Il ruolo del docente in Europa. Dati europei e nazionali a confronto

In Italia ancora oggi molti fanno riferimento alla funzione docente come una professione di comodo per l’idea di posto fisso che le si conferisce, per la possibilità di godere di lunghi periodi di vacanza.

Non si pensa alla “missione” che il docente compie ogni giorno e che non è limitata all’orario scolastico, ma va ben oltre tra riunioni, consigli, aggiornamenti, formazioni, progetti, collegi e programmazioni.

Le ricerche italiane sulla condizione professionale dei docenti nella società della globalizzazione registrano, anno dopo anno, una crescente situazione di disagio e demotivazione in quanto, in passato, essere docente era essere “maestro” e già questo rivelava ammirazione per la cultura, dando così dignità al ruolo rivestito e alla stessa persona che lo rappresentava.

Oggi, le scuole si trovano ad affrontare sfide incommensurabili: devono dare risultati concreti con budget ridotti, essere all’avanguardia, offrire un curriculum motivante e un’istruzione tale da essere al centro della strategia europea della competitività.

Purtroppo, ciò fa della professione docente un mestiere poco ambito. I cambiamenti repentini della società impongono agli insegnanti di rivedere le proprie competenze per migliorarle e di svolgere il proprio compito nel modo più efficace ed efficiente possibile.

Il quadro strategico per l’istruzione e la formazione (ET 2020) approvato dal Consiglio dell’Unione europea che identifica la qualità dell’istruzione e della formazione dichiara che “esiste una necessità di garantire un insegnamento di alta qualità, di offrire agli insegnanti un’adeguata formazione iniziale e uno sviluppo professionale continuo per insegnanti e formatori, e di rendere l’insegnamento una scelta professionale interessante”.

Alla luce della recente riforma del nostro sistema di istruzione e formazione, che ha visto come protagonista il personale docente, si è estrapolato il dato italiano ed è stato comparato al contesto europeo.

Infatti, il nuovo quaderno di Eurydice Italia, La professione docente in Europa: pratiche, percezioni e politiche, è dedicato interamente a questa figura ed analizza le relazioni tra le politiche che regolano le condizioni di lavoro degli insegnanti e le pratiche e le percezioni dei docenti stessi.

Si basa su dati Eurydice ed Eurostat/UOE e su un’analisi secondaria dei dati TALIS 2013, combinando così dati qualitativi con dati quantitativi.

Per quanto riguarda l’offerta e la domanda di insegnanti, in Italia il principale problema è legato all’invecchiamento dei docenti. Gli ultimi dati Eurostat mostrano che il 57% degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie in Italia ha più di 50 anni, contro una media europea del 36%. Gli insegnanti dell’UE di oltre 60 anni si attestano al 9% mentre in Italia la percentuale è più alta, ossia il 18%.

Una professione, inoltre, prevalentemente femminile. Per esempio, nel livello secondario inferiore, gli uomini rappresentano, meno di un terzo del totale. Il minore equilibrio tra i generi si registra in Bulgaria, Estonia, Lettonia e Lituania, in cui gli insegnanti uomini sono meno del 20%.

Nel rapporto vengono studiate anche le opportunità di sviluppo di carriera degli insegnanti, sia in termini di progressione gerarchica che di diversificazione dei compiti. Un aspetto che tuttavia in Italia non è contemplato, in quanto nel nostro paese non esiste, al momento, nessuna prospettiva di sviluppo di carriera nell’ambito della professione docente.

Altro dato significativo è il momento della pensione. mentre in Spagna solo il 29,3% dei docenti ha più di 50 anni, l’Italia la batte con un 59,3%.

Circa la retribuzione, gli insegnanti spagnoli guadagnano fra i 32.000 e i 45.000 euro lordi l’anno, quelli tedeschi tra i 46.000 e i 64.000 euro. Invece quelli italiani devono accontentarsi di uno stipendio annuo che oscilla fra 24.000 e 38.00 euro.

In Italia, e a Cipro, gli stipendi dei dipendenti pubblici risultano congelati. Il governo italiano, infatti, per ridurre il deficit pubblico, ha congelato gli stipendi nel 2010, inizialmente fino al 2013, ma la misura è stata adottata da allora ogni anno.

