qualità. Auguri e AD MAIORA!!!

Buone vacanze meritate a tutte e a tutti. Leggi tutto “Perché rendicontare a scuola?”

Tempo di… Rendicontazione!!!

Rendicontazione

Con la riforma del pubblico impiego tutte le Pubbliche Amministrazioni sono state inserite in un unico sistema di misurazione e valutazione, dimenticando la loro eterogeneità e di conseguenza anche la differenza dei risultati ottenuti.

Tale generalizzazione non ha tenuto conto dei vari contesti in cui la Pubblica Amministrazione si dispiega, infatti come nelle Istituzioni scolastiche, il prodotto finale da rendicontare non è un bene misurabile commercialmente, ma un bene invisibile, trattandosi di formazione dei soggetti.

Anche il termine” performance” non è sempre riferibile a comportamenti chiaramente manifesti, ma a risultati frutto di una valutazione qualitativa, difficilmente quantizzabile. La misurazione delle performance si esprime nell’organizzazione complessiva, in quella dei singoli dipendenti e dei dirigenti responsabili della gestione. Nonostante la sua complessità, possiamo definire il sistema scolastico un luogo privilegiato per lo sviluppo di competenze relative a temi come la valutazione, il bilancio sociale, la rendicontazione, la trasparenza.

L’elaborazione del Rapporto di Autovalutazione diventa uno strumento di misurazione dell’efficienza e dell’efficacia del servizio erogato, con la volontà di migliorarne l’offerta e la qualità, pubblicizzando le strategie adottate e riconoscendo un ruolo importante agli stakeholder costituiti da famiglie, alunni, portatori di interessi vari e istituzioni locali. Tutti sono chiamati a partecipare, attraverso una progettazione e un confronto, all’elaborazione della rendicontazione.

Ogni scuola potrà, attraverso lo strumento del Bilancio sociale, verificare la coerenza tra mission (valori di riferimento della scuola), governance (modelli di governo dell’istituzione scolastica e il rapporto con gli stakeholder) e accountability (verifica dei risultati in relazione degli obiettivi programmati).

Rendicontare diventa un dovere per la scuola che si pone al servizio dei suoi utenti,  ma soprattutto un diritto, perché stimola al miglioramento e al confronto continuo, superando le  logiche autoreferenziali.

  • Lo sviluppo  del documento di Rendicontazione sociale dovrà rispettare alcuni criteri come:
  • la chiarezza, essendo destinato a stakeholder esterni alla scuola;
  • la completezza, per consentire agli stakeholder di individuare le informazioni utili e valutare gli obiettivi raggiunti;
  • la coerenza, nel progettare la mission e definire con chiarezza e coerenza il punto di partenza;
  • l’inclusione, di tutti i portatori di interessi senza distinzione alcuna;
  • la periodicità, attraverso pubblicazioni periodiche e regolari che siano corrispondenti alle attività pianificate e ai risultati, di volta in volta, raggiunti;
  • la rilevanza, esplicitando in modo chiaro tutte le scelte rilevanti che possono condizionare dei risultati;
  • la trasparenza, attraverso una chiara individuazione da parte del portatore di interessi delle scelte fatte e dei risultati raggiunti;
  • la veridicità, relativa alle informazioni  inserite nel documento.

Detto ciò, non è comunque possibile immaginare di assegnare alla Scuola un valore solo in base al profitto che si riesce ad avere in termini di valore di mercato. La scuola è chiamata a garantire il successo formativo dei suoi alunni, a promuovere la loro crescita umana e culturale, a sviluppare il loro senso critico, a creare menti aperte ed elastiche. Tutto questo non potrà mai essere ricondotto a un prodotto di mercato.

In una società in costante mutamento, dobbiamo preparare i giovani a riformularsi continuamente apprezzando la resilienza e il life long learning come unici supporti su cui contare per raggiungere il “successo formativo”, dando spazio alla crescita ben guidata della personalità. Come afferma Edgar Morin, bisogna proporre una metodologia didattica fondata sulla inter-poli-trans disciplinarità che aiuti la formazione di una “testa ben fatta” capace di considerare il contesto e il complesso planetario” senza la  frammentazione del sapere. Leggi tutto “Tempo di… Rendicontazione!!!”

Il principio di accountability alla base della rendicontazione sociale nelle Istituzioni Scolastiche

Come è noto, con la rendicontazione sociale si realizza la fase conclusiva del ciclo di valutazione delle Scuole, secondo quanto previsto dal D.P.R. 80/2013.

Con la recentissima nota n. 17832, del 16/10/2018, il MIUR, oltre a dettare alcune indicazioni generali per la predisposizione del PTOF 2019/2022, “documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”, grazie al quale si realizza il confronto e la partecipazione tra tutte le componenti dell’“universo” scuola (personale, famiglie e studenti) e le “diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio”, ha altresì fornito le prime informazioni per la predisposizione della Rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche, statali e paritarie, prevista dall’art. 6, comma 1, lett. d) del D.P.R. 80/2013.

Al fine di armonizzare e allineare la tempistica del RAV con quella del Piano triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), la rendicontazione sociale va quindi intrapresa al termine dell’anno scolastico 2018/19 con l’analisi dei risultati raggiunti in riferimento alle azioni realizzate per il miglioramento degli esiti. L’effettivo procedimento di rendicontazione, da realizzare attraverso la “pubblicazione e diffusione dei risultati raggiunti”, sarà poi effettuato entro dicembre 2019.

Con un’ulteriore nota pubblicata il 22/05/2019, il MIUR ha infine dettato la sequenza logica cui deve attenersi ogni istituzione scolastica:

  1. verificare con la Rendicontazione sociale il percorso svolto nella triennalità precedente;
  2. individuare le priorità da perseguire nella successiva triennalità attraverso il RAV;
  3. pianificare il miglioramento con il PdM, al fine di definire l’offerta formativa con il nuovo PTOF in cui deve essere indicato il medesimo PdM.

Con la rendicontazione, quindi, vengono resi noti i risultati raggiunti in relazione agli obiettivi di miglioramento e vengono orientate le scelte future, secondo la sequenza sopra riportata. Per la prima volta, tutte le scuole sono chiamate a rendere conto dei risultati raggiunti con riferimento alle priorità e ai traguardi individuati al termine del processo di autovalutazione. La rendicontazione dovrà essere predisposta in un’apposita piattaforma di riferimento, che sarà resa disponibile, all’interno del portale del Sistema nazionale di valutazione (SNV), dal 30 maggio al 31 dicembre 2019. L’attività di rendicontazione dovrà concludersi entro il mese di dicembre 2019 con la pubblicazione della medesima nel portale “Scuola in Chiaro”, eccettuate situazioni particolari per le quali viene indicata una diversa tempistica nella “Nota metodologica e guida operativa” presente in piattaforma.

Alla base del processo della rendicontazione sociale, il cui concetto – giova ricordarlo – è entrato nel quadro ordinamentale italiano solo di recente, con il D. Lgs. 150/2009 e, per quel che riguarda più da vicino la scuola, con il D.P.R. 80/2013, troviamo un principio, quello della c.d. “accountability”, che va declinato in una logica non meramente amministrativa (logica dell’adempimento), in forza della quale la rendicontazione sociale è imposta in modo centralistico e uniforme a tutti gli istituti scolastici secondo schemi rigidamente prestabiliti a fini di controllo e comparabilità, ma gestionale (responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi) e cooperativa. In tale logica, la scuola dà conto ed evidenza dei risultati di gestione conseguiti, all’esterno prima ancora che al suo interno, e la rendicontazione sociale recupera una fondamentale dimensione di condivisione, caratterizzandosi come un processo volontario che nasce dalla consapevolezza del dovere di render conto ai portatori di interessi (stakeholder) circa l’uso che viene fatto dell’autonomia scolastica.

Il D.P.R. 80/2013 definisce la fase di rendicontazione sociale in questi termini: “pubblicazione, diffusione dei risultati raggiunti, attraverso indicatori e dati comparabili, sia in una dimensione di trasparenza sia in una dimensione di condivisione e promozione al miglioramento del servizio con la comunità di appartenenza”. In tale contesto normativo, il riferimento alla comunità di appartenenza è esplicito ed è interpretato in chiave di trasparenza e di condivisione e promozione al miglioramento. In quest’ottica, Il D.P.R. 80/2013 pone alle scuole un traguardo ambizioso, da raggiungere come ultima fase del Sistema Nazionale di Valutazione, in una prospettiva non statica e definitiva, come punto di arrivo acquisito una volta per tutte, ma dinamica e in continuo divenire, in una spirale di crescita in vista della quale il riesame degli esiti raggiunti è alla base del piano di miglioramento della scuola. In tale prospettiva, la rendicontazione sociale assolve al fondamentale obiettivo di dimostrare ai “portatori di interesse” e alla comunità sociale di appartenenza che gli obiettivi strategici adottati nel PTOF sono stati perseguiti e che grazie ad essi la scuola ha prodotto del “valore aggiunto”.

L’azione di rendicontazione sociale deve quindi essere orientata al senso di responsabilità (accountability), come già messo in evidenza dalla Direttiva del DFP del 17/2/2006, relativa all’applicazione nelle pubbliche amministrazioni del bilancio sociale: ogni Istituzione è responsabile degli effetti che la propria azione produce nei confronti dei suoi interlocutori e della comunità; di conseguenza, dalla responsabilità discende il dovere di dar conto della propria azione ai diversi interlocutori (in primis agli studenti e alle loro famiglie, ma anche agli enti pubblici e ai soggetti privati – imprese, associazioni, fondazioni … -, fino ai comuni cittadini), costruendo con essi un dialogo permanente e un rapporto fiduciario.

In generale, “accountability” significa quindi “render conto” e, di conseguenza, “assumersi la responsabilità di ciò che si dichiara”. Può essere in sintesi definita come l’azione e il conseguente impegno di una organizzazione di dare conto delle scelte effettuate, delle attività intraprese e dei vantaggi realizzati per i propri interlocutori. Per le organizzazioni sia pubbliche che private, “accountability” indica la realizzazione di un sistema di responsabilità che rende chiare ed evidenti le relazioni esistenti tra le scelte e le decisioni prese, le attività realizzate e i parametri di controllo degli effetti e dei risultati, attraverso indicatori misurabili e confrontabili in senso qualitativo e quantitativo. Tale azione consente all’organizzazione di dare conto ai cittadini del proprio operato, rendendo trasparenti e comprensibili all’esterno i programmi, le attività e i risultati raggiunti per lo sviluppo sostenibile del territorio e della comunità di riferimento. Gli strumenti di accountability sono strumenti capaci di avviare un processo di cambiamento e di miglioramento dell’attività delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni in generale, e al tempo stesso in grado di contribuire a rendere la loro azione sempre più in sintonia con le esigenze dei cittadini – nella logica del principio di sussidiarietà – e sempre più efficace nella realizzazione degli impegni assunti. Diventare più “accountable”, aumentare il proprio livello di “accountability” significa, quindi, essere più responsabili ed efficaci agli occhi della società e della collettività di riferimento.

Nello specifico, per quel che concerne le Istituzioni scolastiche, la rendicontazione sociale è fortemente connotata dalle caratteristiche del contesto di riferimento ed è bene che sia lasciata all’autonomia delle singole scuole. In una scuola che si autoregolamenta attraverso un proprio Statuto, la rendicontazione è infatti elemento costituente l’autonomia stessa, in quanto è uno strumento al servizio dell’autonomia scolastica e dei processi di valutazione. Nella costruzione del bilancio sociale, la scuola deve quindi svolgere un ruolo attivo, esplicitando la sua visione etico-culturale, i valori sui quali ha deciso di investire le sue risorse, il patto da stipulare con gli stakeholder; deve inoltre predisporre alla formazione e alla consapevole condivisione di una cultura della responsabilità e dell’accountability tutto il personale scolastico; deve avere a disposizione una struttura organizzativa coerente con gli esiti della valutazione e del monitoraggio dei risultati e funzionale alla rendicontazione e alla divulgazione di tali risultati; deve infine tenere soprattutto conto del livello di impatto o di efficacia sociale e delle conseguenze, per la comunità di riferimento, derivanti dalla produzione del peculiare “output” didattico che le è proprio, vale a dire la qualità del servizio educativo erogato.

In tale prospettiva, emerge oggi con sempre maggior forza anche nel mondo della scuola l’esigenza di “rendicontare”, di dimostrare agli stakeholder in modo trasparente il livello sia qualitativo che quantitativo delle attività scolastiche progettate e attuate in una logica sistemica, nonché il “guadagno educativo” che la scuola è capace di assicurare, valorizzando al meglio le risorse a disposizione (finanziarie, strumentali, umane, di contesto sociale) e stipulando con tutti i “portatori di interesse” un nuovo patto sociale, in vista del successo formativo degli studenti.

L’avvio di un percorso di rendicontazione sociale è quindi, per la scuola, un’importante occasione per riflettere sistematicamente su se stessa, sui propri valori e obiettivi, sulla propria missione, per promuovere innovazione e miglioramento delle proprie prestazioni, per identificare i propri stakeholder e attivare con essi significativi momenti di dialogo, di confronto, di partecipazione e di collaborazione. Come osserva Damiano Previtali, “la qualità del processo di rendicontazione incide direttamente sulla capacità […] di rispondere alle esigenze conoscitive dei diversi interlocutori e di costruire con essi un dialogo permanente, dando piena attuazione al principio della responsabilità sociale” (“La scuola con valore sociale sussidiarietà e rendicontazione sociale nelle scuole dell’autonomia”). Leggi tutto “Il principio di accountability alla base della rendicontazione sociale nelle Istituzioni Scolastiche”

Il bilancio sociale: strumento di dialogo tra scuola e società

Da tempo ormai nel linguaggio della normativa scolastica, termini come accountability, monitoraggio, risultati, rendicontazione, bilancio sociale, stakeholder, caratterizzano un nuovo modo di “fare scuola”.

Un “fare scuola” che secondo principi di trasparenza, efficacia ed efficienza, è giustificato dall’adozione di pratiche di accountability che spiegano l’impiego delle risorse pubbliche, ai fini di un servizio di “qualità”.

L’idea di accountability nasce dalla capacità di ogni scuola di comunicare ai propri utenti e alle istituzioni governative da cui dipende, i risultati che vengono raggiunti attraverso l’impiego delle risorse, che le vengono assegnate a titolo economico, culturale, intellettuale, di tempi, di persone e di tecnologie.

Pertanto attuare processi di accountability indica la capacità, nell’ambito di un’autonomia funzionale, di rendere pubblici gli obiettivi raggiunti e le modalità con cui le risorse assegnate sono utilizzate per raggiungere quegli obiettivi, assumendo la responsabilità delle ricadute degli stessi anche oltre lo stretto contesto  di riferimento.

Il termine accountability tradotto in lingua italiana significa  “Bilancio Sociale” o “Rendicontazione sociale”. Più propriamente il termine da usare è “Bilancio” perché richiama a un’idea di uno scambio di un qualcosa che, attraverso un confronto, genera l’immagine reale di ciò che, alla fine di un anno scolastico, si determina.

Tale situazione deve comprendere, da un lato, le scelte di indirizzo educativo-formativo che la scuola compie (Vision-Mission), le risorse investite dal pubblico o dal privato (economiche, intellettuali, di conoscenza, legate al territorio, alle persone, alle tecnologie) e, dall’altro, i risultati che la scuola riesce a raggiungere in termini di diffusione della conoscenza, consapevolezza di cittadinanza, accoglienza, soluzione delle problematiche sociali e coerenza con le indicazioni istituzionali in termini di generazione di conoscenze e competenze.

Per questo motivo il Bilancio sociale può essere considerato un documento attraverso il quale le scuole, in una dimensione di lealtà educativa e professionale, fotografano la loro capacità di generare il futuro attraverso il presente.

Uno degli aspetti più importanti del Bilancio Sociale è la capacità di comunicare con tutti gli stakeholder del territorio, coinvolti nel processo educativo e formativo. Il coinvolgimento degli stakeholder e il ruolo del Bilancio Sociale come promotore di dialogo e motore nel costruire una comunità, nelle scuole avviene a due livelli. Un livello, più distante ma più significativo, legato all’importanza della collaborazione e del confronto in un sistema complesso, è caratterizzato dal rischio della frammentarietà delle informazioni, dall’incapacità di rendere la totalità delle attività e delle iniziative, dal non comprendere un linguaggio a volte troppo tecnico, dalle difficoltà nel comunicare i problemi di gestione.

Inoltre la competizione tra le diverse realtà e agenzie formative ed educative (famiglie, media, comunità, altre scuole …) spesso porta a fraintendimenti e tensioni in grado di generare un clima negativo e distruttivo degli obiettivi da raggiungere.

Un altro livello, più ristretto, indica la difficoltà di trovare una motivazione nell’azione d’insegnamento.

Diffusa è la percezione tra i professionisti che operano all’interno dell’istituzione che a questa non venga riconosciuto il ruolo sociale che merita. Inoltre le difficoltà economiche sono all’ordine del giorno, così come lo sono le difficoltà ad operare in situazioni di disagio sociale e culturale senza le risorse che sarebbero necessarie. Sembra che, per quanti siano gli sforzi e i tentativi di produrre una scuola accogliente, collaborativa, di qualità, questi non arrivino mai ad essere sufficienti o sufficientemente riconosciuti.

A questo livello il Bilancio Sociale risponde in modo chiaro. Diretto a  tutti i soggetti interni alla scuola, mette in comunicazione tutte le realtà, facendo emergere in modo evidente le azioni messe in atto in ogni contesto e collegando il lavoro alle risorse e ai risultati.

Il Bilancio Sociale pone le basi per avviare uno scambio, un dialogo tra insegnanti, rendendo esplicite le loro progettazioni e le loro condizioni operative. Se ben costruito, utilizzato e opportunamente diffuso, il Bilancio Sociale diventa così un documento importante all’interno di ogni istituto per creare una “comunità educante”, intesa come espressione di collaborazioni e di sinergie per raggiungere obiettivi condivisi e per evidenziare tutte le situazioni di difficoltà, sofferenza economica o professionale che altrimenti rimarrebbero sopite e vissute con frustrazione.

Bilancio Sociale

Aprendosi all’esterno, il Bilancio Sociale parla con altrettanta chiarezza a tutti i soggetti del territorio su cui la scuola opera: a famiglie, studenti e studentesse, associazioni, comitati, realtà territoriali, circoscrizioni, comuni. A questi soggetti esso comunica le scelte della scuola, le motivazioni che le hanno generate e i risultati raggiunti. Anche in questo caso il collegamento tra scelte di indirizzo, risorse e risultati permette di mettere in luce l’identità della scuola e gli obiettivi che si vogliono perseguire. Il dibattito e il confronto si sposta così verso la condivisione di traguardi e di scelte strategiche, facendo crescere ogni soggetto, finalmente riconosciuto nel proprio ruolo e identità grazie alla sua definizione all’interno del Bilancio Sociale.

Le Interpretazioni e i modelli di Bilancio Sociale sono numerosi. Parlando di strumento comunicativo possiamo incontrare documenti molto lunghi e complessi, altri più agili e snelli (infiniti infatti sono i modelli proposti).

Innanzitutto è opportuno riflettere sulle caratteristiche che sono necessarie alla scuola per arrivare a redigere il Bilancio Sociale. Quando si sceglie di partire infatti non si può non considerare che il documento che si va a comporre comprende una molteplicità di informazioni che sono patrimonio di molti soggetti diversi: alcuni sono posseduti dagli insegnanti (valutazioni, progetti, interventi sul disagio, rapporti con le famiglie); altri sono di pertinenza della segreteria (dati relativi alle iscrizioni e frequenza, caratteristiche del territorio); altri ancora sono di competenza del Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi (dati economici e di funzionamento); infine altri fanno parte delle competenze del Dirigente Scolastico (dati di indirizzo, scelte strategiche, attuazione delle politiche scolastiche, documenti ufficiali e istituzionali).