Altro dato poco confortante riguarda l’orario di lavoro: normalmente il carico di lavoro degli insegnanti si suddivide in ore di insegnamento, di disponibilità a scuola e di lavoro totale. Le ore di insegnamento vengono stabilite contrattualmente nella maggioranza dei sistemi educativi (precisamente in 35 sistemi). La maggior parte dei paesi disciplina anche l’orario di lavoro totale degli insegnanti, che è mediamente di 39 ore settimanali. In 18 sistemi educativi, vengono specificate sul contratto anche le ore di disponibilità obbligatoria a scuola, mentre solo in Italia, e in Belgio, vengono indicate esclusivamente le ore di insegnamento.

Il totale settimanale di ore di insegnamento cambia da paese a paese, passando da un minimo di 14 ore in Croazia, Polonia, Finlandia e Turchia, a un massimo di 28 ore in Germania. In media, le ore di insegnamento rappresentano il 44% dell’orario lavorativo totale di un insegnante.

Inoltre, bisogni formativi, che le attività di sviluppo professionale continuo dovrebbero soddisfare, sono diversi a seconda dei diversi sistemi d’istruzione. In quasi tutti i paesi i bisogni espressi dagli insegnanti sono moderati, mentre gli insegnanti italiani, intervistati per l’indagine TALIS dell’OCSE, hanno espresso, il più elevato livello di bisogni di formazione continua.

Dal rapporto di Eurydice emerge che una forma di valutazione degli insegnanti disciplinata a livello centrale è presente in quasi tutti i paesi europei. In seguito alla legge 107, viene, infatti, introdotta, a partire dall’anno scolastico 2015/2016 e con cadenza annuale, la valutazione e la valorizzazione del merito professionale anche nel nostro paese. I criteri per stabilire il bonus in denaro per i docenti meritevoli sono stabiliti da un Comitato di valutazione (la cui composizione è definita al comma 129 della legge) mentre l’assegnazione della somma, sulla base di una motivata valutazione, spetterà al dirigente scolastico.

Anche nel paragone con l’Inghilterra, l’Italia ne esce sconfitta. Un paese che conta 7 milioni di persone in meno rispetto al nostro, aveva investito 80 miliardi di euro nella scuola.

Riguardo la mobilità, poi, il 27,4% degli insegnanti all’interno dell’Unione è stato all’estero almeno una volta per motivi professionali. In almeno metà dei sistemi scolastici europei presi in esame, la percentuale di insegnanti “mobili” è addirittura inferiore. Ciò si verifica in Belgio, Francia, Croazia, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Slovacchia.

Dal confronto dei dati, quindi, balzano agli occhi numeri e percentuali da cui desumo che, per colmare le disparità tra Italia ed Europa, il cammino sia ancora lungo…

Pertanto, i docenti italiani reclamano non solo “stipendi europei”, ma rispetto e dignità per quanto si fa e per come si fa. E citando Socrate “Se uno fa una cosa per un fine, non vuole la cosa che fa, bensì la cosa per cui fa quello che fa!”

A scuola di Intelligenza Emotiva - Camera dei Deputati

Anno 2019 si riparte!

Anno nuovo, vita nuova!!!”, per ripartire, per rimotivarsi e affrontare le vivacità delle nostre comunità studentesche, le novità normative continue che si ritiene opportuno inserire per governare il sistema complesso dell’Istruzione nel nostro Paese.

E allora, Auguri a tutte e a tutti i Discentes della nostra Rivista,  cui auguriamo un 2019 che permetta loro di veder realizzati tutti i loro sogni professionali e personali, a tutti i collaboratori e redattori, ai nostri lettori,  a tutti i docenti e operatori della scuola e agli studenti.

Oltre agli Auguri, un ringraziamento alla Prof.ssa Rosalia Rossi che ha accolto l’invito a collaborare e coordinare insieme a me la pubblicazione della nostra Rivista.

Abbiamo scelto, per questo primo numero del secondo anno della rivista, la metafora dell’anno nuovo per raccontare il tema “La scuola che vorrei”, per dare voce ai docenti, agli studenti che colorano le nostre scuole di creatività, di passione, di impegno necessari per proiettarci insieme e con consapevolezza verso traguardi sempre più avanzati, più impegnativi, più suggestivi, se riusciamo a viverli come sfida verso il futuro.

E’ stato un piacere quindi leggere i contributi arrivati da tutta Italia e abbiamo dato la precedenza a una lettera di un’alunna che chiede a Babbo Natale di poter continuare a studiare con la sua maestra e all’intervista di uno studente al gruppo di  Lecce “MaBasta”, per far conoscere le brillanti iniziative degli studenti del Costa Galilei contro il cyberbullismo. Non potevamo non dedicare un ricordo al giornalista- studente Antonio Megalizzi che ha inseguito il sogno di Adenauer e Spinelli per un’Europa capace raggiungere l’obiettivo di tenere i Popoli  Uniti nella Diversità”.

La scuola che vorrei” non necessita di nuove leggi, di nuove norme, come spesso ci si affanna da anni a livello istituzionale, ma della deontologia e la passione dei docenti, che non manca in tantissimi e moltissimi e dell’impegno degli studenti che devono cogliere la centralità del loro ruolo e l’importanza del loro studio e del loro impegno per proiettarsi con competenza verso traguardi sempre più ambiziosi ed esaltanti se vissuti con entusiasmo, consapevolezza, intelligenza e creatività.

La scuola che vorrei necessita di cooperazione tra docenti e di una didattica cooperativa, necessita di progettualità capace di dare “senso all’esperienza”, attraverso “un’esperienza di senso”, per fare acquisire l’importanza dell’essere scuola e comunità e comunità aperta ai valori e non chiusa nelle sue paure.

Artedo ed il suo Presidente Dott. Stefano Centonze, che ringrazio anche come editore della nostra Rivista, da anni si battono perché si dia maggior peso e significatività all’educazione delle emozioni e allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e lo scorso 20 dicembre presso la Camera dei Deputati è stato presentato il suo libro “A scuola di intelligenza emotiva” e sollecitato una proposta di legge per l’introduzione nel curricolo obbligatorio di un’ora da dedicare allo sviluppo dell’intelligenza emotiva. Ne abbiamo tutti grande bisogno per arricchire le nostre Comunità di sorrisi, di ambizioni, di consapevolezze e di traguardi.

Auguri e Felice 2019 !

Auguri Felice 2019

Dopo aver collaborato sin dalla nascita della rivista ho accolto con piacere ed umiltà l’incarico di codirigere con il Dirigente Martano la rivista ArtedoUniversoScuola.

In questo primo numero del nuovo anno, foriero di speranze, abbiamo provato ad immaginare la scuola che vorremmo, dando voce a diversi punti di vista, approfondimenti, interviste e articoli che mirano a coinvolgere i lettori sollecitando interessanti spunti di riflessione.

Ricordando le parole di Erasmo da Rotterdam che la speranza di una nazione è riposta nella corretta educazione della sua gioventù, ne deriva che il compito della scuola è quello di insegnare ai giovani ad imparare ad apprendere, attrezzando la mente a scegliere. In questo processo ci si trova a confrontarsi con una scuola che sta attraversando un periodo di epocali cambiamenti, basati non più su di un apprendimento nozionistico e trasmissivo, ma su un processo di apprendimento dinamico, veloce, interattivo grazie all’uso della tecnologia.

L’uso continuo degli strumenti multimediali permette all’alunno la realizzazione di ambienti consoni ai suoi interessi e alle sue possibilità di apprendimento a scapito, però, del senso critico e della riflessione  che la fase adolescenziale dovrebbe sviluppare. Ne deriva un modo di comunicare immediato, pratico, che non sempre tiene conto del significato, un sapere semplice o come diceva Bauman, un “sapere liquido”, dove è molto facile cadere nella banalità.

Per lo psicanalista Massimo Ammaniti, “in ogni adolescente c’è un Ulisse che affronta un’Odissea personale, lunga e tempestosa, prima di poter ritrovare dentro di sé il proprio luogo delle origini”. In questo viaggio i giovani si trovano a vivere un presente incerto e nebuloso, la maggior parte delle conoscenze che acquisiscono sono quelle dei social e del consumismo dilagante; la fluidità e instabilità del sociale, la diffusione di una cultura narcisistica rendono la realtà sempre più complessa, costringendo le persone ad uno stato di continua incertezza e ad assumere un atteggiamento sempre più deresponsabilizzante.

Siamo nell’epoca delle “passioni tristi”, come le definisce il filosofo Spinoza, non c’è più entusiasmo per l’avvenire ma un ripiegamento e un’implosione delle nostre aspettative. Il mondo si rinnova con una velocità impressionante ed ogni giorno nascono nuove esigenze, nuovi modi di sentire la realtà e diventano sempre più attuali temi come il bullismo, la violenza nelle scuole, l’abbandono scolastico, l’integrazione.

I nostri giovani soffrono di una sorta di analfabetismo emotivo. Infatti i sentimenti non sono trasmessi geneticamente, ma si acquisiscono culturalmente e solo attraverso la costruzione di mappe emotive possiamo costruire e rispettare legami e relazioni. Da qui l’esigenza di una cultura delle emozioni, che sappia attivare i canali dell’intelligenza emotiva attraverso la quale si fa breccia per giungere al livello intellettuale.