Doversi relazionare con così tanti soggetti può essere difficoltoso: occorre pertanto che all’interno dell’istituzione scolastica siano formalizzati ruoli, competenze, riferimenti, responsabilità. In altre parole è fondamentale che esista alla sua base un percorso di qualità esplicita.  Per modello di qualità esplicita si intendono prassi, consuetudini, documenti interni dell’istituto, protocolli organizzativi, atti a definire responsabilità, possesso dei dati, circolazione delle informazioni.

All’interno di ogni Bilancio Sociale si deve porre attenzione a cinque fattori:

  1. il suo radicamento all’interno della scuola,
  2. la sua omogeneità,
  3. la scientificità del modello,
  4. la sua completezza e
  5. la sua efficacia comunicativa.

Il radicamento del documento va inteso come la diffusa percezione di una comunità in una precisa istituzione scolastica: in tal caso il Bilancio Sociale è uno strumento in grado di darLe voce; ciò si può realizzare garantendo gruppi di lavoro snelli, strategicamente significativi e rappresentativi di tutte le componenti. Occorre infatti mettere in relazione fra loro dati di funzionamento, economici, didattici, di progettazione, di efficacia e di risultato.

La necessità del Bilancio Sociale di coinvolgere l’amministrazione scolastica e gli stakeholder interni alla scuola, ma anche la volontà di comunicare con le famiglie e i soggetti legati al territorio, impone che questo sia costruito in modo omogeneo e comparabile. Inoltre occorre focalizzarsi su un prodotto scientificamente affidabile, evitando di muoversi in modo approssimativo e sulla base di sensazioni.

La completezza e l’efficacia comunicativa sono il fondamento su cui si fonda il dialogo virtuoso che dal Bilancio Sociale si muove verso il miglioramento, sia attraverso la comunione di intenti e la condivisione degli obiettivi all’interno della comunità scolastica, sia attraverso l’orientamento delle politiche del territorio e dell’amministrazione.

Nel Sistema Nazionale di Valutazione, il Bilancio Sociale è previsto solo al termine del terzo anno di lavoro, immaginandolo alla conclusione di un percorso di miglioramento della scuola come strumento in grado di rendicontare i risultati raggiunti.

Quale ruolo può tuttavia avere una pubblicazione triennale dedicata a testimoniare un percorso concluso?

Non dobbiamo dimenticare che il Bilancio Sociale non è un documento legato alla qualità e al miglioramento in senso stretto, ma è un atto improntato a dialogare con la comunità e con gli stakeholder che gravitano intorno ad ogni istituzione scolastica e che hanno tutto l’interesse a collaborare e a partecipare alla definizione degli obiettivi e del percorso per realizzarli.

Il dialogo tra scuola e società attraverso il Bilancio Sociale avviene solo con un regolare confronto sia all’interno che all’esterno della scuola. È importante un costante scambio di informazioni sulle attività che la scuola porta avanti e che si traducono non solo nel miglioramento dei livelli di apprendimento, nelle conoscenze e abilità acquisite, ma anche in valori di cittadinanza, diminuzione del disagio, arricchimento del territorio, valorizzazione delle eccellenze: una comunità deve continuamente confrontarsi, dialogare e riflettere sui percorsi realizzati e immediatamente poter progettare e riprogettare.

Il Bilancio Sociale si pone, in quest’ottica, come un documento in grado di superare la visione di una scuola autoreferenziale e di dar vita a una scuola aperta, libera, diffusa, che coinvolge e ascolta, progetta e condivide obiettivi e difficoltà. Leggi tutto “Il bilancio sociale: strumento di dialogo tra scuola e società”

Rendicontazione socio-ambientale e leadership motivazionale

Il 4 agosto del 2014, nella Mount Polley, in Canada, esattamente nella Columbia Britannica, la rottura di una diga del bacino di decantazione di una miniera d’oro e rame contamina con metalli pesanti i laghi Polley e Quesnel e il torrente Hazeltine. Tempestiva la dichiarazione di stato d’emergenza e il divieto di svolgere qualsiasi attività nei bacini d’acqua inquinati, da parte delle autorità: immediate le critiche degli ambientalisti, che, già nelle settimane antecedenti al disastro, avevano segnalato alla Imperial Metal Corp, la compagnia della miniera d’oro e rame, il rischio di trasbordo dei bacini di decantazione troppo pieni.

Sempre nell’agosto dello stesso anno, nel nord-ovest del Messico, la miniera di rame Buenavista, a causa della perdita di un serbatoio, sversa nel fiume quarantamila metri cubi di acido solforico, privando venti mila persone di acqua.

Già nel maggio del 2014, singolare risulta il passo indietro della Deutsche Bank, che decide di rifiutare il finanziamento a North Queensland Bulk Ports Corp, per l’espansione del porto di Abbot Point, in Australia, utilizzato per l’esportazione di carbone: un ampliamento simile del porto avrebbe comportato un vantaggio non indifferente per il settore del carbone australiano, a scapito però  della Grande Barriera Corallina.

I funzionari, avvertendo l’evidente rischio ambientale per la più grande estensione di corallo al mondo, decidono che, per procedere con il finanziamento, avrebbero dovuto ricevere il consenso dall’UNESCO e dal governo australiano circa la sostenibilità ambientale del progetto.

Innegabilmente i timori di Deutsche Bank palesano l’importanza che investitori e istituzioni finanziarie danno alla cosiddetta “licenza sociale”, nonché ai condizionamenti di un certo riscontro sull’opinione pubblica.

È il 1990 quando Jim Cooney, noto dirigente minerario canadese, qualifica col termine “licenza sociale ad operare” (SLO) il livello di approvazione verso le compagnie minerarie e i loro progetti, da parte della comunità locale. L’espressione, seppur nuova, in realtà discende dalle teorie di responsabilità sociale: inizia a crollare l’idea di impresa-business ed avanza l’idea di licenza sociale, non come mero atto formale, cioè vincolante accordo scritto, ma quale reale sentimento di fare rete con la comunità, condividendo valori e ideali, per il benessere di ciascuno.

Disastri ambientali di siffatta importanza inevitabilmente riversano non poche criticità sull’immagine dell’azienda: la responsabilità sociale d’impresa, nota anche con l’acronimo CSR (da Corporate Social Responsibility), è meglio conosciuta, all’interno della vision di ogni impresa, quale insieme di ricadute e implicazioni di natura etica, che in  modo più o meno intrinseco, esprime l’anima di ogni azienda, la sua capacità di gestire con solerzia ed efficacia le problematiche d’impatto sociale ed etico con le quotidiane scelte, conformemente alla  propria mission.

L’impatto ambientale di ogni scelta non può non coinvolgere l’impresa stessa: i disastri ambientali inevitabilmente impattano sull’idea di “fare impresa”, comportando una ricaduta d’immagine, che, seppur non ravvisabile quale precipua responsabilità patrimoniale, ha influenzato più o meno direttamente i fatturati dell’azienda e lo stesso giudizio degli stakeholders, più che mai attenti alla responsabilità socio-ambientale dell’impresa.

Sinergie con il territorio, partnership, collaborazioni per il conseguimento di prassi innovative, adeguamento a sistemi di maggiore trasparenza e controllo, oltre all’inevitabile incremento di affidabilità nelle valutazioni delle imprese, promuovono il “sentimento di responsabilità sociale delle imprese”, che si traduce in iniziativa personale da parte di ogni azienda a contribuire a migliorare la società e rendere più pulito l’ambiente.

Una simile “filosofia di fare rete” dell’impresa scuola, per il benessere del pianeta e delle persone, nella promozione della pace, persegue, come ribadito dall’Agenda 2030, la prosperità di tutti e di ciascuno e realizza l’obiettivo strategico di Lisbona, cioè “divenire l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”.

La scuola, quale impresa eccellente di istruzione ed educazione, interviene consapevolmente nella formazione degli alunni, principalmente mediante le scelte e gli interventi del Dirigente Scolastico sul territorio: ogni azione, precedentemente ponderata con spirito critico e propositivo, si muove nella direzione della crescita di “tutti e di ciascuno”, orientando le varie sinergie verso l’arricchimento del proprio ambito.

“Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate. L’esperienza acquisita con gli investimenti in tecnologie e prassi commerciali ecologicamente responsabili suggerisce che, andando oltre gli obblighi previsti dalla legislazione, le imprese potevano aumentare la propria competitività. L’applicazione di norme sociali che superano gli obblighi giuridici fondamentali, ad esempio nel settore della formazione, delle condizioni di lavoro o dei rapporti tra la direzione e il personale, può avere dal canto suo un impatto diretto sulla produttività. Si apre in tal modo una strada che consente di gestire il cambiamento e di conciliare lo sviluppo sociale e una maggiore competitività.” (dal “Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, presentato a Bruxelles alla Commissione delle Comunità Europee il 18/07/2001).

Creando collaborazioni con le varie forze locali interne ed esterne alla scuola, il Dirigente Scolastico si muove sempre nella consapevolezza delle ricadute che esse hanno per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva dei suoi giovani utenti. Non si può, pertanto, trascurare la responsabilità sociale delle azioni del Dirigente in primis e del suo middle management, che in una costante azione motivazionale, in sintonia con il DSGA, orienta il sentimento dell’intero corpo docente, del personale ATA e di quanti partecipano al progetto di vita degli alunni, verso la crescita dell’intelligenza emotiva.

Il Dirigente Scolastico, che motiva e incoraggia ciascuno verso la consapevolezza di sé, crea un clima favorevole, applicando tutte le best pratices che promuovano la conoscenza e la capacità espressiva dei propri sentimenti apertamente e con assertività, nel riconoscimento dei propri punti di debolezza e di forza. Il Leader motivazionale, all’interno della scuola, promuove contesti di crescita personale, anche attraverso critiche costruttive.

L’impegno del Dirigente è costruire ogni giorno l’ambiente ideale perché i suoi collaboratori crescano nell’autoconsapevolezza delle proprie capacità e nella fiducia in se stessi, riuscendo a dominare con autocontrollo le emozioni forti e i turbamenti, che inevitabilmente all’interno di una grande impresa, quale è la scuola, si possono creare.

Obiettivi quotidiani sono il perseguimento di fini costruttivi, di relazioni autentiche, di interventi tempestivi e trasparenti, garantendo rapporti tra Dirigente, docenti, genitori e alunni ed utenti in generale connotati da quell’empatia con la quale ognuno percepisce e riconosce i sentimenti, le preoccupazioni, il punto di vista altrui, li accoglie e coscientemente adotta la prospettiva più adatta alle non poche emergenze che la nostra società complessa e fluida subdolamente insinua.

Il Dirigente Scolastico, trattando efficacemente relazioni con personale interno ed esterno all’istituzione, gestisce efficientemente conflitti, difficoltà comunicative e le emozioni ad esse connesse, nella conferma delle proprie abilità sociali.

La motivazione ad andare instancabilmente avanti nonostante le difficoltà, la capacità di suggerire e spronare se stessi e l’entourage verso il raggiungimento degli obiettivi connotanti la propria identità scolastica, diventano un impegno costante del Dirigente motivatore, che così è produttivamente artefice del cambiamento di cui ne è guida.

Conseguendo buoni risultati nel settore etico-sociale “sul-nel-insieme” al proprio ambiente, il Dirigente inevitabilmente raggiunge maggiori profitti e una crescita che coinvolge non solo la singola scuola, ma perfino l’intero ambito, che arricchisce con le proprie scelte.

In tal modo, gli effetti diretti e indiretti della responsabilità etico-sociale delle azioni del DS, promotore di un ambiente di lavoro proiettato verso la sostenibilità ambientale, l’inclusività sociale, l’uso critico e intelligente delle innovazioni, favorisce una maggiore e migliore produttività dei lavoratori: il Dirigente gestisce così efficacemente le risorse finanziarie, strumentali ed umane e gli stakeholder, consumatori e investitori attenti agli effetti diretti e indiretti delle scelte della scuola sull’ambiente, partecipano spontaneamente all’immagine dell’istituzione, nella convinzione che la collaborazione propositiva, incoraggiata da un Dirigente motivatore, favorisce un clima di evoluzione ambientale etico-sociale, perché, come espresso da Daniel Goleman, “…l’unico tratto che accomuna davvero tutti i leader efficaci, se mai ne esiste uno, è la motivazione, una forma di gestione del sé che ci consente di mobilitare le nostre emozioni positive per proiettarci verso un obiettivo…” e l’obiettivo della scuola è rendere l’impresa educativo-formativa  un’esperienza unica che orienti ciascun alunno autonomamente verso scelte originali, consapevoli e innovative. Leggi tutto “Rendicontazione socio-ambientale e leadership motivazionale”

Accountability condivisa e processi di ridefinizione e strutturazione partecipata di significati

Tra il sensibile incremento della richiesta di accountability condivisa nella pubblica Amministrazione  e i significativi mutamenti economici, sociali e culturali caratterizzanti il nostro Paese, esiste un filo doppio che non si potrà spezzare.

Il termine accountability, di provenienza anglosassone, ha un significato di difficile definizione a causa delle sue molteplici declinazioni.  Ne deriva la difficoltà nella traduzione. Certamente, esso è prioritariamente espressione della responsabilità dei risultati conseguiti in riferimento agli obiettivi prefissati da un’organizzazione nei confronti degli stakeholders (portatori di interessi).

E certo è che l’accountability è espressione del principio di sussidiarietà orizzontale e implica lo sviluppo di una leadership in grado di attivare processi di ridefinizione e strutturazione condivisa e partecipata di significati, i quali guidano i membri della comunità verso scopi comuni (sfida educativa e di ricostruzione di tessuto sociale).

Partendo dall’assioma “Amministrazione pubblica – Servizio”, che costituisce la cifra del processo di cambiamento sistemico della Pubblica Amministrazione, si rende ineludibile l’accertamento dell’effettiva creazione di valore pubblico.

Il nuovo Sistema nazionale di valutazione (SNV), disegnato dal d.P.R. n. 80/2013, impone a tutte le scuole l’introduzione e la gestione di processi formali di valutazione fondati, in primis, sui principi di lealtà e trasparenza e anche di efficacia: attraverso di essi è data la possibilità di rilevare punti di forza e debolezza e dunque di attivare interventi di miglioramento.

Tra i processi formali di valutazione previsti dal d.P.R. n. 80/2013 vi è la rendicontazione sociale, la quale, connaturata al processo di autonomia, in una visione strategica del servizio scolastico, presuppone il concetto di responsabilità e rimanda a valori etici fondanti dell’attività istituzionale. La responsabilità sociale delle istituzioni scolastiche inizia col farsi carico del successo formativo degli alunni.

La rendicontazione sociale è uno strumento di dialogo coerente col principio di trasparenza, ma anche di supporto alla consapevolezza, la cui categoria di riferimento è la condivisione sia interna, sia esterna all’istituzione scolastica. Insieme con il Piano triennale dell’offerta formativa, al Rapporto di autovalutazione e al Piano di miglioramento, essa è ordinata alla gestione capace di una scuola, intesa come spazio aperto, di interazione positiva e di comunicazione sociale.

L’accountability e la rendicontazione hanno, dunque, in comune la responsabilizzazione, la quale però non esaurisce pienamente il significato della prima e della seconda.

Un’analisi compiuta da soggetti qualificati ha consentito di giungere ad una conclusione che accomuna le esperienze di ben 97 Paesi: le nuove forme di accountability contribuiscono a migliorare l’efficacia e l’efficienza delle amministrazioni pubbliche. (…) Il punto fondamentale del concetto di accountability è in realtà posto sulla dimostrazione di come viene esercitata la responsabilità e sulla sua verificabilità.” (cfr. “Principio di Accountability nel Gdpr, significato e applicazione|Agenda Digitale”).

Vi è, dunque, alla base dell’accountability un atteggiamento proattivo nel dimostrare l’efficacia del proprio peculiare apporto nella creazione di valore pubblico.

Tutto ciò scaturisce da un significativo processo di cambiamento innescato dalle riforme dell’Amministrazione pubblica degli anni ’90, le quali scaturiscono da una situazione di crisi e perseguono chiaramente obiettivi di livello macroeconomico. Il d.lgs. n. 29/1993 – che reca la “prima privatizzazione” del lavoro pubblico – affida alla fonte contrattuale regolazioni prima decise per via unilaterale, donde il passaggio dal modello autoritativo al modello pattizio. Le norme cardine della privatizzazione del 1993 concepiscono la privatizzazione come applicazione al lavoro pubblico della strumentazione privatistica, funzionale alla salvaguardia del principio costituzionale del buon andamento (ex art. 97 Cost.).

Con la l. n. 59/1997 (seconda delega per la riforma del lavoro pubblico) e con i decreti attuativi della “seconda privatizzazione” si perviene a una semplificazione dei procedimenti amministrativi. Si ha una profonda riforma dell’organizzazione centrale dello Stato e degli enti pubblici, connotata da una più ampia autonomia scolastica, dal decentramento di funzioni a regioni ed enti locali, dalla modifica del sistema dei controlli). Questi interventi normativi (si ricordino anche i decreti legislativi n. 396/1997 e n. 387/1998 confluiscono nel testo unico di cui al d.lgs. n. 165/2001, che identifica il Dirigente scolastico quale datore di lavoro. Funzione amministrativa e dimensione educativa si intrecciano e si embricano strettamente. Ne discende l’immagine di un’amministrazione di missione e di risultato, precipuamente attenta alla qualità del servizio.

La qualità del servizio richiede capacità decisionale e si realizza mediante la chiara definizione e la trasparenza dei risultati attesi. Sono proprio queste ultime a garantire l’accountability e a generare le aspettative dei portatori di interesse, i quali valuteranno la responsabilità dei comportamenti e degli specifici percorsi per il raggiungimento dei risultati.

La complessità che oggi investe l’umanità conferisce carattere di necessità all’integrazione di conoscenze, competenze, risorse e prospettive diverse, al fine di identificare e risolvere problemi.

«Nessun soggetto individualmente, nessuna organizzazione da sola e nemmeno un singolo segmento della società globale è in grado, agendo da sé, di identificare ed implementare le soluzioni alle grandi sfide che l’umanità oggi si trova a fronteggiare. (…) tutti viviamo in questo mondo e le conseguenze di molte delle nostre azioni non sono circoscritte alla nostra sfera privata. Esse hanno effetti diretti o indiretti anche sugli altri. Questo spiega perché ci sia bisogno di riconoscere che coloro che subiscono l’effetto delle attività di un’organizzazione hanno il diritto di essere ascoltati.» (cfr. “Dalle parole ai fatti – Il Manuale dello Stakeholder Engagement, volume 2. Il Manuale per il professionista dello Stakeholder Engagement”, AccountAbility, United Nations Environment Programme, Stakeholder Research Associates Canada Inc.).

Posto che a un diritto dovrebbe corrispondere sempre un dovere, posto che le parole creano significati che modificano la realtà e volendo pensare giuridicamente al senso della partecipazione attiva degli stakeholders, essere coinvolti e partecipare per far valere le proprie posizioni all’interno dei processi decisionali di un’organizzazione, è per gli stakeholders un diritto o un dovere?