L’importanza dell’aspetto emozionale nelle relazioni è stato  ampiamente affrontato dal Presidente di Artedo dott. Stefano Centonze alla conferenza stampa tenuta a Roma il 20 dicembre alla Camera dei Deputati di Montecitorio, che aveva l’obiettivo di chiedere al Governo l’introduzione dell’ora curricolare di Intelligenza emotiva in classe.

D’altronde non è possibile immaginare un’educazione che non prenda in considerazione le relazioni interpersonali, l’empatia, la capacità di rapportarsi agli altri e le dinamiche di gruppo. Un corretto sviluppo emotivo rappresenta una solida base per una crescita culturale solida che non si dissolva alle prime difficoltà e soprattutto per donare quello stato di benessere indispensabile per condurre una vita piena di successi con se stessi e con gli altri.

La scuola è un sistema complesso, si presenta come un “acquario emotivo” dove le capacità relazionali tra i suoi vari componenti possono determinare il clima generale e influenzare negativamente o positivamente la gestione quotidiana.

Partendo da queste premesse dobbiamo riscrivere l’idea di futuro, riscrivere il linguaggio con il quale si parla del futuro, proponendo un diverso modo di ragionare che insegni ai nostri ragazzi a cercare dentro se stessi le risposte per affrontare l’incertezza del loro tempo, evitando di restare in balia degli eventi.

“L’educazione è l’arma più potente che si può avere per cambiare il mondo”, questa citazione di Mandela ci invita ad una riflessione sulla partita da giocare per il futuro di chi ci sta più a cuore, i nostri ragazzi.

Caro Babbo Natale

La scuola che vorrei: lettera a Babbo Natale

Lettera a Babbo Natale di una bambina della scuola Primaria di S. Clemente (Rimini)

Caro Babbo Natale,

quest’anno siamo stati fortunati perché è arrivata una maestra che ci fa divertire con il coding e la robotica. Ci ha fatto conoscere i robottini che si programmano: Koco, Doc e Mind. Io e i miei compagni gli diamo le istruzioni e Koko fa il bagnetto, Doc imbuca le cartoline all’ufficio postale e Mind disegna quello che gli diciamo. La maestra ci ha detto che dobbiamo prestarli per un po’ ai bambini della scuola dell’infanzia, che non li hanno mai provati. Non è che potresti portarne qualcuno anche a loro, così ce li restituiscono prima?

Mi piace anche decifrare i codici e creare nuovi disegni in pixel art. I nostri li abbiamo scambiati con i bambini di altri Paesi europei. Un giorno ci siamo collegati con una classe della Grecia per conoscerci, far vedere i cartelloni e augurarci buon Natale. La maestra ha detto che adesso la LIM serve alle altre classi e che ci potremo collegare di nuovo solo tra qualche mese. Mi dispiace perché è stata una bella esperienza che vorrei ripetere. Non è che potresti portare le lim nella mia scuola, così ci possiamo collegare tutti e non dobbiamo aspettare il turno?

Insieme alle LIM potresti portare anche dei computer? A me piace molto creare i quiz e fare i giochi con i tablet, ma ce ne sono soltanto due e non riusciamo tutti.

Devo chiederti un’ultima cosa. So che tu, oltre a portare i regali, puoi esaudire i desideri. Vorrei che la nostra maestra restasse con noi anche l’anno prossimo. Lei vorrebbe, ma ha detto che decide il Ministero. Puoi parlare tu con il Ministero per dirgli che per noi è importante imparare giocando? La maestra lo dice sempre che mentre giochiamo alleniamo i neuroni. In realtà non ho capito bene cosa sono i neuroni, ma sicuramente servono alla ginnastica del cervello.

L’esperienza più bella è stata quando la maestra ha fatto venire i genitori per una giornata di formazione. Noi bambini abbiamo fatto i tutor agli adulti che dovevano imparare a programmare. Noi lo sapevamo già fare ed è stato facile insegnarlo a loro. E’ stato proprio bello essere dei veri maestri.

La mia mamma e il mio papà a casa litigano sempre e non facciamo mai niente insieme. In quella occasione invece ci siamo riusciti. Ci siamo divertiti e siamo anche arrivati secondi alla gara di coding. Per questo, Babbo Natale, ti chiedo di far restare la maestra, perché lei sicuramente organizzerà altre cose belle e io potrò stare con i miei genitori e vederli ridere insieme.

Grazie!

Nicole

Mabasta!

Bullismo: una malattia interiore! Il rispetto è vita!

All’Istituto “Galilei-Costa” di Lecce circa due anni fa è nato un movimento con l’obiettivo di sconfiggere una piaga sociale: il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo. I ragazzi del movimento MABASTA! sono sempre in prima linea nella lotta contro tale fenomeno. Uniamoci a loro per debellare questo “male” sociale.

Il bullismo è un grosso problema. Ogni giorno migliaia di adolescenti si svegliano col timore di andare a scuola. Tale problema colpisce milioni di studenti, non solo chi riceve “violenza”. Purtroppo, poiché i genitori, gli insegnanti e gli altri adulti non sempre riescono a “vederlo”, potrebbero non capire quanto possa essere estremo.

Il bullismo è una forma di condotta prepotente, di tipo abusivo, tramite l’utilizzo di fraudolenti metodi di opposizione e intimidazione nei confronti di sé stessi o nei confronti dei pari soprattutto quando sussiste una chiara asimmetria di potere. Può implicare molestie verbali, aggressioni fisiche, persecuzioni, spesso in base a discriminazioni etniche, confessionali, di genere o di orientamento sessuale. Dunque, due dei motivi principali per cui le persone sono vittime di bullismo sono l’apparenza e lo status sociale. Alcuni bulli attaccano fisicamente i loro “bersagli” attraverso spintoni, inciampi, pugni o colpi, o persino con violenza sessuale. Altri usano il controllo psicologico o insulti verbali. Ad esempio, i bulli, che agiscono solitamente in gruppo, spesso prendono a pugni le persone che classificano “diverse”, oppure le escludono, spettegolano su di loro (bullismo psicologico). Possono anche prendere in giro le loro vittime (bullismo verbale). Il bullismo verbale può anche comportare il cyberbullismo che consiste nell’invio di messaggi crudeli, oppure nella pubblicazione di insulti su una persona sui social.

In che modo il bullismo fa sentire le persone? Uno degli aspetti più dolorosi del fenomeno è che è implacabile. La maggior parte delle persone vittime di bullismo vivono uno stato di costante paura, oppure si autolesionano od ancora arrivano a compiere dei gesti estremi, come il suicidio.

Il bullismo, purtroppo, è un fenomeno in forte crescita e il movimento “MABASTA”, costituito esclusivamente da adolescenti, intende prevenirlo e combatterlo in tutte le sue forme: fisico, verbale, psicologico, cyberbullismo. “La nostra mission – dicono i ragazzi del movimento – è quella di combattere ogni forma di bullismo e cyberbullismo e, se sarà possibile e quindi se saremo bravi, sconfiggere questo orrendo fenomeno. Noi operiamo soprattutto con le scuole del nostro territorio, attraverso sperimentazioni dirette, che poi estenderemo a livello nazionale “. Tale movimento è nato circa due anni fa in una prima classe dell’Istituto “Galilei-Costa” di Lecce a seguito di una discussione in classe su un grave caso di bullismo accaduto in una scuola di Pordenone. Tale vicenda ha indotto così i ragazzi, della pro-tempore I A, a non restare a guardare né ad accontentarsi di improduttivi dibattimenti, limitandosi soltanto a dire la propria opinione sul problema. Hanno dato vita a questo movimento con l’idea di unire le forze dei ragazzi di tutta Italia che vogliono davvero arginare il fenomeno, tramite un’idonea sensibilizzazione ma soprattutto attraverso azioni dirette.

Obiettivo tanto semplice da esporre quanto ambizioso e complesso da risolvere, vale a dire mettere fine al bullismo e al cyberbullismo scolastico. Un’utopia? Probabilmente. “Ma noi riteniamo di avere un qualcosa in più (o almeno di diverso) rispetto a tutti coloro che ci hanno provato sino ad ora, in quanto anche noi siamo studenti”. MaBasta! è forse la prima associazione informale contro il cyberbullismo e bullismo che si muove dal basso, anzi dal bassissimo: per utilizzare le loro stesse parole. “Il nostro vantaggio è singolare, consta nel fatto che, non essendo adulti, ed essendo dei nativi digitali, abbiamo un impatto diverso sui giovani, utilizziamo la creatività giovanile, usiamo gli stessi strumenti informatici e, soprattutto, gli stessi linguaggi di espressione e di comunicazione”.