Ha gentilmente risposto alla domanda il Professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università del Salento, avv. Pier Luigi Portaluri: «Il tema della partecipazione è spesso un problema inautentico. O i detentori di interessi dispongono anche di adeguate forme di pressione (difficili da giuridicizzare) e quindi riescono comunque a orientare la decisione pubblica nel senso a loro favorevole; oppure non dispongono di questi strumenti e allora la partecipazione diventa come la partecipazione nuziale: sei ammesso al rito, ma non devi disturbare. Sei lì, fra i banchi, e quando l’officiante dice “vi dichiaro marito e moglie” batti le mani e te ne vai contento. Il matrimonio è stato già concluso senza minimamente ascoltare il tuo punto di vista. La forza di dire “Questo matrimonio non s’ha da fare” è data solo al Don Rodrigo di turno: che non sempre è il miglior tutore dell’interesse pubblico. I meccanismi di partecipazione devono essere completamente ripensati. È un po’ la stessa differenza che esiste, secondo i linguisti, fra lingua e dialetto. Il dialetto, a differenza della lingua, non ha né un esercito, né una marina. Quando ha la forza per imporsi, il dialetto si nobilita a lingua. Federico Spantigati sosteneva maliziosamente che per i giuristi ingenui la decisione discrezionale è la comparazione oggettiva degli interessi trasparenti; per i giuristi realisti, invece, è il bilanciamento soggettivo delle pressioni inconfessabili». Leggi tutto “Accountability condivisa e processi di ridefinizione e strutturazione partecipata di significati”

Che cosa sono le vacanze? Breve storia di un mito, di un rituale, di un traguardo

Il sostantivo femminile «vacanze», attestato nell’uso della nostra lingua italiana fin dal XVI secolo, deriva dal sostantivo latino, neutro plurale, vacantia, un plurale sostantivato del verbo vacare: «esser vuoto, esser vacante, esser libero da, […] essere immune da vizi, […] avere tempo per (dare ascolto a) qualcuno, ecc…».

Se nella nostra lingua italiana il termine rimanda ad un’«assenza», ad uno «svuotamento» nei dialetti del Sud – scruta con acutezza l’antropologo Franco La Cecla, che nei suoi lavori ha affrontato a più riprese il tema dell’organizzazione dello spazio contemporaneo – l’aggettivo è un «rimprovero, un riferimento all’assenza di contenuto di/ in una persona».

Nel nome «vacanza», però, c’è una storia ben più lunga, millenaria che muove da Ulisse, il «figlio di Laerte, una figura che ha letteralmente afferrato l’immaginario occidentale, un personaggio il cui vero viaggio è senza fine» (cfr. P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse) che è attraversata dall’aristocratico e, in origine, britannico per approdare nelle coste italiane, spagnole e greche negli anni Venta, Trenta del Novecento quando nasce il «mito delle vacanze al mare».

Nell’antico mondo romano il diritto all’otium è riconosciuto solo ai nobili. I Romani trascorrono il tempo libero (appunto, otium) nelle ville in campagna o sulla costa di Baia, Pozzuoli, Miseno che diventano il ritrovo di tutta l’aristocrazia del periodo. Nei secoli che vanno dal XVI al XIX si diffonde, si afferma il Grand Tour nell’Europa centrale mediterranea come lunga «vacanza» di formazione (Bildung) per i/le giovani aristocratici/che. È nel Regno Unito del XVII secolo che compaiono i primi luoghi di villeggiatura termale. A partire dal Settecento, andare in vacanza in campagna è una moda degli aristocratici, un segno distintivo che dava lustro al nome della famiglia. Come scritto sopra è negli anni Venta / Trenta del secolo scorso che nasce il mito delle vacanze al mare.

Vacatio, per paradosso, è uno «spazio vuoto» attraversato e pregno di tempo libero, cioè un tempo dotato di libertà, a differenza di quello dedicato al lavoro che è invece un tempo scandito dall’obbligo, dalla produzione, ecc…

Il tempo delle vacanze è il vero tempo libero, quello che ha in sé la pienezza, la pienezza di una scelta che si palesa nella chiacchierata con un amico, nella scelta di un bel libro, di una passeggiata sotto le stelle con chi si ama, di una nuotata con un figlio, ecc…

Le nostre vacanze non siano pagine vuote ma una sosta per ri-partire. Alberto Moravia (1907-1990), che nella sua opera letteraria mette in luce, con grande realismo, la vasta e variegata umanità delle periferie senza mai giudicarla, ci dà un consiglio su come vivere questo tempo di ferie. In uno dei saggi raccolti nel volume L’uomo come fine (1964), Moravia, riconosce che «per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione. La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino. Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati».

Dunque, buone vacanze a tutti/e come un momento libero dalle consuete occupazioni ma teso ad «accumulare energia» per cercare di comprendere come abitare, nel miglior modo possibile, il nostro mondo. Leggi tutto “Che cosa sono le vacanze? Breve storia di un mito, di un rituale, di un traguardo”

L’accountability fondata sui valori

Il bilancio sociale rappresenta il documento, da realizzare con cadenza annuale, nel quale l’amministrazione non solo fa una riflessione sul proprio operato ma riferisce le scelte effettuate, le attività svolte e i servizi resi. E’ uno strumento, di natura volontaria, che permette di rendere conto dell’attività svolta dall’istituzione scolastica, ma costituisce anche una modalità per costruire un dialogo costante con le famiglie e gli altri attori sociali che insistono sullo stesso territorio, basato sulla reciprocità e sulla trasparenza.

Il perno principale su cui ruota la rendicontazione sociale è l’accountability.

L’accountability definisce non solo il concetto di responsabilità ma anche di trasparenza, di sussidiarietà e di compliance. La comunità scolastica è chiamata alla partecipazione della governance, verificando la coerenza tra la mission, la governance e l’accountability.

Il bilancio sociale ricade nell’ambito del Sistema nazionale di valutazione (SNV), così come stabilito dal DPR n.80/2013. Tale Sistema prevede, in particolare, che tutte le istituzioni scolastiche (statali e paritarie) realizzino un’attività di analisi e di valutazione interna e definiscano un insieme di obiettivi e azioni di miglioramento.

Il bilancio sociale bilancia la missione di identità della scuola e le risorse per realizzarla e renderla sostenibile. I valori sono un elemento fondante dell’identità: sono i percorsi tracciati dal dirigente scolastico, sono il collante culturale di una scuola. Le comunità si costruiscono sui valori condivisi e promuovono una leadership condivisa presidiata dal dirigente scolastico, quale “custode dinamico” della sua scuola. Le risorse più importanti della scuola sono tre:

  1. il capitale professionale,
  2. il capitale organizzativo e
  3. il capitale relazionale.

Il primo è dato dalle capacità, dalle motivazioni e dall’impegno dei docenti e si mette in moto attraverso la leadership.

Il capitale professionale richiede capitale organizzativo di leadership educativa, riconoscendo dal basso le competenze delle persone attraverso la gestione dei gruppi; infine, il capitale relazionale è rappresentato dalla fiducia che si costruisce tra la scuola e gli stakeholder. La fiducia produce valore economico e sociale e deve essere costruita sulla base di comportamenti coerenti e sistematici. Il bilancio sociale rappresenta uno strumento di costruzione di fiducia con gli stakeholder, rispondendo alle loro attese attraverso l’assunzione di responsabilità. Il bilancio sociale trova il suo fondamento nel principio della sussidiarietà orizzontale: la scuola si deve porre al centro della governance territoriale.  Leggi tutto “L’accountability fondata sui valori”

Bilancio sociale: accountability amministrativa e accountability cooperativa

Dall’anno scolastico 2014/15, con l’attivazione del Sistema Nazionale di Valutazione in materia di istruzione e formazione (DPR 80/2013), tutte le istituzioni scolastiche (statali e paritarie), hanno avviato un’attività di analisi e di valutazione interna per definire un insieme di obiettivi ed azioni di miglioramento, secondo il percorso delineato dal Rapporto di Autovalutazione. Entro dicembre 2019 le scuole dovranno pubblicare sul portale “Scuola in chiaro” un rapporto di rendicontazione sociale per diffondere i risultati raggiunti, in relazione agli obiettivi di miglioramento individuati e perseguiti negli anni precedenti, sia in una dimensione di trasparenza che di condivisione e di sviluppo della qualità del servizio offerto con la comunità di appartenenza.

I cambiamenti economici e sociali in atto nel nostro Paese hanno fatto crescere le richieste di accountability delle scuole, per poterne accertare l’effettivo contributo alla creazione di valore pubblico. Il termine accountability esprime anzitutto la responsabilità per i risultati conseguiti da un’organizzazione nei confronti di uno o più portatori di interessi, da parte di un soggetto o di un gruppo di soggetti che subiscono le conseguenze dirette (positive o negative) delle loro scelte e azioni, a seconda che i risultati desiderati siano raggiunti o disattesi. In questo senso, l’accountability segna un cambiamento radicale delle responsabilità del personale, passando dalla conformità a procedure amministrative, alla responsabilità di gestione dei processi, arrivando a puntare l’attenzione sulla capacità di incidere effettivamente sulla soddisfazione dei bisogni, sulla capacità di aggiungere valore sia rispetto a uno stato di bisogno iniziale dell’individuo, sia attraverso un cambiamento di ordine economico, sociale e culturale, nell’intera comunità di appartenenza.

In questo processo di accountability, che possiamo definire di tipo amministrativo, emergono chiaramente tre componenti: l’autonomia, la responsabilità e la trasparenza. Infatti, l’autonomia senza responsabilità rischia di tradursi in autoreferenzialità e la responsabilità senza autonomia pone problemi di attribuzione dei risultati e di assegnazione delle cause degli scostamenti; mentre la trasparenza (D.Lgs. 33/2013) è intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione, sui siti istituzionali, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti.

E’ doveroso, allora, evidenziare la differenza tra un approccio di accountability amministrativa, in cui la rendicontazione sociale è imposta centralmente e in modo uniforme a tutte le scuole secondo schemi rigidamente prestabiliti a fini di controllo e comparabilità, ed un approccio di accountability cooperativa, in cui la rendicontazione sociale recupera una fondamentale dimensione di condivisione, caratterizzandosi come un processo volontario che nasce dalla consapevolezza del dovere di render conto ai portatori di interessi (stakeholders) dell’uso che viene fatto dell’autonomia scolastica. Mentre l’accountability amministrativa puntualizza il ruolo della rendicontazione come funzionale alla “competizione di confronto”, l’accountability cooperativa focalizza l’esigenza delle scuole, di costruire attraverso il processo di bilancio sociale, rapporti fiduciari con i propri stakeholders.

La redazione del bilancio sociale negli istituti scolastici, perciò, è uno strumento capace di rendere più trasparente e comprensibile la loro complessa funzione educativa, favorendo un dialogo interattivo per la collaborazione fra tutti i soggetti coinvolti. La rendicontazione sociale, attraverso la pubblicazione di indicatori e dati comparabili, l’accessibilità a format valutativi omogenei dal punto di vista dei quadri di riferimento, dei tempi e dei luoghi di pubblicizzazione, è finalizzata essenzialmente a favorire la school choice, enfatizzando la dimensione di trasparenza, ma lasciando nell’ombra la dimensione di condivisione con la comunità di appartenenza (che pure è prevista dal DPR 80/2013).

In effetti, l’inquadramento della rendicontazione come fase terminale del ciclo di gestione della performance assume significato all’interno di una concezione di governance del sistema educativo che mira a promuovere meccanismi tipici del “quasi mercato”, che gli enti pubblici possono utilizzare per promuovere la competizione nella fornitura di servizi pubblici. Ad avviare una serie di riforme del settore educativo nell’ottica del quasi mercato, per favorire la “competizione di confronto” tra le scuole, è stato il Regno Unito, anche se la disponibilità a prendere in considerazione una molteplicità di offerte non sempre risponde a criteri di scelta razionali. Ad esempio, le famiglie potrebbero scegliere per i propri figli la scuola più vicina alla propria abitazione e non necessariamente quella che offre maggiori potenzialità di sviluppo del capitale umano. Inoltre, la libertà di scelta è possibile se esiste differenziazione istituzionale all’interno del settore, che implica da un lato il riconoscimento di autonomia alle singole istituzioni scolastiche, dall’altro la conoscenza da parte degli utenti e di altri stakeholders delle specificità del progetto educativo, del valore aggiunto prodotto dalle istituzioni (rendimenti scolastici attesi) e delle capacità professionali e organizzative dispiegate per soddisfare i bisogni (disponibilità di mense, attività extracurriculari, sicurezza e disciplina all’interno della scuola, ecc.).

La trasparenza e la rendicontazione della performance all’interno di un sistema di quasi mercato hanno lo scopo di accrescere il livello di razionalità delle scelte, dimostrando, in modo trasparente, il ritorno educativo che la scuola è stata capace di assicurare, valorizzando al meglio le risorse di cui disposizione: umane, finanziarie e di contesto sociale. In sostanza, trasparenza e rendicontazione della performance svolgono nel quasi mercato una funzione analoga a quella che svolgono i prezzi nei mercati. Le assunzioni di fondo di questo sistema sono che tutte le famiglie:

  • desiderino un elevato livello di qualità dell’istruzione per i loro figli;
  • siano motivate a informarsi, a comprendere le differenze istituzionali, il diverso valore aggiunto educativo e la performance degli istituti scolastici;
  • siano in grado di confrontare i dati su Scuola in Chiaro, altrimenti potrebbe generarsi un aumento della segregazione sociale e una crescita di iniquità dell’istruzione, con il risultato che ad approfittare della trasparenza e della rendicontazione della performance sia la parte che ne ha meno bisogno.

Mettere al centro dell’accountability cooperativa il bilancio sociale degli istituti scolastici, significa dimostrare la capacità della scuola di realizzare un equilibrio tra missione educativa e disponibilità delle risorse per sostenerla nel tempo. Risorse che non possono essere viste, riduttivamente, solo in termini finanziari; esse sono soprattutto di tipo intangibile, legate, cioè, alla qualità delle risorse umane, dei sistemi organizzativi e dei rapporti con gli interlocutori sociali (personale, studenti, famiglie, altre scuole, enti locali, imprese, ecc.). 

La pubblicazione e la divulgazione del bilancio sociale diventa un evento importante della vita istituzionale, un’occasione per cementare i rapporti con gli stakeholders e costruire la legittimazione sociale della scuola, dando voce ad opinioni, dubbi e perplessità. L’istituto scolastico che, attraverso il processo di rendicontazione sociale, impara ad aprirsi alla società, si mette nelle condizioni di spiegare, giustificare, sciogliere le molte incomprensioni e i giudizi spesso infondati degli interlocutori sociali meno informati e poco attenti alle vicende della scuola.

E’ fondamentale sottolineare che mentre il ciclo di gestione della performance risponde al principio di sussidiarietà verticale e all’esigenza propria dell’esercizio di ogni funzione pubblica di rendicontare, in un’ottica di decentramento amministrativo, l’efficace ed efficiente utilizzo delle risorse pubbliche, l’approccio del bilancio sociale trova il proprio presupposto nel principio della sussidiarietà orizzontale e, dunque, nella necessità che la scuola-comunità si ponga al centro della governance territoriale per indirizzare i complessi problemi sociali che coinvolgono i servizi educativi.

Gli istituti scolastici che non si fermano alla rendicontazione della performance, ma intraprendono un percorso di convinta apertura alla comunità locale, sono in grado di sviluppare al proprio interno l’antidoto alle logiche dell’adempimento formale e della vuota trasparenza che rischiano di trasformare il ciclo della gestione della performance in un freddo rituale. L’intero sistema scolastico perderebbe un’opportunità preziosa per ripensare l’idea stessa di scuola come crocevia della sussidiarietà verticale e orizzontale, scuola-istituzione al centro della coesione sociale e dello sviluppo economico dei territori.

Leggi tutto “Bilancio sociale: accountability amministrativa e accountability cooperativa”

Una riflessione sull’identità dell’uomo della società liquida. L’educazione continua…

Viviamo in una società di cristallo, sottile, elegante, preziosa e fragile da far “paura”.

La nostra Era è evoluta e tecnologica, l’uomo ha mente e intelligenza digitali, pensieri veloci e un’emotività e identità deboli, decorate ad arte da taglienti interessi di potere economico.

Tutto è liquido: consumo, sentimenti, rapporti, amori, relazioni, paure. Tutto è veloce: scambio di informazioni, spostamenti, pensiero.

La società liquida dove tutto corre e scorre, compreso il cambiamento, costruisce e genera l’uomo moderno “l’uomo della velocità”. Mentre scrivo però, per questo uomo, in continuo mutamento, sarà già stato coniato un altro nome “l’uomo liquido”.

Di certo le pressioni continue e le spinte dell’odierno sistema sociale hanno anche prodotto identità sempre più fragili. Sono sempre più le persone che vedono nell’incertezza, data dalla nostra epoca, un fattore che blocca le scelte personali e poche quelle che riescono a vederci un ventaglio di possibilità da cogliere.

In pratica il percorso parte sempre da un Io che coincide con l’esserci, per passare ad un Tu che è l’esserci–con e infine giungere ad un Noi l’esserci–per, ma è proprio quest’ultima dimensione, che apre alla generatività, alla creatività ed all’oblatività, ad essere più in crisi. L’uomo di oggi nell’evolvere verso e dentro queste dimensioni incontra le componenti della società liquida:

  • il narcisismo digitale e virale frutto dei nuovi sistemi di comunicazione che generano una componente sociale tecnoliquida;
  • le nuove forme di relazione virtuali e light nate dalla tecnomediazione;
  • e ancora, l’emergente ipersessualizzazione, la cyberpornografia, la bellezza che sfida il tempo, la ricerca di stimoli ed emozioni forti.

Dunque l’esserci che coincide con la nostra identità in questa piena ed esplosiva modernità assume un nuovo aspetto e così anche il suo evolvere nelle fasi della crescita e in quelle dell’invecchiamento. Osservazioni condotte, studi e ricerche recenti ci inducono a credere che il domani della società tecnoliquida promette all’io di “esserci” con una identità instabile, considerato che l’unica dimensione possibile è quella liquida.

La relazione si espleta senza essere in relazione “ in rete”, la sua costruzione è spesso fatta di legami liquidi mutevoli e fragili, ambigui e momentanei che servono solo a soddisfare i mutevoli bisogni individuali. È, dunque, fragile il nostro “essere con” perché crea legami affettivi instabili.

Viviamo più a lungo, abbiamo conoscenze e strumenti utili al benessere, abbiamo maggiori possibilità di scegliere, ma vi è un limite che va colmato, un limite che sta dentro alla capacità e al criterio di scelta: “l’esserci per”. Il criterio di scelta coincide con un criterio progettuale, identitario, il criterio del pensare per sviluppare idee.

Il criterio di scelta è, anche, ma non solo pensiero critico, esso è una dimensione più vasta, più complessa; è un’ottica, una “postura mentale”, è un dovere, un diritto dell’individuo che non va inteso come “allegato” della società, della comunità.

L’educazione permanente ci guida nell’interpretazione della realtà e ci permette di andare incontro a questo cambiamento. Essa trova i suoi presupposti fondamentali nel principio dell’uguagliamento delle opportunità, nel principio della globalità e nel principio della partecipazione e fissa il suo obiettivo nel raggiungimento dell’autonomia di ogni persona (scelta critica).

Viviamo un sistema formativo che, ancora, divide e/o uniforma le persone invece di favorirne l’individualità, la creatività e lo scambio reciproco. Il nostro è un sistema più orientato alla produzione di risorse materiali che alla preparazione di risorse ideali e spirituali, estetiche, artistiche, orientate alla cittadinanza, all’incontro con l’altro e alla comunicazione.

Maurizio Bongiovanni, Online, 2016, oil on canvas, 50×70 cm

Maurizio Bongiovanni, Online, 2016, oil on canvas, 50×70 cm

“Attraverso i social si “teatralizza” la quotidianità, si “costruisce” una propria specifica immagine a discapito di spontaneità e istantaneità. Proprio per questo a volte uso gli influencer come modelli per le mie opere. Si va a toccare la superficie delle cose. Penso al mare: la prima cosa che emerge è la schiuma. Ecco, a volte, si dà più importanza alla schiuma che alla profondità delle cose. Sono molto vicino all’elemento acqua. Ho letto tanto Bauman. I social si collegano all’idea di corpi liquidi, di relazioni liquide. La mia pittura vuole essere liquida.”

La nostra è una formazione limitata dentro tempi e spazi mentre la sua vera dimensione dovrebbe superare ogni confine, ogni barriera ed estendersi lungo tutto l’arco della vita.