L’ultima vittoria, dello scorso tre dicembre, ha visto i ragazzi del Movimento travolgere i rivali americani, vincendo la quinta edizione del contest internazionale promosso da BNP Paribas Cardif ‹‹Open F@b Call4ideas››, dedicato alla Positive Impact Innovation. Il progetto proposto è stato considerato innovativo, attuale ma principalmente d’impatto. “Alla lettura del verdetto finale, abbiamo esultato alla grande! È stata un’emozione unica, indescrivibile. Vincere davanti a chi, da più anni di noi, opera nel sociale, regala emozioni che non hanno prezzo”. Il progetto proposto prende il nome di ‹‹Modello Mabasta›› e consta in un’inedita sequela di consigli e azioni comportamentali che ogni classe e scuola d’Italia può facoltativamente adottare. È un innovativo formulario di proposte condotte dagli studenti e supervisionate dagli adulti (insegnanti e dirigenti scolastici). Tale Modello è rivolto a tutti i livelli di scuola, dalle elementari alle superiori.

Il nostro progetto (ed il nostro impegno) si rivolge soprattutto a tre ben precise categorie: le vittime, il bullismo ed il cyberbullismo, gli ‹‹spettatori››. Nella categoria delle vittime rientrano le ragazze e i ragazzi che, a causa della loro natura sensibile o dei loro caratteri o, ancora, del loro modo di essere, di vedere e di pensare, sono prese di mira, schernite, vessate, insultate, sia fisicamente che virtualmente. A loro chiediamo di aprirsi, di comunicare il proprio disagio. Il cyberbullismo e il bullismo sono fenomeni generati da ragazzi e ragazze che – a nostro giudizio – sono coloro che hanno più bisogno di aiuto, non sono per nulla delle persone serene ed equilibrate se sentono il bisogno di sopraffare qualcun altro per avere una propria posizione sociale. Anche a loro chiediamo di farsi aiutare, almeno nel tentare di trovare un po’ più di serenità ed equilibrio interiore. Infine, ci sono gli ‹‹spettatori›› nella cui categoria rientrano tutti quei ragazzi e ragazze che non sono né vittime né bulli, ma che sono a conoscenza o addirittura assistono in silenzio agli episodi o alle continue azioni di cyberbullismo e bullismo. A questi ultimi chiediamo di smettere di essere ‹‹complici››: intervenite sul nascere, opponetevi, segnalate gli episodi e le situazioni” – ribadiscono i ragazzi del Movimento.

MaBasta! ha ottenuto un grande successo mediatico. Il progetto nasce sui social. La pagina Facebook MaBasta ha raggiunto oltre 36.000 aderenti in circa due anni dalla nascita: “È certamente un feedback positivo, è una visibile CRESCITA, sarà una vittoria quando non ci saranno più casi di bullismo”. La bacheca della pagina presenta continui aggiornamenti e notizie sul tema del bullismo e raccoglie numerose sollecitazioni da parte di studenti ed adulti. Anche il loro sito web racconta l’associazione, la mission, le iniziative.

Tra le idee dei ragazzi per coinvolgere e sensibilizzare c’è quella della “classe debullizzata”. È una chiamata rivolta direttamente agli studenti di tutta Italia: si tratta di “autocertificare” la propria classe come priva di bulli per ricevere il titolo ed il bollino di “classe debullizzata”. L’obiettivo è quello di documentare moltissime classi prive di fenomeni di bullismo, così saranno i bulli ad essere messi all’angolo, spiegano i ragazzi sul sito. “Le classi debullizzate hanno una funzione sia preventiva che risolutiva. Preventiva perché, se firmata da tutti gli studenti, attesta che questi si impegneranno a contrastare avvenimenti futuri. Risolutiva in quanto, nell’eventualità in cui un solo studente non dovesse firmare, questi lancerebbe un segnale ai docenti”.

Ulteriori progetti intrapresi al fine di ‹‹demolire›› questo fenomeno sono: i bulliziotti e le bullibox.

A partire dall’anno scolastico 2016/17, è stato “arruolato” un esercito di bulliziotti. Tutti gli studenti d’Italia sono stati invitati ad individuare nelle loro classi i “bulliziotti”, cioè quei studenti che, già per loro natura, sono totalmente contrari alle prepotenze e al bullismo. Una volta scelti, i bulliziotti vengono formati tramite tutorial on line ed il loro compito è quello di vigilare all’interno della propria classe. Oltre ai bulliziotti di classe, vengono individuati anche i “Bulliziotti d’Istituto”, scelti tra gli studenti più grandi e che godono di rispetto e stima da parte della comunità scolastica. Il compito dei bulliziotti è quello di essere dei “mini-centri di ascolto” locali, a cui le vittime e gli spettatori possono rivolgersi per “denunciare” ogni più piccolo episodio, già sul nascere, così da permettere l’intervento e quindi la risoluzione. Ovviamente, tutti i bulliziotti potranno usufruire dei servizi del Centro di Ascolto on line, oltre che potersi rivolgere ai propri docenti e dirigenti.

Le Bullibox, una in ogni scuola, sono delle semplici scatole, simili ad urne, collocate in luoghi cruciali all’interno della scuola, nelle quali vittime e spettatori possono imbucare (anche in forma anonima) segnalazioni di episodi o di situazioni riconducibili al cyberbullismo e al bullismo. La gestione delle “Bullibox” è affidata ai Bulliziotti d’Istituto. “Attiveremo anche una Bullibox digitale, contenitori virtuali che verranno inseriti per aree tematiche sulla nostra piattaforma web”.

Un loro attuale progetto è il Mabatest: un test anonimo per segnalare atti di bullismo e cyberbullismo. L’aspirazione della start-up è quella di estendere il loro modello in tutte le scuole d’Italia e chissà magari “dopo potremmo pensare di far questo anche a livello internazionale”, una riduzione del fenomeno, ma soprattutto di essere d’aiuto tramite le attività della neo impresa sociale.

I ragazzi del Movimento hanno dimostrato, e continuano a dimostrare, come una “risposta dal basso, anzi dal bassissimo”, risulti essere coinvolgente, immediata e d’ispirazione.

Antonio Megalizzi

Ad Antonio…

Venuto alla luce nel lembo di quel pezzo di terra da dove è germinato il nome Italia, Antonio Megalizzi è non solo un giovane ragazzo di soli 28 anni con tanti sogni, grandi quanto l’Europa, ma soprattutto è un giovane ragazzo italiano, europeo la cui breve vita è una grande «parabola» che riassume e con la sua scomparsa imbocca una curva di grande dolore ma – questo il nostro auspicio – di grande trasformazione. A soli cinque mesi con la famiglia emigra nella provincia di Trento. Dal grande giardino, come Antonio chiamava Reggio Calabria, la famiglia si stabilisce a Trento: una città, porta di passaggio con l’Europa.

Da piccolo, da adolescente Antonio avrà seguito il fantastico volo d’Europa sulla groppa di Zeus: un volo che da Creta, dallo stretto di Messina percorreva tutto il continente toccandone il cuore, la testa (Strasburgo, Bruxelles). Un bambino che con le dita accarezza questo fantastico volo, illuminato dalle stelle e da tanti anni di studio, di passioni che ben presto tessono l’identità di un giovane uomo innamorato della vita, del suo bel Paese e dell’Europa di cui non smetteva di seguirne il volo nonostante il fatto ch’esso ultimamente era disturbato da opposti venti di freddezza, e desolanti spinte nazionaliste.

La nostra scuola vorrei, vorremmo che avesse lo sguardo limpido e pulito di Antonio, la sua voce europea, il suo slancio vitale e quell’immensa passione per la vita che giammai muore… e,  che se dovesse essere strappata, rinasce per virtù di quel magico ed infinito volo dell’Europa in cui adesso Antonio è nascosto e guida.

XVI Congresso sulle Arti Terapie

La migliore Italia parte da qui: l’arte per il made in Italy

Si è tenuto presso l’Hotel President di Lecce Sabato 1 e Domenica 2 dicembre 2018 il “XVI Congresso sulle Arti Terapie”, organizzato da Artedo – Polo Mediterraneo delle Arti Terapie e delle Discipline Olistiche – alla presenza del Presidente Nazionale di Artedo, il Dott. Stefano Centonze.

Sono state due giornate di intensi incontri e avvincenti dibattiti che hanno coinvolto molti studenti e numerosi esperti di Musicoterapia, impegnati nella relazione d’aiuto in percorsi di arte, danza e musica.

Presenti anche i Dirigenti Scolastici degli Ambiti Capofila: 17-Dott. Raffaele Capone, 18-Dott.ssa Ornella Castellano, 19-Dott. Giovanni Casarano, 20-Dott.ssa Filomena Giannelli, e il Direttore del Conservatorio Musicale di Lecce-Dott. Giuseppe Spedicati, che hanno animato una Tavola Rotonda sul “Decreto Legislativo 60 del 13 aprile 2017 – L’arte per il Made in Italy”, sapientemente moderata dal Dott. Luigi Martano, responsabile Universo Scuola – Artedo, nonché Dirigente di lungo corso.