Tra gli aspetti da valorizzare e, oggi, sempre più necessari all’educazione troviamo: l’interdisciplinarietà, l’interculturalità, l’interistituzionalità, l’internazionalità, l’intersocialità, l’intertemporalità.  Queste categorie segnano un’educazione che è prima di tutto coscienza sociale e politica, libertà, identità e coscienza globale.

L’educazione permanente non si identifica con un tipo particolare di educazione, essa è il rapporto che si instaura tra le diverse forme educative e, pertanto, comprende l’alfabetizzazione e l’educazione di base, la formazione professionale e la formazione in servizio, l’educazione sanitaria, l’educazione del consumatore, l’educazione familiare, l’educazione allo sviluppo personale, fisico e culturale, la letteratura, le belle arti, il teatro, le attività culturali, lo sviluppo comunitario, l’educazione politica e civica, l’educazione religiosa ed economica e tutto l’insieme dei programmi di educazione destinati essenzialmente agli adulti. L’educazione permanente è educazione allo spirito critico, all’autonomia, alla creatività, alla piena realizzazione di tutte le potenzialità degli individui. Essa genera la capacità di far fronte in maniera autonoma e creativa al cambiamento in tutte le fasi della vita.

Il modello educativo storicamente codificato, da tempo, non risulta più funzionale a rispondere da solo ai bisogni di un presente in continua trasformazione, un presente globalizzato, un presente virtuale, una società sempre più liquida e più fragile.

L’educazione permanente non va intesa, dunque, come parte del sistema educativo ma come strategia e strumento per un processo di trasformazione del sistema educativo nelle sue componenti formali o non formali.

Ciò ci riporta alla necessità pedagogica che formazione generale e professionale non vengano affrontate e organizzate come fatti indipendenti e non si può confondere il concetto di cultura con quello di formazione (es. escludere un lavoratore immigrato da una formazione filosofica).

Ogni individuo, in qualsiasi luogo della terra, impiegato in qualsiasi lavoro, possiede un sapere prezioso per se stesso e per gli altri. Ognuno ha qualcosa da imparare dall’altro e il dovere di partecipare al meglio alle scelte che lo coinvolgono direttamente e che riguardano l’intera società.

La base dell’educazione degli adulti è l’espressione, la comunicazione fra gli esseri umani, la presa di coscienza e l’approfondimento della relazione degli adulti con se stessi, con gli altri, con il resto del mondo.

Si tratta dunque di lavorare su due fronti: da una parte spiegare la realtà con tutte le sue dimensioni (psicologiche, sociali, culturali, politiche, ecc.), dall’altra far emergere valori e scelte utili alla vita di ciascuno, confrontandoli con quelli degli altri e con la risoluzione dei problemi concreti e quotidiani. Bisogna prendere in considerazione l’insieme della realtà, nei suoi problemi vicini o distanti, immediati o più lontani nel tempo.

Il bisogno di creatività permanente nell’educazione è dettato non solo dalla necessità di far sbocciare i talenti, ma serve, anche, a comprendere la complessità del processo produttivo, del processo di sviluppo, di quello innovativo e di ricerca. La creatività deve diventare patrimonio di tutti gli elementi che costituiscono la forza lavoro della struttura produttiva. Essa rappresenta il motore che genera “risorse umane”, capaci di scelte critiche e impegnate in un progetto comune di rinnovamento, anche educativo, della società.

Si definisce “apprendimento permanente” qualsiasi attività di apprendimento intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di costruire e mantenere un’identità stabile e critica, migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale oltre che occupazionale. Leggi tutto “Una riflessione sull’identità dell’uomo della società liquida. L’educazione continua…”

Rendicontazione sociale… fine o inizio del Processo?

Recita fine anno scolastico

Gli anni Novanta, nel nostro Paese, sono stati scenario di radicali cambiamenti che hanno interessato la Riforma della P.A.: il Decentramento amministrativo (L.59/97) con il conseguente trasferimento delle funzioni agli EE.LL.; l’Autonomia delle Istituzioni Scolastiche (L.59/97, art. 21) e il D.Lgs.112/98 che ha stabilito le competenze dello Stato e ha definito le funzioni degli Enti Locali.

Un esplicito messaggio volto all’implementazione della cultura della Responsabilità a cui nessuno può e deve sottrarsi. Responsabilità è azione autonoma consapevole di chi sa che, comunque, deve dare conto del proprio operato all’interno di uno “spazio d’azione” intrecciato al sistema complesso aperto di cui è “unità che combina un grandissimo numero di unità in un sistema vivente che è un sistema di auto-eco-organizzazione” (E. Morin).

Questa concezione di sistema aperto chiama in causa l’ambiente non solo come phisis (meramente fisico) ma come “orizzonte di realtà più vasto” in cui la soggettività emerge, soprattutto, dall’auto-organizzazione, grazie all’autonomia, all’individualità, alla complessità, alle incertezze e alle ambiguità diventando oggetto con le medesime caratteristiche. Secondo Morin, in tal modo, si supera la dicotomia soggetto/oggetto: l’oggetto non è più ente da manipolare e utilizzare e il soggetto non è l’ente privilegiato che poteva ergersi sul piano della metafisica. In un sistema complesso una piccola variazione può esercitare una grande trasformazione che concretizza un risultato finale osservabile, summa di una serie di reazioni che si sono attivate per cui il sistema cambia proprio perché reagisce.

La Scuola è un sistema complesso aperto, in essa interagiscono una moltitudine di componenti e numerosi processi attraverso relazioni non lineari, ma di rete e il tutto non è formato dall’unione delle parti ma dalla loro interazione. Tutti i sistemi complessi sono composti da agenti che operano parallelamente e, contemporaneamente, coordinati seppur in tempi diversi.

Questi processi attivano risposte attraverso “nodi”, collegamenti che modificano il comportamento in risposta ai cambiamenti e alle informazioni dell’ambiente in cui vivono. Gli attori coinvolti si adattano grazie all’apprendimento e all’evoluzione concretizzando l’auto-organizzazione del sistema.

Il comportamento organizzato è una proprietà che emerge spontaneamente dalle relazioni e fa sì che il comportamento emergente connoti un nuovo livello di organizzazione, auto-organizzandosi, appunto!!! E. Morin ha coniato l’espressione “morfogenesi sistemica” per indicare “l’unità complessa organizzata” sottolineando che si tratta di morfogenesi perché il sistema costituisce una realtà topologicamente, strutturalmente e qualitativamente nuova nello spazio e nel tempo.

E’ proprio questo che richiama la grande responsabilità della Rendicontazione che deve essere coerente alle esigenze Planetarie, deve dare risposte esaustive ai cambiamenti in atto nell’ottica dell’interdipendenza e della collaborazione contro ogni forma di omofobia, attraverso l’alleanza e la sinergia per favorire atteggiamenti preventivi utili a sé stessi e agli altri. Una rendicontazione sociale pensata, a priori, per concretizzare “forma mentis” e “modus operandi” capaci di “contagiare”.

Una rendicontazione di qualità, allora, è la tappa finale di un Progetto Agito grazie a diversi processi pianificati e finalizzati all’auto-analisi, all’auto-riflessione e all’auto-interiorizzazione di informazioni nuove e, al contempo, la sperimentazione delle stesse che, osservate, modificano qualitativamente le azioni promuovendo la maturazione di nuove competenze funzionali al miglioramento continuo. Un circuito virtuoso, uno scambio continuo di stimoli e risposte che azzerano la dicotomia soggetto/oggetto pervenendo all’unitarietà. Leggi tutto “Rendicontazione sociale… fine o inizio del Processo?”

“Scuola2030”: un portale open source di INDIRE per promuovere la formazione dei docenti sui temi di Agenda 2030

Scuola 2030

E’ on line dai primi di giugno, sul sito dell’INDIRE, il nuovo portale “Scuola2030” su cui i docenti possono reperire materiale di autoformazione, contenuti, risorse per rendere concreto l’insegnamento dell’Educazione alla Sostenibilità nelle classi. Il portale, open source, consente ai docenti che vi accedono tramite autenticazione SPID, di partecipare anche a specifici corsi e-learning che li preparino al delicato compito di formare le giovani generazioni ai temi dello sviluppo sostenibile.

Attraverso il sito Scuola2030, l’Istituto Nazionale per la Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa fornisce così un concreto supporto a scuole e docenti nell’approfondimento delle tematiche poste al centro dall’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU. I 17 obiettivi che la costituiscono (Sustainable Development Goal – SDG), condivisi dalla Comunità internazionale attraverso la sottoscrizione di 193 Capi di Stato e di Governo in rappresentanza di altrettanti Paesi aderenti all’UNESCO, sono oggi al centro di un profondo processo culturale globale.

E’ anche per rispondere a questa sfida che si è scelto di inserire nel Piano di formazione del MIUR la formazione degli insegnanti sui concetti e le metodologie chiavi dell’Agenda 2030, di cui il nuovo portale dell’INDIRE è strumento.

Ogni Paese, che ha sottoscritto gli accordi dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile, è chiamato, infatti, ad attuare una propria strategia correlata ai 17 Obiettivi. Tra questi ultimi, ruolo centrale ha, certamente, l’Istruzione di qualità (Goal 4) ed in particolare l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile, esplicitamente riconosciuta nel Target 4.7: “Entro il 2030, assicurarsi che tutti gli studenti acquisiscano le conoscenze e le competenze necessarie per promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso, tra l’altro, l’educazione per lo sviluppo sostenibile e stili di vita sostenibili, i diritti umani, l’uguaglianza di genere, la promozione di una cultura di pace e di non violenza, la cittadinanza globale e la valorizzazione della diversità culturale e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile”.

Occorre cioè far sì che gli individui divengano agenti di cambiamento, dotandosi di conoscenze, competenze e abilità che consentano loro di agire responsabilmente per garantire l’integrità dell’ambiente, lo sviluppo economico sostenibile, una società più equa, che tuteli i diritti, la pace, la salute, le diversità culturali.

In Italia il ruolo centrale della Scuola nell’accompagnare, studenti, docenti, cittadini e comunità verso una maggiore responsabilità e attenzione alle questioni ambientali e al buon governo del territorio è sempre più pregnante anche nelle azioni del MIUR che ha introdotto l’Educazione ambientale tra le materie scolastiche, mettendo quindi a “sistema” l’obiettivo 4.7 dell’Agenda 2030. Insieme al Ministero dell’Ambiente, inoltre, il MIUR ha elaborato delle Linee guida per l’Educazione Ambientale e sottoscritto la Carta nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, cui si ispirano molte delle iniziative concretamente realizzate nelle Scuole (PON Scuola 2014/2020) e messe in campo dalle Istituzioni chiamate a darvi attuazione. Tra queste anche l’Asvis (l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, cui aderiscono 180 soggetti, tra cui INDIRE), che ha collaborato concretamente alla realizzazione del portale.

L’Agenda 2030 pone, oggi, una sfida epocale: trasmettere a tutti gli studenti le conoscenze e le competenze necessarie a promuovere lo sviluppo sostenibile, mettendo al centro il benessere delle persone e del pianeta. Un cambiamento culturale che coinvolge i sistemi educativi ma che deve essere compreso a tutti i livelli della società: nelle scelte culturali ed educative ma anche in quelle economiche, sociali, di governance del territorio.

Alla Scuola spetta il compito di

  • recuperare il rapporto con l’ambiente;
  • comprendere e trasmettere la complessità e l’interdipendenza delle sfide globali;
  • stimolare scelte di vita consapevoli; imparare a valutare criticamente informazioni e comportamenti;
  • riscoprire il “senso del limite”, non inteso come “vincolo” ma come elemento essenziale per far rifiorire intorno ad esso ogni proposta di cambiamento.

Con il portale “Scuola2030” ai docenti, impegnati in un percorso di life-long learning, viene, dunque, consegnato uno strumento che consente loro di aggiornarsi e contribuire così a costruire comunità e conoscenza attorno ai temi dello sviluppo sostenibile, su cui si prospetta, anche nel 2020, un animato ed interessante dibattito pubblico.

Antonietta Marisa Mazzaglia

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Una nuova dirigenza per la cittadinanza

Una dirigenza di qualità

La pubblicazione della nostra Rivista coincide con i brillanti risultati  e le spettacolari performance professionali delle nostre e nostri Discentes che stanno onorando gli studi, la  passione, l’impegno profusi per coronare non solo una propria aspirazione, ma per sentirsi protagonisti e responsabili, dal prossimo primo settembre, della conduzione di comunità scolastiche, che vorranno fare dell’educazione alla cittadinanza una “mission” che caratterizzi i PTOF.

Abbiamo voluto dedicare questo 11° numero della Rivista “ArtedoUniversoScuola”, proprio al rilancio dell’educazione alla cittadinanza, sia per onorare la ricorrenza della Festa della Repubblica, che ha nei principi Costituzionali la sua mission, sia per un confronto con la scuola reale sulle tematiche dell’educazione civica di cui si sta parlando in Parlamento con un rilancio “nostalgico” dell’educazione civica.

A mio modesto parere la competenza di cittadinanza, che è stata anche rilanciata dalla recente Raccomandazione Europea del 22 maggio del 2018 come “capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente alla vita civica e sociale, in base alla comprensione delle strutture e dei concetti sociali, economici, giuridici e politici oltre che dell’evoluzione a livello globale e della sostenibilità”, non necessita di una nuova legge, ma di un ripensamento sulle esperienze formative realizzate in questi ultimi dieci anni dopo l’emanazione della legge 169 del 2008 che aveva, nel suo primo articolo, rilanciato l’acquisizione delle competenze di “Cittadinanza e Costituzione”.

Sarebbe opportuno discutere perché le competenze di Cittadinanza, nella stessa legge, sono state poi contraddette dagli articoli successivi con i quali si ritornava al voto sommativo espresso in decimi e si ripristinava il voto in “comportamento”. Sarebbe stato opportuno, invece, discutere quanta formazione è stata svolta per migliorare un nuovo approccio didattico per le competenze di cittadinanza. Cosa si è fatto per valorizzare le best practice delle tante esperienze formative condotte dalle scuole; penso ai progetti “Le(g)ali al Sud” sui gemellaggi tra le scuole del Sud e le scuole del Nord.  Sarebbe stato opportuno discutere sul curricolo implicito e sul nostro essere comunità scolastica e “palestra di cittadinanza”.

E ho molto apprezzato l’articolo, inviato alla nostra rivista, dall’ispettore Franco De Anna, che ringrazio per l’onore assegnatoci, in cui ci invita a riflettere sul rapporto che ci deve essere tra “città”  e “cittadinanza”, e sulla “cittadinanza” che non è una “appartenenza”, ma è una “militanza”.

Invece, l’aspirazione a diventare cittadini consapevoli, responsabili, partecipi, creativi si è scontrata con una valutazione semplicemente numerica, sommativa e  in questi giorni di cronaca scolastica si è registrata, addirittura, la gravissima sospensione di una professoressa “per non aver vigilato sulla produzione culturale dei suoi studenti”, lanciando messaggi subliminali contro la libertà d’insegnamento e di pensiero, che sono alla base dell’educazione civica e dell’educazione alla cittadinanza consapevole.

La scuola non si sottrarrà ai nuovi impegni e a fare al meglio il suo dovere di far apprendere alle nuove generazioni le competenze di cittadinanza, creando comunità che sollecitino l’importanza dei valori consapevoli dell’appartenenza, della partecipazione, della solidarietà, della cooperazione anche come antidoto ad una società sempre più schiacciata sull’individualismo, sulle divisioni, sull’odio.

Ai nuovi Dirigenti e saranno tantissimi, ma soprattutto a quanti ho avuto il piacere di conoscere in questo bellissimo viaggio formativo che si concluderà a Lecce il 22 e 23 Agosto con il Convegno “Una Dirigenza di Qualità”, auguro non solo che siano adeguati alle nuove sfide, ma che siano orgogliosi di affrontarle.

AD  MAIORA!!! Leggi tutto “Una nuova dirigenza per la cittadinanza”

“Io non sorveglio… ma sveglio!”

La Costituzione

Presidente della RepubblicaProfessoressa di Palermo

Sono trascorsi sessanta anni da quel lontano 1958, quando il ministro dell’Istruzione Aldo Moro decretò con il suo D.P.R. n.136, l’introduzione dell’educazione civica nelle scuole dando inizio all’avventura di una disciplina che avrebbe dovuto essere considerata trasversale, ma che nella realtà è sempre stata collegata alla sensibilità di alcuni docenti, senza lasciare un vero “segno” di senso civico a vantaggio di tutti gli studenti.

Nel 2019 l’educazione civica sarà resa obbligatoria nella scuola primaria e secondaria, rappresentando nuovamente un’opportunità educativa, inserita nel curricolo formativo di tutti gli studenti, dove lo studio sistematico della Costituzione, dei diritti umani, dell’educazione digitale e alla legalità contribuiranno a formare un cittadino italiano attivo e responsabile.

Lo stesso Presidente Sergio Mattarella ha sottolineato i valori di Patria e Nazione, dove il sentirsi parte di una “comunità” significa voler condividere valori, diritti e doveri pensando ad un futuro comune da poter costruire insieme. Nella parola “condivisione” è implicito il concetto di “responsabilità”, poiché ognuno, in misura diversa, è protagonista responsabile del futuro del nostro Paese.

Attraverso la prospettiva della cittadinanza attiva si propongono processi di cambiamento, educando i cittadini e promuovendo comportamenti ispirati ai principi di un’economia, di uno sviluppo e di una società sostenibili. La Scuola, nel suo importante ruolo, deve stimolare il senso critico, educare al bene comune, al rispetto dello Stato e del territorio stabilendo un ponte con i problemi che attraversano la vita della comunità, sia a livello locale che planetario.

C’è bisogno di un forte senso delle Istituzioni e ad ognuno è richiesto di impegnarsi perché il rispetto della democrazia e della Costituzione, con i suoi principi di uguaglianza, libertà e giustizia, in essa sanciti, restino punti fermi di scelte e progetti politici ed economici.

L’11 maggio 2019 un’ombra ha offuscato la nostra Carta Costituzionale, vedendo come protagonista una docente di italiano, la prof.ssa Rosa Maria Dell’Aria, sospesa dall’incarico per quindici giorni, con assenza di retribuzione, a seguito di un’ispezione disposta dall’U.S.R. di Palermo, per il mancato controllo su una ricerca effettuata dai suoi studenti, in cui si tracciava un parallelo tra le Leggi razziali del 1938 e il Decreto sicurezza e immigrazione del 2018.

Il provvedimento posto in essere nei confronti della professoressa Dell’Aria, ha apertamente violato l’art. 33 della Costituzione che tutela la libertà dei docenti dalle interferenze del potere politico, di qualunque orientamento esso sia: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento…”

Ma cosa avrebbe dovuto vigilare la docente? Avrebbe dovuto censurare il pensiero degli studenti, condizionandolo? La scuola deve formare cittadini capaci di costruire un mondo migliore di quello ereditato e promuovere il loro pensiero critico affinché possano sviluppare ragionamenti e imparare a pensare con la loro testa.

In risposta a questo caso, diventato di interesse nazionale, il mondo della scuola supportato da varie associazioni e consulte, ha risposto firmando appelli diretti  al Presidente della Repubblica perché venga ritirata la sanzione inflitta alla docente, ritenuta da molti, un atto dal significato altamente intimidatorio per i tanti colleghi che lavorano con impegno, ogni giorno, per la diffusione della libertà di pensiero.

Il 21 maggio 2019 è stata organizzata un’iniziativa a sostegno della prof.ssa Dell’Aria, che ha preso il nome di “Teacher Pride”, dove si invitavano i docenti di ogni ordine e grado a leggere nelle proprie classi, alle ore 11, gli artt. 21 e 33 della Costituzione, dando così vita ad un momento di riflessione e confronto.

In questo clima mi torna alla memoria un uomo comune, ma grande pedagogista, il maestro Mario Lodi che ha fatto della gentilezza e delle norme civiche la sua arma in un clima fortemente politicizzato. Il maestro Mario Lodi, da studente, si era ribellato  alle manifestazioni per la guerra organizzate dall’Italia fascista; diventa maestro ai tempi della “Marcia su Roma” rifiutandosi sempre di praticare l’ideale fascista “credere, obbedire e combattere”.

Da quei “no”, nasce la sua scuola, fatta di regole democratiche, delle mani alzate per parlare, dei dubbi, dei confronti, delle ricerche, delle possibilità date agli studenti di poter esprimere le proprie idee. Trascrive i principi della Costituzione in un linguaggio comprensibile ai bambini, così  che possano conoscere, e fare propri, i loro diritti e doveri in quanto futuri cittadini del mondo.

Questi sono i docenti che servono al Paese, che emergono come sussulti di resistenza, che risvegliano le coscienze dal torpore dell’indifferenza e dall’inquietante convinzione che il domani non riserverà nulla di buono, generando un forte senso di frustrazione e di depressione pubblica che svuota la nostra società della sua linfa vitale, facendoci accettare l’inaccettabile.

Non siamo ancora disposti ad arrenderci, vogliamo credere in un futuro diverso senza inutili proclami e iniziative propagandistiche, come quelle dell’ultima ora.

La Scuola non può imporre motivi ideologici o religiosi, ma è suo dovere insegnare la Carta Costituzionale italiana ed europea sino a farne una “bussola valoriale” per “… la città interiore che ogni uomo porta dentro se stesso…”, come affermava  Platone nella “Repubblica”, e ricordare sempre le parole che pronunciò il Presidente Mattarella, rivolgendosi ai poteri Statali: Nessuno è al di sopra della Legge!

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Educazione alla cittadinanza (e raccolta differenziata)

La cosa difficile non è comprendere le ragioni della raccolta differenziata: è tutto sommato semplice condividerne, in linea di principio, la necessità e i potenziali vantaggi. Il difficile sta nell’assumerne il rigore applicativo. Necessario e vincolante: una bottiglia di plastica nel posto sbagliato, e il risultato è compromesso. Rimane l’esortazione che però rischia di diventare “predica”.

Pensiero simmetrico mi è balenato nel considerare le “novità” dei provvedimenti sull’educazione civica, sulla cittadinanza, ecc…. Si tratta di una pluralità di interventi accomunati da “titoli” tra loro connessi, utilizzabili per una comune predicazione, ma che hanno significati differenziati.

Alla base di tutto ciò mi pare stiano tre ispirazioni di fondo, certo non alternative, ma che sottolineano aspetti diversi del significato e degli obiettivi che si vorrebbero perseguire con tale iniziativa.

La prima, importante ma dal punto di vista culturale di portata ristretta, muove dalle preoccupazioni relative ai “comportamenti” giovanili che, con le contraddizioni e le “deviazioni” misurate nella vita quotidiana della scuola, sono state variamente elaborate negli ultimi anni, con rilevanza, enfasi e ridondanza mediatica: il bullismo, l’uso disinvolto delle tecnologie della comunicazione, ecc.

Con questo significato, le proposte relative a Cittadinanza e Costituzione sembrerebbero dirette a dare il “conforto” di un piano culturale più elevato al richiamo generale rivolto alla valutazione del comportamento (l’enfasi sulla disciplina dei comportamenti).

La seconda interroga l’oggetto, che ormai è catalogato come “Cittadinanza e Costituzione” sotto il profilo delle discipline di insegnamento, dal Diritto, all’Economia, alla Storia, in relazione alla loro effettiva presenza nel curricolo, per scoprire una verità da sempre presente.

E cioè che nel nostro ordinamento tali discipline non sono presenti e se lo sono hanno rilievo “specialistico” (negli indirizzi economico-giuridici della secondaria superiore) ma non nella “formazione di base”. Oppure, come nel caso della Storia, non hanno “sagomature” capaci di riflettere e portare in rilievo le questioni connesse all’oggetto.

Né il richiamo (più tradizionale) all’Educazione Civica, né quello più recente alla necessità di sviluppare l’insegnamento della storia del ‘900 sembrano “centrare l’obiettivo”.

Certo la storia del ‘900 è caratterizzata dall’affermazione dei “diritti sociali di cittadinanza”, almeno nella seconda metà del secolo: ma appunto è quella parte di storia che in generale sfugge all’elaborazione approfondita dei “programmi”.

E d’altra parte, se si dovesse approfondire il problema del rapporto tra cittadino e Stato potrebbe avere altrettanta importanza lo studio della Guerra dei Trent’anni e della pace di Westfalia…

La terza ispirazione, sullo sfondo, è il messaggio che proviene dall’UE, con la determinazione del repertorio delle “Competenze di cittadinanza” definito per la conclusione del ciclo obbligatorio di istruzione. Come spesso succede alle determinazioni europee, mi pare però che, anche e soprattutto per questo argomento che affonda le sue radici di senso nelle diverse formazioni storico sociali dei paesi membri, l’istanza di produrre indicazioni all purpose conduca ad affermazioni rarefatte di significato e in definitiva povere di specificità.

Le competenze di cittadinanza, in quelle indicazioni, si collocano in tre dimensioni:

  1. la persona in sé stessa,
  2. la persona nel rapporto con gli altri,
  3. la persona nel rapporto con il lavoro.

Nulla da eccepire naturalmente: ma quelle coordinate sono null’altro che le coordinate della “formazione” in quanto tale. Potremmo applicarle, in chiave “educativo-formativa” ad ogni campo disciplinare.

Ho provato, in altre circostanze, a proporre un esercizio: separate dal termine “educazione” i contenuti definiti come “educazione civica”, “educazione alla cittadinanza”, “cittadinanza e Costituzione”, e così via…. E guardate a “ciò che resta”. Provate anche a fare il contrario: quando date alla scuola le funzioni dell’istruzione, dell’educazione e della formazione, provate a specificare cosa intendete.

Tentavo, con un po’ di presunzione, di ricondurre la discussione tra i pro e i contro alle misure appena varate dalla Camera, ad un comune convenire di cosa fosse “educazione”.

Anche per evitare che i riferimenti fossero alla “casistica” contingente dei “giornali che svolazzano e i francesi che si incazzano”: dalla madre che assalta la docente, alla banda di mini delinquenti, o all’abolizione (finalmente…) di un Regio Decreto sulle “punizioni” cui solo i burocrati del “visto… visto… visto” serbavano memoria.

Siamo, da “gente di scuola”, tributari di un “mito” pedagogico nel quale l’educazione è funzione della città. (A termini capovolti, cioè).

Non è qui luogo di analisi approfondite. Mi limito a tre citazioni e invoco/evoco il pensiero dei lettori. (Con le scuse del caso…).

“La città, nel suo insieme è una impresa educativa” (Tucidide II, 41).

“Quando i ragazzi abbiano lasciato i maestri, la città li obbliga ad apprendere le leggi… anzi… e chi traligni da esse, punisce, e a tale punizione si dà il nome di raddrizzare” (Platone, Protagora).

“Non è con la cooperazione nel lavoro produttivo di ricchezza che il membro della comunità (il cittadino) si riproduce, ma con la cooperazione nel lavoro dedicato agli interessi collettivi…” (K. Marx, Grundrisse….).

Educazione e città sono, nel mito di fondazione della nostra cultura, strettamente unite.

E la funzione educativa della città sta nella piazza, nell’assemblea, nel teatro, nel tribunale, nello stadio, nell’impegno per gli interessi collettivi (in quel contesto storico ateniese: la guerra…).

La scuola (i grammatici…) è importante, ovviamente, ma non ha la delega per la cittadinanza.

Si veda il Protagora: la città è l’ortopedia del cittadino. I grammatici correggono le tavolette degli alunni, ma è la città che ne “forma” (raddrizza) il carattere da cittadini.

L’animale-uomo (zoon logon echon…) è biologicamente rudimentale e imperfetto: non ha zanne e artigli per cacciare, pinne, squame, corazze, ali per volare… ha arti non specializzati, sensi di non grande acutezza, un cervello di grandi dimensioni ma sempre in divenire, ed è afflitto da neotenia (un percorso alla adultità lentissimo e spesso mai concluso…).

I prodotti della sua civiltà (arte, scienza, tecnologia) sono stati costruiti combinando queste “imperfezioni”: il rapporto tra un arto non specializzato come la mano ed un cervello ridondante e plastico, e la sua neotenia (il percorso lungo verso l’adulto) compensata/scaricata in una gregarietà variamente interpretata: famiglia, certo, ma soprattutto clan, tribù, villaggio, città, Stato, ecc…

Sicchè le “tirate” un poco ideologiche come quelle che Tucidide mette in bocca a Pericle, o l’idealismo platonico hanno comunque una solida base materiale.

La scuola e l’istruzione hanno certo una grande funzione, ma la “formazione” del cittadino adulto è assegnata alla funzione educativa “della città”. (Non “alla città”). Alla dimensione collettiva.

Nel mito della “città educante”, la cittadinanza non è una “appartenenza”, ma è una “militanza”.

La doppia transizione storica, dalla città antica, a quella medievale, alla città della modernità, è contrassegnata dal progressivo specializzarsi dei luoghi, delle istituzioni, dei soggetti dell’istruzione ed educazione.

Dalle funzioni svolte dalla Chiesa (i Collegi dei Gesuiti sono un esempio fondamentale) ai sistemi nazionali di istruzione dopo la Rivoluzione francese, incardinati sui processi di costruzione degli stati nazionali.

Entro tale plurisecolare transizione si rielabora il mito “fondativo” della “città educante”, citato in precedenza, con una singolare trasposizione “speculare”: la “specializzazione” e la delega sociale all’istruzione e formazione “abilitano” la scuola e i luoghi dell’istruzione ad essere “pensati” (a volte organizzati…) come rappresentazioni di una sorta di “simulacro” della “città”. Una città virtuale.

Un “luogo”, cioè, dove ricostruire, nella “simulazione” educativa, i processi di formazione dell’uomo e del cittadino che nel mito della paideia ateniese erano esercitati dalla città stessa e dai suoi luoghi (l’agorà, l’assemblea, il tribunale, il teatro, lo stadio, la guerra…).

Un luogo “virtuale”, dunque, in grado di connettere il soggetto a valori, ideali, virtù di cittadinanza anche a “correzione” delle dinamiche sociali a-pedagogiche e spesso anti-pedagogiche che la “città reale” non esercita più, nella disarticolazione della sua “compattezza” (quella dell’Atene di Pericle, ma anche quella della “organicità” medioevale), dissolta nella città del mercato e della produzione capitalistica.
Si pensi alla distinzione – dalla Rivoluzione dell’89, ma in Hegel stesso – tra citoyen e burgeois, per indicare l’effetto di tale disarticolazione.

Se si guarda alle architetture dei Collegi dei Gesuiti si ha la rappresentazione visiva di ciò: cortili, aule, spazi, corridoi, ricostruiscono una “città”. Una comunità simulata con le sue regole, le sue simboliche, i suoi linguaggi. Analogo potrebbe essere il ragionamento per la struttura del college anglosassone (per gli appassionati: c’è un pensiero di Gramsci in proposito…).
Solo per provocare: in tale percorso non vi è traccia della “famiglia” se non nelle fasi più che precoci dell’infanzia.

La “neotenia” strutturale è sempre compensata da un ambito collettivo più ampio. E del resto, a chi ne invoca il ruolo educativo, a quale famiglia ci si rivolge? Non rappresentano certo medesima occasione formativa la famiglia multi generazionale e a insediamento plurimo (il casolare comune pluri famigliare della società contadina) e quella urbana-nucleare. Ruoli formativi assolutamente non sovrapponibili. Accostabili solo nelle “invocazioni” vanveriste… o attardate in un cattolicesimo post Concilio, ma di Trento.

Un’ipotesi formativa, quella fondata sulla città, che implicava anzi esplicitamente la “separazione” del soggetto in formazione dai suoi contesti di appartenenze “ereditate”, per immetterlo, appunto, non solo in percorsi di istruzione cadenzati e organizzati in una “tecnologia” specializzata (la didattica vedi Ratio Studiorum gesuita), ma anche in una collettività densa di relazioni, sia simmetriche che asimmetriche, di regole e norme, di attività “collaterali” al curricolo in senso stretto, ma di significato intensamente “formativo” nella loro mescolanza di “successo” e “frustrazione”.

Così nel college anglosassone, così nel Collegio dei Gesuiti. Fuori dalla famiglia, comunque.

L’organizzazione della dimensione collettiva nella formazione da un lato simula la “città ideale”, dall’altro attrezza e forma la dimensione della “noità” che è “premessa formativa” della sua conclusione di successo nella “cittadinanza”.

La dimensione della noità ha una componente “strutturale” (la gregarietà connessa alla neotenia…) che è in sé a-pedagogica e a volte anti-pedagogica. La sfida si fa via via più significativa nei passaggi dall’infanzia all’adolescenza. Ai quali presiede Dioniso, non Apollo.

La sfida pedagogica è proprio quella di come ricondurre la dinamica della noità alla dimensione della cittadinanza. A partire dalla consapevolezza fondata dei caratteri intrinsecamente “selvatici” delle dinamiche della noità lasciate operare senza ricomposizioni accorte del rapporto Dioniso/Apollo.

Siamo (quelli della mia età…) venuti grandi con Huckleberry Finn e Tom Sawyer… E che dire dei Ragazzi della Via Paal, per tacere di Pinocchio e Giamburrasca… Siamo venuti grandi con il bullismo… ritemperato (non negato…) in una noità “pedagogicizzata”.

A fondamento dell’educazione alla cittadinanza sta la formazione alla “noità”.

Per ricongiungersi all’argomentazione precedente potremmo sinteticamente affermare che la cittadinanza è “noità” più “padronanza deliberativa”.

Ma il richiamo al “noi”, all’“io e l’altro” nella dimensione costitutiva del soggetto, nel superamento “dell’onnipotenza del soggetto” nel percorso originario del suo costituirsi, rischia anch’esso di tradursi in chiave puramente esortativa.

L’altro può essere “il non chiamato”, l’intruso, lo specchio deforme. La costruzione della “noità” non è “naturale”.

Chi spara sugli immigrati in Calabria esercita la sua violenza sull’altro come immagine deformata e inaccettata di sé. Il simulacro di un suicidio.

La formazione alla noità è una “triangolazione”: io, l’altro, la “buona istituzione” (Levinas, Ricoeur, Todorov…).
Ed è qui che ritroviamo gli interrogativi sulla scuola. A quali condizioni cioè essa si configura come la “buona istituzione” di tale triangolazione per la costruzione della “noità”.
Si riannoda qui tutta la riflessione precedente sul rapporto tra curricolo esplicito e curricolo implicito, su processi di istruzione e formazione, contesto organizzato e valore istituente della formazione, su “città educante” e scuola come “simulacro ideale di città”.

Nella scuola riconfigurata come “città ideale” virtuale la domanda diventa dunque: cosa sono e come si riorganizzano, in quel contesto, l’agorà, l’Assemblea, il Tribunale, il Teatro, lo stadio, la guerra (l’impegno nell’utilità collettiva)?

Rispondere a tale domanda significa collocare sensatamente il termine “educazione” nella sua sinonimia con quello di cittadinanza.

Superando i repertori tassonomici (dall’educazione ambientale, alla Costituzione, all’educazione civica, a quella stradale, a quella economica…) che ne mortificano il carattere di valore complessivo dell’animale-uomo (politikon zoon).

Certo la risposta alla domanda è impossibile se si tenta di filtrarla entro la griglia sistematica dell’“enciclopedia” del curricolo (le discipline); dell’enciclopedia delle classi di concorso (le materie di insegnamento); entro le dimensioni spazio temporali organizzative (classi, ore di lezione, aule…) di un “taylorismo imperfetto” che subordina istruzione e formazione a una incastellatura formale tipica del procedurale amministrativo.

E viceversa: se si vuol tenere ferma tale incastellatura (fornisce qualche “protezione” conservativa…) si finisce per ridurre (o meglio a chiedersi “come ridurre?”) l’istanza dell’educazione a un repertorio disciplinare, più o meno articolato. (In generale per questa via i repertori si fanno sempre più ampi, e sempre meno realisticamente operativi. Deve starci tutto…).

Rielaborare sensatamente educazione e cittadinanza potrebbe essere, in tal senso, un’occasione per affrontare effettivamente la problematica dell’ambiente di apprendimento: non solo l’adeguamento spaziale e temporale, ma l’articolazione per l’esercizio pedagogico della noità.

Appunto: l’agorà, l’assemblea, il tribunale, lo stadio, il teatro, il lavoro collettivo… Del resto ambiente è uguale a spazi più tempi più relazioni tra chi li popola. Ma ciò richiede un poco di “toyotismo” (responsabilità collettiva di gruppo) e abbandono del “taylorismo imperfetto” e dei suoi dispositivi rassicuranti e protettivi. (Ritorno a chieder scusa delle provocazioni).

Sotto tale profilo mi permetto solo un paio di argomenti ulteriori.

Nella mia tradizione il percorso formativo alla cittadinanza era quello del soggetto verso la dimensione dello Stato. In una sorta di “acquisizione” progressiva. (“Dovuto” a mio padre).

È questa del resto la dimensione della cittadinanza propria della fase storica della modernità e della costruzione degli Stati nazionali.

Ma è processo che ha, sotto il profilo formativo del soggetto, aspetti specifici legati alle singole realtà storiche culturali e statuali e tutt’altro che equivalenti.

Statalismo e societarismo si dialettizzano nelle diverse culture nazionali in quella stessa fase storica, declinando il rapporto specifico tra Stato e Società Civile.

Lo statalismo “combinato” con una pedagogia emancipatrice della tradizione (rivoluzionaria) francese produce modelli di cittadinanza assai diversi dallo statalismo con pedagogia stabilizzatrice come nella tradizione “bismarkiana”.

Esattamente come il “societarismo” combinato con pedagogia emancipatrice determina forme di cittadinanza tipiche della tradizione anglosassone, (vedi Tocqueville…) e il societarismo in chiave stabilizzatrice è tipico dei paesi scandinavi.

Mi verrebbe da proporre agli “statalisti” nostrani più o meno manifesti e consapevoli, che partecipano a questo dibattito (per intenderci: quelli che “il disastro della scuola nasce con l’autonomia”…) di esercitarsi a contraddistinguere i modelli di cittadinanza nazionale italiana usando la combinazione delle categorizzazioni precedenti… E forse certe “difese” di principio dell’“unità nazionale” acquisterebbero fisionomie più collegate alla realtà e meno ideologiche.

Tabella

Ma, al di là della provocazione, vi sono due problemi nella stessa caratterizzazione dei valori di cittadinanza. (Quante “cittadinanze” vi sono?).

Il primo già accennato è il rapporto tra Stato e Società civile.

Dimensione critica: verificare quanto sia pregnante nella cultura nazionale il valore della sussidiarietà e dell’autonomia di organizzazione della società civile, e quanto di ciò si traduca nelle concezioni della cittadinanza (dunque anche nella “educazione alla…”). Rielaboriamo un costrutto di “cittadinanza sociale” che articola (va oltre? Ingloba? Affianca?) quello tradizionale che segna il rapporto tra il soggetto e lo Stato? Vale per tutta la tradizione “mutualista” per esempio… cattolica e di sinistra…

Il secondo è costituito dall’obsolescenza del modello “nazionale” della cittadinanza e l’articolazione del costrutto stesso. Come rielaborare la cittadinanza sovranazionale che accompagna il declinare (o l’articolarsi delle funzioni e delle competenze? O le cessioni di sovranità?) degli Stati nazionali? Quante delle condizioni della nostra vita quotidiana di cittadini sono determinate da momenti e organi di decisionalità sovranazionale e che, dunque, richiedono, per il controllo e la partecipazione, altre forme di “padronanza di cittadinanza?” (Largamente da inventare…).

Come si vede domande non semplici e cariche di senso.

Ovviamente i colleghi esperti di Storia, di Diritto, di Economia, di Pedagogia, potrebbero e dovrebbero dare più che una mano a tentare di rielaborare risposte assennate da calare nel processo di formazione della nuove generazioni (solo le nuove?…).

Ma per stare alla scuola e al suo quotidiano lavoro il problema di fondo è quello più volte citato: nella scuola cosa sono “l’agorà, l’assemblea, il teatro, il tribunale, lo stadio, il lavoro per l’interesse collettivo”? Che cosa ne svolge la funzione fondamentale nell’organizzazione dell’itinerario formativo dalla “noità” alla cittadinanza?

Ultima considerazione. Se ha senso la citazione di Marx riportata in testa a queste note (cittadinanza come impegno nel lavoro di interesse collettivo) e posto che, a differenza dell’Atene che decliniamo nel “mito pedagogico”, tale interesse collettivo di cittadinanza non è la guerra, perché lasciare la questione alla deformazione del messaggio dei nostalgici (la riproposizione della naja)? Perché non avere il coraggio di battersi per il potenziamento (obbligo?) del servizio civile per tutti?   Leggi tutto “Educazione alla cittadinanza (e raccolta differenziata)”

Sulle spalle dei giganti

Nel Disegno di Legge comunicato alla Presidenza della Repubblica il 19 Luglio 2018 (trasformato in Legge il 2 Maggio 2019) i senatori proponenti le nuove “Disposizioni in materia di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile e strumenti di democrazia diretta” sono saliti sulle spalle di un gigante della politica Italiana, Piero Calamandrei, e ne hanno preso in prestito alcuni principi per motivare le scelte.

Prendere in prestito significa per me riconoscere la paternità del principio, rispettarne la natura, obbligarsi  ad elaborare l’apprendimento, donare ad altri le proprie speculazioni. Non basta citare Calamandrei per conoscerne il pensiero altrimenti, come Gulliver tra Giganti Brob ding nag, misurarsi con la smisurata profondità, potrebbe generare effetti pericolosi ed illudere di essere Gigante Brob ding nag.

Eh si! Qualcosa non mi ha convinto. Confesso che non apprezzo, ad esempio, l’aggettivo “diretta”, orpello ipermoderno che ritengo adatto per “non-sostanze” che prendono forma (piena e vuota) dalla consistenza degli oggetti/concetti risolti.

Calamandrei nel 1950 sosteneva:

“La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione.

… nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi …

… anche la scuola … è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […]”.

Principi fondativi e profondi questi, indissolubili, che ribadiscono il valore degli organismi di mediazione costituzionale. E allora mi chiedo: “Qual è il senso dell’aggettivo “diretta” allora?

Prosegue Calamandrei:

“La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente… nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie.… A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità.  Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali …
… La scuola democratica …. crea cittadini …”

Calamandrei non apostrofa come diretta la scuola democratica.

Ciò che è apprezzabile è l’allargamento degli spazi di consapevolezza su Costituzione italiana, Istituzioni dell’Unione europea, cittadinanza attiva e digitale, sostenibilità  ambientale, diritto alla salute e al benessere della persona. Sul tema della cittadinanza digitale, in particolare, la norma apre all’opportunità di colmare un deficit culturale che per la velocità, viralità, aggressività degli effetti, necessita di interventi immediati. E’ proprio nell’impostazione antropologica e culturale che si possono trovare chiavi interpretative dei fenomeni digitali. Occorre elaborare un progetto educativo e civico perché si possa vivere da protagonisti questo nuovo tempo e questo nuovo spazio. Le struttura sociale intera deve rinnovarsi in eccellenza di pensiero ed azione, permettendo a ciascuno di esprimere dignità e talento nel rispetto dell’altro, affrancato dalla subordinazione imposta dall’ignoranza. La cittadinanza piena e consapevole pretende l’apprendimento di regole che scongiurino i pericoli derivanti dalla frequentazione di mondi virtuali e da un uso inconsapevole di strumenti digitali.

Istituzione madre preposta alla liberazione dei cittadini dai lacci di un uso acritico dei nuovi strumenti digitali e dalla subalternità tipica di  chi non sa, è la scuola che, parafrasando Calamadrei, torna ad essere complemento necessario del suffragio universale aiutando a scegliere, aiutando a creare le persone degne di essere scelte.

Calamandrei ispira i contemporanei dunque, ma, al tempo stesso, fa risuonare  la visione ed il lirismo di un altro gigante, Aldo Moro, che nel 1958 scrisse una pagina di straordinaria bellezza in premessa alla norma che introduceva l’educazione civica nella scuola.

“… L’educazione civica si propone di soddisfare l’esigenza che tra Scuola e Vita si creino rapporti di mutua collaborazione….  La Scuola a buon diritto si pone come coscienza dei valori spirituali da trasmettere e da promuovere, tra i quali acquistano rilievo quelli sociali, che essa deve accogliere nel suo dominio culturale e critico…. ”

Da qui in poi il florilegio di idee, di visioni, di emozioni:

“… Se ben si osservi l’espressione «educazione civica» con il primo termine «educazione» si immedesima con il fine della scuola e col secondo «civica» si proietta verso la vita sociale, giuridica, politica, verso cioè i principi che reggono la collettività e le forme nelle quali essa si concreta….”

La cittadinanza, sembra ammonirci Moro, è effetto primario di apprendimento.

Il passo successivo rasenta la perfezione ed è una investitura:

“ …. Se pure è vero che ogni insegnante prima di essere docente della sua materia ha da essere eccitatore di moti di coscienza morale e sociale; se pure é vero, quindi, che l’educazione civica ha da essere presente in ogni insegnamento, l’opportunità evidente di una sintesi organica consiglia di dare ad essa quadro didattico, e perciò di indicare orario e programmi, e induce a designare per questo specifico compito il docente di storia. È la storia infatti che ha dialogo più naturale, e perciò più diretto, con l’educazione civica, essendo a questa concentrica. Oggi i problemi economici, sociali, giuridici non sono più considerati materie di specialisti, in margine quindi a quella finora ritenuta la grande storia. L’aspetto più umano della storia, quello del travaglio di tante genti per conquistare condizioni di vita e statuti degni della persona umana, offre, quindi, lo spunto più diretto ed efficace per la trattazione dei temi di educazione civica …”.

In queste righe registro la profondità di un uomo che pur tecnico, fugge il tecnicismo di una materia e la consegna ad un divulgatore, ad un professionista che sincronicamente e diacronicamente stabilisce parallelismi e divergenze con la realtà.

E’ stato disatteso questo principio nella nuova norma o non è stata colta la necessità di sussumere su un piano più alto tutti i contenuti tecnologici e normativi. Ad esempio credo che il tema della cittadinanza digitale debba uscire dal pregiudizio e dal ghetto tecnologico e debba assumere una valenza antropologico-culturale, intesa come dotazione umana facilitante la trasformazione consapevole della realtà. Lasciare che la cittadinanza digitale rimanga materia di soli tecnici, rischia di svilire il senso e la portata della nuova rivoluzione culturale.

Precisa Moro:

“… l’impegno educativo non può essere assolto con retorica moralistica, che si diffonda in ammonizione, divieti, censure; la lucidità dell’educatore rischiari le eclissi del giudizio morale dell’alunno, e si adoperi a mutare segno a impulsi asociali, nei quali è pur sempre un potenziale di energia. Conviene al fine dell’educazione civica mostrare all’allievo il libero confluire di volontà individuali nell’operare collettivo. Se non tutte le manifestazioni della vita sociale hanno presa su di lui, ce n’è di quelle che però ne stimolano vivamente l’interesse. Il lavoro di squadra, per esempio, ha forte attrattiva in questa età, onde l’organizzazione di «gruppi di lavoro» per inchieste e ricerche d’ambiente soddisfa il desiderio di vedere in atto il moltiplicarsi della propria azione nel convergere di intenzioni e di sforzi comuni, e svela aspetti reali della vita umana”.

Come non rimanere basiti dalla potenza ipnotica di queste parole?

Chiamata a ricostruire l’iter normativo dell’educazione civica mi sono abbandonata ad una lettura suggestiva ed ho voluto riproporla a modo mio. Due giganti del passato mi hanno accompagnato ad attraversare l’evoluzione normativa che, pur tra mille distinguo, rimanda ai principi fondativi della comunità italica che non possono essere musealmente esposti ma devono tornare a vivere nell’agito quotidiano. Leggi tutto “Sulle spalle dei giganti”

A scuola … di cittadinanza digitale

Dice il pedagogista e filosofo Edgar Morin:

“Oggi viviamo in un mondo globale, interconnesso dalla rete, in cui le culture si mescolano generando figli planetari, … Viviamo in una società liquida (Bauman),  in cui i cambiamenti sono talmente repentini da costringerci a rivedere continuamente le nostre certezze. La scuola deve essere in grado di insegnare il senso della cittadinanza terrestre per preparare gli studenti all’era planetaria di intersolidarietà, che sorge dalla consapevolezza che tutti partecipiamo ad una comunità di destino. L’uomo deve acquisire una coscienza planetaria, facciamo parte tutti di una terra patria, siamo tutti cittadini della terra”.

E ancora:

“La vera rivoluzione della scuola deve avvenire cambiando la modalità di trasmissione del sapere: internet è un sistema di comunicazione universalmente condiviso che se usato appropriatamente accresce in modo esponenziale le possibilità dell’uomo, perché gli consente di accedere virtualmente alle informazioni dell’intero pianeta, per cui non solo la parte si trova nel tutto, ma il tutto si trova nella parte”.

In questo quadro si inserisce la necessità per la scuola di educare alla “cittadinanza digitale” che abitui gli studenti (cittadini dell’oggi e del domani) ad un uso consapevole e corretto della rete, comprendendone i vantaggi ma, anche, i pericoli.

Per “cittadinanza digitale” si intende quell’insieme di diritti/doveri che, grazie al supporto di una serie di strumenti (identità, domicilio, firma digitale) e servizi, mira a semplificare il rapporto tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione, tramite le tecnologie digitali. La cittadinanza digitale, estensione di quella “tradizionale”, scaturisce dall’ampliamento dei mezzi a disposizione del cittadino per l’esercizio di alcuni suoi diritti (partecipazione, informazione e interazione), nonché per espletare i suoi doveri.

Oggi il tema della cittadinanza digitale diventa di primaria importanza perché la qualità, fruibilità, accessibilità e tempestività dei servizi pubblici dipende dalla condizione “tecnologica” di chi ne usufruisce: l’eventuale disparità di trattamento dei cittadini nasce dalla loro incapacità di accedere alla rete, per cui è fondamentale che tutti acquisiscano le competenze digitali necessarie per esercitare i propri diritti.

Il MIUR riconoscendo l’importanza della tecnologia digitale quale strumento didattico per la costruzione sia di competenze generali che specifiche, ha proposto il Piano Nazionale Scuola Digitale (L. 107/2015)  “documento di indirizzo del MIUR per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale”, in sinergia con la programmazione europea e regionale e con il Progetto nazionale per la banda ultralarga.

Consapevoli che nessun processo educativo può prescindere dall’interazione docente-discente e, quindi, che la tecnologia non può distrarsi da questo fondamentale “rapporto umano”, il Piano risponde alla chiamata per la costruzione di una nuova visione di Educazione nell’era digitale, in cui la scuola, superando il ruolo trasmissivo, favorisca e sviluppi negli allievi la capacità di apprendere lungo tutto l’arco della vita (life long learning) e in tutti i contesti: formali, informali e non formali (life-wide learning).

Si tratta, perciò, prima di tutto di un’azione culturale, che parte da un’idea rinnovata di scuola, intesa come spazio aperto per l’apprendimento e non unicamente come luogo fisico. Le tecnologie, allora, diventano abilitanti, quotidiane, ordinarie, al servizio dell’attività scolastica (formazione, apprendimento, gestione, amministrazione) in modo da ricongiungere tutti gli ambienti della scuola.

Gli obiettivi non cambiano, sono quelli del sistema educativo: competenze, apprendimenti e risultati degli studenti, che determineranno l’impatto che essi avranno nella società come individui, cittadini e professionisti. Tali obiettivi vanno aggiornati nei contenuti e nei modi, per rispondere alle sfide di un mondo che cambia rapidamente, che richiede sempre di più agilità mentale, competenze trasversali e un ruolo attivo dei giovani. Per questo servirà che tutto il personale scolastico, non solo i docenti, si metta in gioco, e sia sostenuto, per abbracciare le necessarie sfide dell’innovazione: metodologico-didattiche per i docenti e organizzative per i dirigenti scolastici e il personale amministrativo.

Tra i nuovi contenuti scolastici entra a pieno titolo, in maniera trasversale a tutte le discipline, l’educazione alla cittadinanza digitale per rendere i soggetti in formazione cittadini in grado di:

  • esercitare la propria cittadinanza utilizzando in modo critico e consapevole la Rete e i Media;
  • esprimere e valorizzare se stessi utilizzando gli strumenti tecnologici in modo autonomo e rispondente ai bisogni individuali, sapersi proteggere dalle insidie della Rete e dei Media (plagio, truffe, adescamenti);
  • saper rispettare norme specifiche (privacy, diritti d’autore, ecc.);
  • essere cittadini competenti del contemporaneo.

La Scuola, quindi, è chiamata ad affrontare nuove sfide: la co-costruzione di una cittadinanza digitale, da realizzare a partire dai contesto formativo e dal rapporto che con esso le giovani generazioni (nativi digitali, come le ha definite Marc Prensky nel 2001) realizzano.

I “nativi digitali” sono soggetti che comunicano, interagiscono, apprendono secondo tempi e modalità differenti rispetto ad un recente passato in cui le tecnologie non erano parte integrante, come lo sono adesso, del nostro “quotidiano”. Per il nativo digitale imparare ad usare le posate o l’iPhone (il computer, il tablet, ecc.),  rappresenta uno stesso stadio di crescita, perché non percepisce la tecnologia come “altro”, come estraneo o diverso dai mezzi o dagli strumenti di comune utilizzo (penna, diario, quaderno).

E’ importante, però, sia per gli adulti che per i giovani comprendere che appartenere per motivi anagrafici alla categoria dei nativi digitali non significa essere soggetti automaticamente competenti in campo digitale. Le competenze digitali, infatti, per essere agite in modo critico e consapevole, vanno consolidate attraverso esperienze di formazione specifiche.

Il salto di qualità che genitori, docenti, rappresentati delle istituzioni dovrebbero compiere è quello di considerare se stessi non solo “immigrati digitali” (cioè persone che hanno fatto entrare le tecnologie nella loro vita, in modo consapevole, in una fase avanzata della crescita, per  un interesse personale e/o lavorativo, indotto dal cambiamento in atto) ma anche “pionieri digitali”, perché per la prima volta sono chiamati ad educare alla cittadinanza digitale figli, allievi, nuovi cittadini, progettando, realizzando e verificando nuovi approcci educativi-didattici-comunicativi, attraverso l’uso di tecnologie in veloce e continua evoluzione.

La cittadinanza digitale, perciò, necessita di una “digital literacy” e, quindi, al contempo di un pensiero critico e di solide basi culturali (fatte anche di competenze specifiche), perché se è vero che la Rete fornisce a chiunque la possibilità di dare visibilità alle proprie idee, (generando forme nuove di partecipazione e di organizzazione sociale che promuovono uno spirito decisamente partecipativo, civico e locale), non va dimenticato che essa se utilizzata in modo improprio, rischia di invadere e violare libertà, diritti e interessi costituzionalmente garantiti oltre, naturalmente, alla non meno importante sfera delle emozioni e della sensibilità personale. Comportamenti devianti, questi ultimi, che sfortunatamente oggi, ormai troppo spesso, sfociano in vere e proprie forme di violenza, cyber bullismo ed emarginazione sociale cui la scuola, agenzia educativa per eccellenza insieme alla famiglia, deve dare, assolutamente, risposte e soluzioni concrete ed efficaci.     Leggi tutto “A scuola … di cittadinanza digitale”

Conoscenza scientifica, senso comune ed etica della responsabilità

Definire il ruolo del sapere scientifico nella società odierna, complessa, polimorfa, globalizzata e sotto l’influenza del “politeismo dei valori”, è cosa assai importante.

È a tutt’oggi ancora aperto il dibattito sul valore della ‘scienza’. Del resto, la discussione dei filosofi su una soddisfacente definizione della stessa è ancora accesa. Sicuramente, l’attesa è che la scienza appaghi la richiesta di estensione permanente della conoscenza e il bisogno di trovare soluzioni ai problemi che l’uomo sente come indifferibili e determinanti per la propria esistenza.

Risultati di ricerca dimostrabili, descrizione analitica dell’oggetto e correggibilità del processo conoscitivo sono le garanzie proprie della scienza. Nel metodo scientifico, la possibilità dell’errore è strutturale, così come, nell’organizzazione dello stesso, la possibilità di revisione.

Sulla base del fallibilismo di Peirce, nel ’900 la scienza perde ogni pretesa di garanzia assoluta.

L’infallibilità in questioni scientifiche mi sembra una pretesa irresistibilmente comica.” (Pierce, in “Collected Papers”).

Il vecchio ideale scientifico dell’epistéme, della conoscenza assolutamente certa e dimostrabile, si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’obiettività scientifica rende inevitabile che ogni asserzione scientifica rimanga per sempre come un tentativo”, sostiene Popper.

All’uomo è dato solo congetturare e la possibilità di autocorreggersi.

Ma la scienza, oggi, ha ancora un valore connaturato?

Nel suo Dizionario di Filosofia, Nicola Abbagnano conclude che la migliore definizione di ‘Valore’ è quella che lo considera come una possibilità di scelta, cioè come una disciplina intelligente delle scelte, che può condurre ad eliminarne alcune o a dichiararle irrazionali o dannose, e può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, prescrivendone la ripetizione ogni volta che certe condizioni si verifichino’. In altri termini si può affermare che noi diamo valore a ciò che esalta le autentiche possibilità di scelta, ‘cioè a quelle scelte che potendosi sempre ripresentare come possibili nelle stesse circostanze, costituiscono la pretesa del Valore alla universalità e alla permanenza’.

Poiché la scienza, nelle caratteristiche sopra enunciate, sembra offrirsi come disciplina intelligente delle scelte, ha certamente un valore intrinseco” (cfr. Il valore della conoscenza scientifica – Pedagogia.it).

All’origine del percorso della scienza vi è il problema e il bisogno, l’affanno e la curiosità, il dubbio e l’incertezza. L’uomo è insufficiente a se stesso e necessita di una conoscenza ampia del mondo in cui è ricompreso e da cui dipende, pur nella consapevolezza che, come sosteneva Bacone, “la sottigliezza della natura eccede di gran lunga la sottigliezza del senso e dell’intelletto”.

L’interesse per il mondo che ci ricomprende e ci circonda scaturisce dalla consapevolezza dell’uomo di non essere altro dalla natura e quindi di non essere da essa separato. Di contro, le antropologie moderne evidenziano la centralità dell’uomo e il dominio dell’uomo sulla natura.

Il filosofo tedesco Hans Jonas, allievo di Heidegger, riflettendo sui motivi culturali per cui persone di grande calibro scientifico non abbiano assunto atteggiamenti responsabili nei momenti determinanti della storia, ha ritenuto urgente la formulazione di una nuova teoria etica – questione estremamente attuale, dal momento che i tempi odierni impongono all’uomo di effettuare valutazioni di nuove possibilità e di compiere scelte del tutto nuove. L’auspicio di  Jonas è quello di individuare “un bene”, “un valore”, insito nella struttura stessa dell’essere, che colmi il divario tra “essere” e “dover essere”. L’impegno è negare il “non-essere” e agire in favore della vita e per il bene delle generazioni future. Il fine è scongiurare catastrofi a causa dell’assenza di controllo umano. Da qui il ruolo fondamentale della “paura” nel preservare il genere umano dalla distruzione. La paura, dunque, come  freno all’irresponsabilità e spinta verso la sopravvivenza.

Jonas coglie bene la questione di fondo dei nostri sistemi politici, in quanto le nostre democrazie teorizzano la politica in termini di diritti, che hanno una prospettiva universalistica, però poi la praticano in termini di utilità, e quindi in modo particolaristico, perché le utilità o sono sempre le utilità di un gruppo nazionale contrapposto agli altri oppure, all’interno di un gruppo, determinate categorie che dicono di voler difendere i propri interessi.” (Hans Jonas).

Dunque, la scienza vale nella misura in cui l’uomo vale. E la scienza è onesta (valida, libera, tecnica, critica) nella misura in cui l’uomo è onesto (libero, critico, responsabile, disinteressato).

Anche la Raccomandazione del Consiglio Europeo, 22 maggio 2018, sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente (rinnovamento e sostituzione dispositivo del 2006), muovendo dalle consapevolezza del valore della complessità e dello sviluppo sostenibile, relativamente alla Competenza in Scienze, Tecnologie e Ingegneria , pone – strategicamente – l’accento, oltre che sulla conoscenza,  sugli aspetti del processo e dell’attività, prediligendo un rapporto più stretto tra apprendimento formale, creatività ed esperienze di laboratorio e ponendo tali competenze  in stretta relazione con i valori – valutazione critica, curiosità, responsabilità verso l’individuo, la famiglia, la comunità e le questioni di dimensione globale – le questioni morali, la cultura, la sostenibilità ambientale.

La struttura socio-storica in cui la conoscenza scientifica si produce, ne determina le forme.

Le diverse forme di conoscenza che si producono in contesti socio-storici diversi affondano le radici in un humus simbolico che è indicatore privilegiato di tutte le forze sotterranee che attraversano la società. L’immaginario interno o psichico, inteso come fonte comune di individui che abitano stesse comunità, produce icone verbali e figurali che sono esteriorizzazioni utilissime alla comprensione del processo di costruzione e di definizione della realtà. Eventi traumatici che producono mutamenti nelle configurazioni sociali hanno come conseguenze di lungo periodo la distruzione di un paesaggio interiore tradizionale, e innescano una mutazione culturale che investe radicalmente schemi mentali che fanno da supporto alla vita di intere popolazioni. E siccome la natura psichica aborre il vuoto, il problema resta di mostrare che cosa ne prende il posto.” (cfr. Sociologia della conoscenza scientifica).

Repentini cambiamenti, spesso anche drammatici, talvolta scioccanti,  caratterizzano il mondo odierno. Ne sono pienamente investite l’economia e la cultura. Si fanno presenti “nuove marginalità”, determinate anche dall’innesto del rapido sviluppo tecnologico e le “fragilità” caratterizzanti svariate categorie di persone (poveri, anziani, persone con limitati mezzi culturali). Aumenta  la “vulnerabilità” che, a causa dei drammatici fenomeni economici e culturali in atto nel mondo, costringe le persone a fare a meno anche di servizi e beni di ordine primario. Emergono nuove gerarchie sociali, con nuove scale di valori. Emergono nuovi bisogni, che innescano nuove idee e la disposizione delle persone ad accoglierle. I mutamenti a livello dell’“habitus psichico”, le nuove istanze e i nuovi affanni, determinano l’agire degli uomini.

Antonio Camorrino, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, presso cui insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi e docente di Sociologia dei nuovi media presso l’Accademia di Belle arti di Napoli, dimostra come

la desiderabilità sociale, il prestigio o al contrario il disprezzo connesso ad una particolare attività sarà determinante nello sviluppo o nella stagnazione della produzione sociale di conoscenza scientifica di un determinato periodo. Queste scale valoriali sono, il più delle volte, il riflesso della divisione sociale del lavoro.” (cfr. Sociologia della conoscenza scientifica).

Ancora lontano da mire egemoniche, oggi il discorso scientifico ingaggia la sua battaglia esistenziale sul campo dell’autoreferenzialità, per conquistare la propria legittimazione, attualmente in stato di depressione.

Questa crisi investe in modo particolare le discipline umanistiche , tra queste, soprattutto gli studi storici. Tali difficoltà non sono solo epistemologiche e cioè legate al fatto che le scienze umane e sociali, specie dopo la diffusione del costruttivismo o del post-modernismo, si sono spesso risolte in imponenti constatazioni sull’impossibilità di ridurre la complessità e, di conseguenza, nel rifiuto di fornire sistemi generali di interpretazione della realtà (agibili dalla politica e fruibili anche dal grande pubblico). Esse riguardano anche le modalità attraverso cui la conoscenza scientifica produce senso comune” (cfr. Antonio Bonatesta, ricercatore non strutturato di storia Contemporanea presso l’Università del Salento, in “A me piace il Sud”, di Alessandro Cannavale e Andrea Leccese, Armando Editore, pag. 48).

La “crisi di legittimazione” del discorso scientifico stringe le discipline umanistiche, ed in particolare gli studi storici, in una morsa, asfissiante,  se si tiene conto che, queste ultime

stanno perdendo le grandi arene (televisione e giornali) senza aver appreso come occupare le nuove, vale a dire i social media. Qui il senso storico non si costruisce attraverso i criteri canonici del metodo scientifico né viene validato dai sistemi di valutazione della qualità della ricerca. Così, mentre i ricercatori sono occupati a scrivere per essere valutati, sui social network il senso storico è ormai affare d’altri e si produce sulla base di dinamiche di ridondanza e di consenso” (cfr. Antonio Bonatesta, ricercatore non strutturato di storia Contemporanea presso l’Università del Salento, in “A me piace il Sud”, di Alessandro Cannavale e Andrea Leccese, Armando Editore, pag. 48).

È evidente l’enorme pericolo insito in tale meccanismo.

I mass-media attivano memoria e costruiscono realtà. Essi agiscono socialmente su due diverse dimensioni: “riproduzione” e “produzione”. Come gli individui sono in grado di costruire realtà, riproducendo, ossia ripetendo un “bagaglio di senso” che consente ad un certo modello di realtà di perdurare, e producendo mutamenti nella costruzione di senso.

Agendo nell’ambito del “potere simbolico”, i media producono particolari rappresentazioni della realtà e agiscono, mediante una potente funzione, la “diffusione”, sul senso comune, potendo contare sulla

forza impositiva di cui possono avvalersi nella costante competizione con altri soggetti sociali sulla definizione dei significati” (cfr. Chiara Moroni, Costruire la memoria. Un legame complesso tra mass media e rappresentazioni sociali – Officina della Storia).

I mass media, percepiti come una risorsa quasi legittimata, condivisibile e condivisa, tramutano i fatti, gli avvenimenti in qualcosa di accessibile e accettabile per gli utenti, producendo, intenzionalmente e soggettivamente, significati che entrano in circolo nella società e nel suo sistema simbolico, creando senso comune.

i media producono un effetto “riduttore dell’eccezionalità paradigmatica” dell’evento stesso proprio perché è nella loro natura rendere accessibile, riconoscibile e archiviabile la realtà. Questo fa sì che in parte fallisca la funzione, che per volontà e necessità la società attribuisce al ricordo di un evento, di sollevare e sollecitare la sua memoria e il suo senso critico nei confronti della storia. (…) Se, da un lato, il ruolo dei media in questo processo di comunicazione sociale della memoria non è prescindibile, dall’altro la natura e le logiche che muovono il sistema dell’informazione producono un effetto che potrebbe rivelarsi negativo. La memoria è sì capacità del sistema sociale di archiviare, dimenticare e recuperare quando necessario gli eventi del suo passato, ma uno degli strumenti di cui ci si avvale per ricordare, e forse quello che produce più ridondanza, ha il potere di trasformare tutto ciò che rappresenta e che immette nel senso comune in qualcosa di accettato e condiviso che, in quanto tale, finisce per non essere più oggetto di una riflessione cosciente e intenzionale da parte sia dei singoli sia della società nel suo complesso.” (cfr. Chiara Moroni, Costruire la memoria. Un legame complesso tra mass media e rappresentazioni sociali – Officina della Storia).

Andrea Cerroni, docente di  Sociologia e comunicazione della scienza all’Università Milano-Bicocca, e direttore del Centro Interuniversitario e Master in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione Sostenibile, nel suo contributo del 28 luglio 2016, all’interno di “La rivista del Centro Studi Città della Scienza”,  intitolato “Aprire la conoscenza. Per il bene della scienza e della democrazia”, riferisce che, già da un po’ di tempo, più che altro fra esperti e specialisti, si parla di “scienza aperta”. Si tratta di un’apertura finalizzata a scongiurare la decadenza della scienza e  che investe tre piani: epistemologico, psicologico e sociologico.

Temi fondamentali dell’attuale sviluppo tecnico-scientifico quali la sostenibilità, l’epigenetica, la convergenza nano-info-bio-neurocognitive, l’internet delle cose, le smart cities, un nuovo manufacturing, per solo fare qualche esempio, (…) richiedono un ripensamento persino della tradizionale partizione fra scienze dure e scienze umane, produttori e utilizzatori, produttori professionali e non.”(cfr. Andrea Cerroni,  “Aprire la conoscenza. Per il bene della scienza e della democrazia”,  La rivista del Centro Studi Città della Scienza).

Nel succitato contributo, la scienza è definita “uno dei prodotti umani più creativi” – e, dunque, “storico e sociale”, alla stessa stregua delle diverse forme d’arte –  manifestazione, tra le più alte, della cultura, concludendo che la scienza è “cultura”. Nello stesso contributo si sostiene, altresì, che aprire la scienza nel senso di “aprire le porte della scienza alla cittadinanza democratica”, significhi, prima di ogni cosa, che emergono nuovi diritti, in virtù dei quali, i cittadini possono avere accesso alle conoscenze più all’avanguardia disponibili, a tutti i livelli.

A tal proposito, è in atto un’iniziativa mondiale, che coinvolge 24 Paesi, denominata ‘Pint of Science’, finalizzata alla diffusione delle più recenti scoperte scientifiche – spiegate da esperti di ogni settore delle scienze – nei pub di tutto il mondo, sollecitando l’approccio della popolazione alla ricerca. In Italia vi aderiscono più di 300 ricercatori, i quali, dal 19 al 22 maggio, hanno contribuito alla diffusione dei loro ultimi risultati in 74 pub, dislocati in 23 diverse città italiane.

Poi, “aprire le porte della scienza alla cittadinanza democratica” vuol dire anche che lo/a scienziato/a è investito di nuove responsabilità e di un nuovo ruolo

che deve assumere e che deve essergli riconosciuto, essendo ormai il generatore istituzionale della risorsa chiave dell’intera società della conoscenza.” (cfr. Andrea Cerroni,  “Aprire la conoscenza. Per il bene della scienza e della democrazia”,  La rivista del Centro Studi Città della Scienza).

È chiaro che un ruolo importante è rivestito dalle nuove figure professionali che si occupano di “comunicazione della scienza”.

“aprire la scienza vuol dire aprire il seminarium rei publicae, richiamando ancora il pensiero di Calamandrei sulla scuola come organo costituzionale. Sia i luoghi, sia le procedure, sia le conoscenze che la scienza viene edificando sono i fulcri attorno ai quali ruota la società della conoscenza. Ed è proprio attorno a essi, dunque, che procede sia lo sviluppo della scienza sia quello della democrazia. (…) Scienza e democrazia, insomma, sono le due colonne della partecipazione pubblica alla formazione delle scelte collettive in una società dove la conoscenza è il motore delle attività chiave. (…) Merito del singolo e partecipazione di tutti cessano di mostrare in prospettiva il conflitto che ha segnato le ideologie politiche della modernità. Aprire la scienza vuol dire, perciò, declinare le conquiste di libertà in un mondo che non ha più i tratti del noto. Siamo catapultati in un nuovo mondo e dunque dobbiamo pensare in modo nuovo.” (cfr. Andrea Cerroni,  “Aprire la conoscenza. Per il bene della scienza e della democrazia”,  La rivista del Centro Studi Città della Scienza).

La scienza si connota, così, come spazio di libertà, ma anche di imprescindibile responsabilità. Leggi tutto “Conoscenza scientifica, senso comune ed etica della responsabilità”

L’educazione ambientale passa attraverso l’arte

La Cracking Art: un progetto per le Scuole del primo ciclo e non solo

Nel 1993 nasce la Cracking Art. Questa forma d’arte è connotata da un forte impegno sociale e ambientale. Questo movimento artistico ha lo scopo di rappresentare la dicotomia tra naturale e artificiale. Il nome deriva dal verbo “to crack” che significa spezzare, rompersi, incrinarsi. Inoltre, con il termine “cracking catalitico” si indica una reazione chimica che trasforma il petrolio grezzo in plastica.

Gli artisti si ispirano a questo concetto per trarre ispirazione e realizzare i loro coloratissimi animali, attraverso il riciclo di materiale plastico, che attirano l’attenzione di grandi e piccini. Coccodrilli, rane, rondini, conigli, chiocciole e molti altri anche di gigantesche dimensioni hanno letteralmente invaso diverse città italiane e straniere. Questo progetto itinerante, che unisce un evidente effetto estetico con una riflessione sul riciclo della plastica, ha coinvolto anche gli alunni di alcune scuole di infanzia e primaria.

L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è uno tra gli obiettivi specifici di apprendimento definiti nell’ambito dell’educazione civica, che in questo caso specifico si declina nell’educazione ambientale. In un’ottica pedagogica del learning by doing, gli studenti sono stati coinvolti per un percorso didattico culturale improntato alla sostenibilità e che si inserisce perfettamente nella finalità educativa dell’esposizione artistica. Guidati da esperti educatori ambientali, sapientemente formati, sono stati accompagnati ad una visita della mostra. Successivamente le classi sono state coinvolte in una serie di workshop legati al tema del riciclo: il gioco delle cinque R, Riuso, Riduco, Riparo, Riciclo, Recupero.

Il quiz sulla biodegradabilità dei rifiuti con gare a staffetta: curioso il legame tra gioco di movimento e riflessione sul tema della raccolta differenziata, che aiuta ad intendere questo senso civico come una vera e propria competizione dettata da alti valori, quali aumentare la consapevolezza dei rifiuti che io produco e della loro quantità. Educare le nuove generazioni ad un uso consapevole dei materiali e far sì che comprendano la necessità di ridurre l’uso della plastica ed evitare gli sprechi.

Un’interessante attività laboratoriale con l’utilizzo di materiale plastico come bottiglie, tappi, piatti, ecc. ha permesso ai piccoli artisti di realizzare semplici animali che hanno portato nelle loro case come ricordo dell’esperienza vissuta insieme a una foto e all’attestato di partecipazione al gioco “Indovina che rifiuto sei”. Con la convinzione che l’educazione ambientale deve trovare riscontro anche nella quotidianità della vita familiare, durante il fine settimana è stata prevista un’ulteriore attività legata al processo di riciclo della plastica in tempo reale: con ausilio di macchinari, specifici per la macinatura e estrusione della plastica, il processo si conclude con la creazione di oggetti tridimensionali tramite una stampante 3D. Il coinvolgimento delle famiglie e soprattutto la curiosità dei bambini di fronte al lavoro della stampante 3D può veicolare certamente messaggi sul valore del recupero e del riutilizzo di materiali.

Il coinvolgimento delle scuole è stato proposto con l’intento di fare svolgere ai bambini attività che possano avvicinarli all’arte contemporanea la quale a sua volta diventa veicolo di sensibilizzazione verso l’abuso di plastica e le disastrose conseguenze che questo sta apportando al pianeta. Ricordiamo a tal proposito che solo alcuni mesi fa una ragazzina di nome Greta Thunberg è riuscita a coinvolgere milioni di giovani con l’obiettivo di richiamare all’attenzione dei grandi del mondo, l’urgenza di un cambio epocale nelle politiche legate al rispetto dell’ambiente e al cambiamento climatico. Leggi tutto “L’educazione ambientale passa attraverso l’arte”

NoiSiamoPari. Educazione al rispetto

Rispetta le differenze

Il “Piano nazionale per l’educazione al rispetto” (MIUR 2017) è finalizzato a promuovere nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado un insieme di azioni educative e formative volte ad assicurare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e civiche, che rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadinanza attiva e globale.

La riflessione sull’uguaglianza dei diritti sociali ed umani ha le sue radici nell’articolo 3 della Costituzione che recita “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione…”. Il dibattito normativo e socio-pedagogico si orienta  verso le azioni che possono essere messe in atto dalla Repubblica per eliminare qualsiasi ostacolo alla realizzazione della persona umana nella sua integrità, anche e soprattutto come “cittadino globale”.

La società nella quale stiamo vivendo è sempre più diversificata, la multietnicità, l’interculturalità, la globalizzazione, la diffusione di nuove tecnologie e dunque di un nuovo modo di comunicare, ha bisogno di chiarezza, essenzialità e soprattutto di regole comunicative a cui attenersi. Inoltre il profondo disagio manifestato dalle ultime generazioni nei confronti di una società alienante, liquida (Z. Bauman), senza punti di riferimento culturali, valoriali, economici, lavorativi,  crea profondo disagio e gap tra le passate e le nuove generazioni.

Tale disagio si manifesta già in giovane età e la scuola, come la famiglia, sono i luoghi entro i quali il malessere si evince. Risulta dunque necessario rispondere alla sfida educativa, che chiama in causa genitori, psicologi e docenti, di promuovere e costruire uno “spazio d’azione” nel quale creare benessere con se stessi e con gli altri. Acquisire abilità di ascolto, capacità di lettura del disagio degli studenti, fermarsi a guardarli, richiedono, da parte degli adulti, capacità di “empatia intellettiva” , di comunicazione tempestiva ed efficace, di uso di strategie motivazionali. Le cause che provocano il “drop out” dei ragazzi risiedono in comportamenti antidiscriminatori (bullismo, cyberbullismo, violenza in ogni sua forma) che portano al non impegno, al disagio e all’abbandono scolastico. Da non dimenticare che gli Stati membri in “Europa 2020”, tra le priorità indicate dai sistemi di istruzione e formazione, hanno quella di ridurre il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10%.

Mappa Rispetto

Per operare direttamente nelle realtà scolastiche intervengono anche le norme che regolano le azioni da mettere in atto. La legge 107/15 all’articolo 1, comma 16 afferma che una delle priorità a cui la scuola deve rispondere, è quella di sensibilizzare le nuove generazioni al rispetto delle diversità nell’ottica di una “scuola inclusiva e aperta al dialogo”. Anche il D. lgs 71/17 e il Piano nazionale per l’educazione al rispetto (Miur ottobre 2107) vengono in aiuto degli operatori scolastici, indicando piste di lavoro. Le azioni del Piano sono dieci e vanno dalla diffusione di una “cultura del rispetto” al “contrasto degli stereotipi e delle discriminazioni”. Diversi gli strumenti per operare: l’uso del portale NoiSiamoPari, la celebrazione della “Giornata della pace” (4 ottobre), la realizzazione di percorsi progettuali specifici ( “No Hate Europa”; PON 2014/2020).

Importante il ruolo strategico della scuola che, in quanto comunità educante, diffonde una cultura del gruppo, promuove un clima positivo, facilita le relazioni, indica il sentiero innovativo progettuale. Il Piano dell’offerta formativa può contenere un insieme di azioni educative e formative che, attraverso le collaborazioni con gli Uffici scolastici regionali, con le Reti di scopo e con gli Enti locali, permettano agli studenti di acquisire e sviluppare competenze trasversali, sociali e civiche.  Anche la promozione della formazione dei docenti è garanzia di acquisizione di life skills, il cui possesso aiuta a prevenire atteggiamenti antisociali, promuovere autoefficacia e collaborazione tra pari ed indirizzare gli alunni verso un percorso di autoconsapevolezza e responsabilizzazione verso il proprio status di “cittadino, lavoratore responsabile, partecipe alla vita sociale, capace di assumere ruoli e funzioni in modo autonomo, in grado di saper affrontare le vicissitudini dell’esistenza” (OMS). Percorso necessario per non trovarsi a dover dire quello che affermava Don Milani : “La scuola ancora oggi ha un solo problema: i ragazzi che perde”. Leggi tutto “NoiSiamoPari. Educazione al rispetto”

Corresponsabilità e nuovo protagonismo per la scuola

La nuova alleanza tra scuola e famiglia concretizzatasi nel patto di corresponsabilità, nasce in un orizzonte culturale segnato da eventi rilevanti per la scuola, ridefinendo sostanzialmente il suo ruolo all’interno della società.

L’Europa con la strategia di Lisbona del 2006 richiamava ad una massima attenzione ai fenomeni della dispersione e dell’abbandono verso un’educazione permanente, introducendo la necessità  di rilevare le competenze; a livello nazionale i tremendi fatti di cronaca relativi al bullismo vedevano nella scuola il teatro delle sue manifestazioni sollecitandola ad una urgente responsabilità educativa.

L’esito fu la revisione dello Statuto delle studentesse e degli studenti nel 2007 che introduceva di fatto il Patto di corresponsabilità, quale strumento per rinegoziare l’alleanza con le famiglie ed agire di fronte alle emergenze della società.

Il Patto, un atto di natura privata, accolto all’interno del Regolamento di istituto, atto di natura pubblica, pur nella sua debolezza giuridica, rappresenta uno strumento di negoziazione valoriale e di alto senso civico.

Viene consegnato nelle prime settimane di scuola, accanto ad un’attività di accoglienza e di conoscenza delle proposte contenute nel PTOF con l’obiettivo di circoscrivere il rapporto delle famiglie all’interno di contenuti condivisi e chiari.

Non si tratta di uno strumento burocratico che tuteli la scuola nella consuetudinaria logica dell’adempimento, ma  piuttosto di uno strumento di alta valenza pedagogica che impegna le istituzioni in una visione unitaria dei compiti che li riguardano rispetto all’utenza, con la possibilità di calibrare le azioni su uno specifico contesto e i suoi bisogni educativi.

Contestualmente le famiglie sono invitate a relazionarsi con regole definite e chiare che permettono di sostenere ed orientare la genitorialità anche quando questa risulta debole o poco efficace.

Dietro il Patto di corresponsabilità c’è il dialogo, l’attenzione, la condivisione di una comunità educante che integra i propri interventi avendo cura dello studente,  costruendo ed arricchendo le sue competenze di cittadinanza e ponendolo al centro del processo educativo; una scuola che ridefinisce il suo ruolo e scende in campo di fronte alle urgenze sociali, rivendicando  specifiche competenze e responsabilità rispetto alle altre agenzie educative. Leggi tutto “Corresponsabilità e nuovo protagonismo per la scuola”

Pluralismo istituzionale e scuola

Il pluralismo può essere accolto e, nella nostra Costituzione, è accolto come pluralismo istituzionale. Il pluralismo istituzionale significa che la vita della cittadinanza non è organizzata e convogliata solo sullo Stato e le sue strutture, ma anche su organismi territoriali di autogoverno. In questa accezione, il pluralismo corrisponde al riconoscimento delle autonomie locali e risale all’art. 5 della Costituzione (il quale stabilisce che “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”). Le disposizioni poste dall’art. 5 stabiliscono il superamento di una forma accentrata di stato e la scelta per la distribuzione del potere politico e amministrativo sul territorio.

La scelta pluralista dà senso al fatto che la nostra Costituzione utilizza, in molti casi, a preferenza del termine ‘Stato’ quello di Repubblica, il quale vale a indicare che la comunità nazionale è formata da molte componenti, oltre all’apparato burocratico statale, e che l’unità della nazione è il prodotto dinamico delle relazioni tra queste componenti.

È una scelta intimamente legata alla concezione non autoritaria dello Stato e dei pubblici poteri che le democrazie costituzionali incorporano allorché scelgono che le istituzioni siano guidate dalla volontà popolare e pongono la persona umana alla base della organizzazione pubblica. Anche la scelta pluralista, dunque, ripropone, come è tipico delle democrazie costituzionali, una visione del diritto che lo emancipa dalla equivalenza tra “legge” e “volontà dello stato” cui lo avevano ridotto le concezioni ‘positivistiche’ e ‘statualistiche’ liberali.

Il pluralismo si accompagna infatti al riconoscimento dell’autonomia, cioè della capacità di ispirare la propria vita e attività a norme prodotte da sé: le formazioni sociali, come gli enti locali, sono altrettante istituzioni in cui si organizza la vita delle persone e che hanno una, diversamente estesa, ma sempre presente, capacità di darsi proprie norme, come accade perfino con gli statuti di una associazione, o le regole di un club.

Hanno autonomia gli enti locali, le Regioni; ma ce l’hanno anche le associazioni private, le formazioni sociali: sono norme che si coordinano variamente a quelle statali, dovendo armonizzarsi con esse, ma che esprimono una cosa molto importante, che il diritto nasce non solo dallo stato ma dalla socialità della natura umana.

Va detto però che il pluralismo reca, d’altro canto, insita in sé una certa difficoltà a convivere col concetto di Stato come lo ha elaborato l’età moderna e contemporanea, cioè come una sintesi della società che si pone al di sopra del conflitto tra interessi.

La dottrina pluralista era una protesta contro la teoria e la pratica della sovranità dello Stato. La teoria dello Stato sovrano è caduta e deve essere abbandonata. Il pluralismo concepisce lo Stato non come un’unità sovrana separata e al di sopra della società, ma come una tra le molte istituzioni sociali, con un’autorità non superiore a quella delle chiese, dei sindacati, dei partiti politici o dei gruppi economici e professionali.

Alla base del principio pluralista vi era il disagio dell’individuo, inerme di fronte a una macchina statale strapotente. Man mano che la vita diviene più complessa e le funzioni dello Stato si moltiplicano, l’individuo isolato accresce la sua protesta contro il suo abbandono a forze che non può né comprendere né controllare. Affidando funzioni amministrative decisive a questi organismi privati, i pluralisti speravano di raggiungere due scopi: colmare il divario tra lo Stato e l’individuo, e dare una base concreta all’identità tra governanti e governati. Nonché di raggiungere il massimo di efficienza assegnando funzioni amministrative a organizzazioni competenti. Affinché tali accordi siano stipulati e rispettati, deve esservi una base comune di intesa tra i vari gruppi sociali: la società, insomma, deve essere fondamentalmente armoniosa.

La scuola è un laboratorio di idee dinamiche con le quali entra in rapporto di osmosi la realtà sociale perché possa essere analizzata e modificata. Questo peculiare principio che da sempre rappresenta il motivo di fondo dell’azione formativa che gli istituti educativi attuano sulle coscienze dei giovani, viene ribadito e formalizzato nei curricula dall’art. 1 della Legge n. 169/2008.

Nell’ambito storico-geografico e storico-sociale, in ogni ordine e grado di scuola, viene introdotto l’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, che sostituisce il tradizionale studio dell’Educazione Civica con una nuova sensibilità interpretativa della tematica da parte del mondo culturale dei giovani.

Con un’azione trasversale per tutte le aree disciplinari, ed in collaborazione con le famiglie, gli enti locali e le diverse agenzie presenti sul territorio, lo scopo da perseguire è l’esercizio attivo e responsabile della cittadinanza in un’ottica di “pluralismo istituzionale”, partendo dalla consapevolezza dei diritti e doveri scolastici per estenderli alla dimensione sociale.

La stessa Costituzione italiana ha investito l’istituzione scolastica del compito di contribuire a realizzare la libertà e l’eguaglianza dei cittadini nell’ottica dell’educazione alla convivenza civile e al confronto. Tra le tematiche affrontate: il bullismo e la legalità.

La scuola si relaziona con le esigenze del contesto territoriale di appartenenza in riferimento ai valori della Costituzione. Espressione di tale consapevolezza sono le tematiche dell’educazione alla legalità promosse da numerose istituzioni scolastiche. Leggi tutto “Pluralismo istituzionale e scuola”

L’Educazione alla legalità: una risposta alla domanda «che cos’è la legge?».

«Che cos’è la legge?» è una domanda fondamentale che ha venticinque secoli. È, in origine, un interrogativo che fa riferimento al dialogo, di impronta socratica, che ne I Memorabili di Senofonte, Alcibiade, pone a un giovane Pericle, che sembra sorridere di quella che gli pare una domanda molto ingenua.

In un mondo eccentrico, dominato dal disorientamento, sempre connesso e/o interconnesso ma abitato da solitudini che si moltiplicano, i più grandi pedagogisti, filosofi, tout court, intellettuali, invitano a scommettere su una possibilità in cui ne va del nostro stesso presente e futuro: l’educazione o come in molti chiamano con acume ed ironia «l’utopia dell’educazione».

Studiare la storia dell’educazione alla legalità nella scuola italiana – ricorda il professore e scrittore Nando della Chiesa nell’«Introduzione» della ricerca dello studio La storia dell’educazione alla legalità nella scuola italiana – è un po’ come studiare sotto una specifica prospettiva la storia stessa del Paese.

Con la circolare del MIUR, n. 302 del 1993, il concetto di «educazione alla legalità» entra nel sistema normativo italiano. In breve, il principio giuridico di legalità è il principio cardine dello Stato di diritto, formulato a partire dal XVIII secolo ma già riconducibile all’età arcaica elladica (VII secolo a.C.). Un principio non dogmaticamente immutabile, ma che evolve ed accompagna le trasformazioni dell’ordinamento giuridico e delle nostre democrazie.

L’Educazione alla legalità ebbe formale origine nel contesto storico 1992-1993 quando gravissimi eventi (le stragi di Capaci, di via D’Amelio, gli attentati di Milano, Firenze, Roma) resero forte la percezione di una minaccia al sistema democratico. Così il Ministero della Pubblica Istruzione emanò in data 25 ottobre 1993 la Circolare n. 302 introducendo l’«Educazione alla legalità», tesa a valorizzare il ruolo della scuola nella comunità civile.

Tale Circolare, nel primo paragrafo intitolata «la lotta alla mafia», afferma:

«Di fronte ad una situazione del genere (le stragi di Capaci, di via D’Amelio e gli attentati sopra citati), la scuola ha il dovere di promuovere prima una riflessione e poi un’azione volta alla riaffermazione dei valori irrinunciabili della libertà, dei principi insostituibili della legalità.

La scuola, in collaborazione con le altre istituzioni competenti e responsabili, deve pertanto ricercare e valorizzare le occasioni più propizie per avviare un processo di sempre più diffusa educazione alla legalità, come presupposto etico e culturale di una contrapposizione decisa a tutti i fenomeni di criminalità.

L’educazione alla legalità si pone non soltanto come premessa culturale indispensabile ma anche come sostegno operativo quotidiano …».

Un «processo di sempre più diffusa educazione alla legalità, come presupposto etico e culturale» da costruire giorno dopo giorno facendo leva sulle conoscenze, abilità e competenze iscritte in tutti i nostri curricula scolastici ma che può anche essere potenziato da due «classiche» letture: Il giusto e l’ingiusto del filosofo francese Jean-Luc Nancy, una lezione semplice, che non teme né la complessità del tema né la leggerezza dell’esposizione, un testo adattabile già fin dalla Scuola media di I grado e, per la scuola secondaria di secondo grado, La storia della mafia di Leonardo Sciascia, una descrizione puntuale ed affascinante di un universo di cui si scopre sempre qualche aspetto nascosto, inedito.

La Circolare n. 302 individua, consegna «regole» e connessioni di azioni, pensieri, luoghi e persone per riallacciare nel mondo della Scuola, il mondo per eccellenza della formazione ed educazione, i fili dispersi e tagliati dalle «preoccupanti vicende nazionali» degli anni Novanta. Il nostro testo ministeriale nelle «Finalità» scrive i seguenti punti che poi sono vere e proprie guide dello spirito e della mente davvero necessari e capaci di risvegliare le coscienze e di ri-costruire domande ed azioni di senso e di ethos:

«Educare alla legalità significa elaborare e diffondere un’autentica cultura dei valori civili. Si tratta di una cultura che:

  • intende il diritto come espressione del patto sociale, indispensabile per costruire relazioni consapevoli tra i cittadini e tra questi ultimi e le istituzioni;
  • consente l’acquisizione di una nozione più profonda ed estesa dei diritti di cittadinanza, a partire dalla consapevolezza della reciprocità fra soggetti dotati della stessa dignità;
  • aiuta a comprendere come l’organizzazione della vita personale e sociale si fondi su un sistema di relazioni giuridiche;
  • sviluppa la consapevolezza che condizioni quali dignità, libertà, solidarietà, sicurezza, non possono considerarsi come acquisite per sempre, ma vanno perseguite, volute e, una volta conquistate, protette.

Un itinerario formativo di tal genere deve proporsi in primo luogo la valorizzazione della posizione/responsabilità della scuola, intesa come terreno privilegiato di cultura per qualsiasi attività educativa.

Peraltro il ruolo centrale della scuola appare ancor più evidente rispetto alla finalità di educare i giovani alla legalità, in considerazione del fatto che la scuola è normalmente la prima fondamentale istituzione, dopo la famiglia, con cui essi si confrontano e su cui misurano immediatamente l’attendibilità del rapporto tra le regole sociali e i comportamenti reali».

Le idee guida, le finalità del testo ministeriale rientrino a far parte della nostra cultura scolastica quotidiana e del nostro senso comune.

Le idee portanti della Circolare n. 302 alimentino e diano sostanza alle nostre azioni didattiche perché possano diventare fatti compiuti e risposta alla domanda, per niente ingenua, «che cos’è la legge?». Leggi tutto “L’Educazione alla legalità: una risposta alla domanda «che cos’è la legge?».”

Grazie Greta

Greta Thunberg

Grazie Greta per aver avuto non solo il coraggio di dire ai potenti del mondo le loro grandi colpe per il danno che stanno provocando all’intero Pianeta, ma per aver saputo sollecitare le migliori forze e speranze giovanili a lottare, a credere in un mondo più pulito e migliore, a rendersi protagonisti. Hai avuto il coraggio di presentarti al World Economic Forum a Cracovia e con pacatezza e determinazione hai illuminato con i tuoi pensieri e le tue riflessioni le loro e le nostre menti. Sei diventato il simbolo, quindi, di chi non vuole arrendersi, di chi ritiene opportuno rimboccarsi le maniche e fare il proprio dovere e non aspettare che siano gli altri a dover e voler sbrogliare la matassa.

Qualcuno ha voluto sminuire i tuoi messaggi scrivendo che i tuoi pensieri non sono originali perché tutti i “grandi” ne parlano. Ed è in parte vero perché già il Papa nella sua Enciclica “Laudato sii” aveva sollevato i problemi della sostenibilità del nostro Pianeta “che non ci è stato dato in eredità dai nostri avi, ma in prestito dai nostri nipoti a cui dobbiamo riconsegnarlo meglio di come lo abbiamo ricevuto”. Lo stesso Edgar Morin ti aveva anticipata sulla cittadinanza terrestre rivendicando per l’umanità la necessità ed il compito, tramite la scuola, di far crescere una “coscienza ecologica” ed una “coscienza antropologica” che ci salvaguardino dai rischi dell’inquinamento dell’aria e dal rischio dell’individualismo e dell’indifferenza che inquinano le nostre menti.

Il candore e l’innocenza della tua voce sono riuscite a svegliare animi silenti e a svelare la gravità della situazione e i tuoi alleati migliori sono diventati subito i tuoi coetanei creativi, che hanno saputo cogliere l’essenzialità e l’importanza del tuo messaggio.

Il mondo della scuola deve esserti grato; in questi anni stiamo cercando di rendere tangibile le nuove competenze di cittadinanza e tu ne sei il simbolo e la dimostrazione di cosa significa acquisire competenze per una cittadinanza attiva. In questi anni stiamo cercando di “dare senso” all’esperienza della scuola e della vita alle nuove generazioni e tu sei riuscita a svelare per quali motivi è interessante vivere ed impegnarsi in prima persona.

Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare il numero di maggio della nostra rivista all’educazione alla pace, alla sostenibilità. In tuo onore e per contribuire alla necessità di dare gambe e forza giovanile alle tue idee e alle tue battaglie.

Grazie Greta!!! Leggi tutto “Grazie Greta”

Cittadinanza globale e responsabilità

Cittadinanza globale

“La nostra vera nazionalità è l’umanità.” (H.G. Wells)

L’attuale fase storica è attraversata da trasformazioni di carattere socioeconomico e politico, dove grande importanza riveste il processo di mobilità umana, che ha condotto ad un numero sempre più elevato di contatti tra persone di diversa origine culturale e sociale. Da qui l’importanza di progettare e realizzare percorsi formativi ed educativi che possano comprendere questi processi, senza subirli e, soprattutto, evitare che possano condurre ad uno scontro di civiltà.

Il nostro sistema educativo è chiamato ad affrontare l’attuale momento della pluralità e della complessità, attraverso un’educazione alla cittadinanza globale che predisponga le condizioni per una cultura della convivenza.

Le questioni che si incontrano sono di interesse macro sociale, come la protezione dell’ambiente, le questioni energetiche, il riscaldamento del pianeta e si potranno risolvere positivamente solo in una prospettiva sovranazionale, attraverso una rielaborazione di modelli educativi e di istruzione, nessuno è estraneo a questa interdipendenza!

Uno dei compiti prioritari della Scuola è quello di renderci consapevoli che ogni nostra scelta di consumo o ambientale produce conseguenze sulle condizioni di vita di altre persone e, quindi, dobbiamo raggiungere la consapevolezza di essere membri di una più ampia comunità umana, superando l’aspetto autoreferenziale e nazionalista.

I processi di globalizzazione in atto, la configurazione sempre più multiculturale delle attuali società, interrogano in modo sempre più profondo il mondo dei servizi educativi, sociali e di orientamento.

L’educazione alla cittadinanza globale, in una prospettiva interculturale, implica una revisione degli attuali saperi insegnati nella scuola e soprattutto un nuovo modo di interpretarli. Essere cittadini globali non significa allontanarsi dai valori della propria cittadinanza locale, rinnegando le proprie radici, ma comprendere in modo veloce le forze che uniscono il mondo, affrontando le sfide e catturandone le opportunità.

Nell’ultimo decennio il World Economic Forum ha condotto una ricerca per individuare i maggiori rischi globali che sono stati così sintetizzati:

  • crescita del reddito e disparità di ricchezza,
  • aumento della polarizzazione della società,
  • cambiamenti climatici,
  • incremento della cyber dipendenza,
  • invecchiamento della popolazione.

Di conseguenza a queste tendenze si sono interconnessi importanti rischi, come:

  • disoccupazione e sottoccupazione,
  • migrazione su larga scala,
  • incapacità di adattarsi ai cambiamenti climatici,
  • instabilità sociale,
  • conflitti con conseguenze regionali e
  • migrazione su larga scala.

Per poter contenere tali rischi, è determinante che le persone comprendano e rispondano efficacemente con comportamenti adeguati, poichè, spesso, esiste uno scollamento tra l’evidenza scientifica che documenta il rischio globale e il comportamento della maggior  parte delle persone.

E’ evidente, quindi, che le istituzioni educative non stanno preparando adeguatamente le persone a comprendere i rischi globali, ad affrontarli o, ancor meglio, a prevenirli. Per formare un adeguato “cittadino globale” le scuole dovrebbero sviluppare e mettere in atto una strategia intenzionale di educazione alla cittadinanza, creando un curriculum di alta qualità, motivante e coinvolgente e impegnandosi per la sua realizzazione.

Il 25 settembre 2015 le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile e i relativi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, articolati in 169 Target, da raggiungere entro il 2030. Sarà rispetto al raggiungimento di tali parametri che ogni Paese sarà valutato, periodicamente in sede Onu. Siamo tutti chiamati, quindi, a co-costruire opportunità sempre più efficaci per migliorare il mondo, muovendoci verso un percorso sostenibile, inclusivo e dove tutti potremo vivere in pace…purtroppo non ci resta troppo tempo, siamo già in ritardo!!! Leggi tutto “Cittadinanza globale e responsabilità”