Già previste dall’articolo 9 della nostra Costituzione e successivamente rafforzate con il D. Lgs. 60 del 2017, musica e danza, teatro e cinema, pittura, grafica delle arti decorative e design, scrittura creativa vengono tradotte in vitali best practice della formazione, anche e soprattutto con la dotazione dell’organico dell’autonomia: fino al 5% dei posti di potenziamento è dedicato allo sviluppo dei temi della creatività, permettendo così alle scuole del I ciclo di dar vita a poli ad indirizzo artistico-performativo e di consorziarsi in rete per condividere risorse, come laboratori, spazi espositivi, strumenti professionali, esperienze e progettazioni comuni, così come sperimentato negli ultimi anni con il “Veliero Parlante”, una vivace “ricerca-azione” guidata brillantemente dalla Dirigente Castellano, che, in un’armonica sinergia tra le scuole dell’ambito 18, ha conseguito una sintesi perfetta del laboratorio e dell’alta sperimentazione, realizzando il modus operandi del learning by doing delle discipline performative, in partenariato col DAMS dell’Università del Salento e l’Apulia Film Commission di Lecce.

È da una simile prospettiva multidisciplinare di immagini, suoni e narrazioni che la dottoressa Castellano propone una tecnologia che si faccia “agita” attraverso la “Winter School in Film Education”, che formi quei profili professionali che, all’interno di ogni scuola,  siano promotori della buona cultura ed educatori al corretto uso della tecnologia, in sintonia con la prevenzione al cyberbullismo (L. 71/2017). I docenti formati con la  “Winter School in Film Education” saranno esperti intermediari nello studio critico delle immagini, del suono e della narrazione e del nostro patrimonio culturale dell’arte.

Coniugare sapientemente il territorio, l’arte, la storia, le tipicità dei luoghi e le peculiari professionalità con il percorso scolastico dell’alunno è, secondo il Dottor Capone, la mission del buon dirigente scolastico: nel PTOF di ogni singola scuola si esprime l’attenzione alla formazione globale della persona, per la “piena realizzazione della MISSION che mira a promuovere il successo formativo di tutti e di ciascuno ponendo al centro dell’attenzione educativa la persona in relazione al contesto di vita, nell’ottica della VISION che punta alla formazione dei futuri cittadini capaci di soddisfare le richieste di una società in continuo cambiamento, persone che, forti delle proprie competenze specifiche (tecnologiche, digitali e scientifiche), sappiano affrontare le sfide del mercato globalizzato.”(Piano Triennale dell’Offerta Formativa 2016-2019 “Istituto Tecnico Grazia Deledda” di Lecce).

É nell’Atto di Indirizzo che il Dirigente Scolastico, ispirandosi ai principi di inclusione, solidarietà, libertà, creatività, rispetto, resilienza, esprime la propria sensibilità alle richieste formative del territorio, in una forma di dialogo e collaborazione tra le risorse presenti, che fa leva, secondo il Dottor Giovanni Casarano, sulla motivazione alla formazione del docente, che proviene prevalentemente dalla spendibilità delle competenze acquisite.

Finalizzato allo sviluppo del territorio e all’integrazione sociale, il D. Lgs. 60/2017 ha permesso, nella sola provincia di Lecce, la costituzione di 25 partenariati tra Conservatorio di Lecce, diretto dal Prof. Spedicati, ed associazioni, Comuni, Scuole per il recupero di situazioni di svantaggio e per la prevenzione alla dispersione scolastica: il Conservatorio Musicale propone la diffusione della cultura musicale fin dalla Scuola dell’Infanzia e perfino nelle Scuole Paritarie.

L’attuale normativa ha aperto nuovi orizzonti formativi nella diffusione della cultura musicale con laboratori di studio dello strumento e la pratica musicale nella Scuola Primaria, percorso normativo giunto a compimento con il D. Lgs. 60/2017, ma avviato già nel 2011 con il D.M.8, come opportunamente precisato dalla Dott.ssa Giannelli: nell’Art. 8 “Sistema formativo delle arti e competenze del personale docente”, il D. Lgs. 60 porta a regime la formazione dei docenti, che era stata già a suo tempo sostenuta e promossa dal Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica, presieduto dal Prof. Luigi Berlinguer, nella prospettiva del graduale inserimento della pratica musicale nel curricolo di base di tutti gli studenti e per l’avvio delle attività musicali nelle scuole.

La grande intuizione di Luigi Berlinguer, presidente del “Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della Musica” e di Annalisa Spadolini, referente del nucleo tecnico operativo, fu, in anticipo sui tempi, quella di insistere sulla sperimentazione della pratica vocale e corale; promuovere la musica e il movimento; avvicinare all’ascolto strumentale e sensibilizzare all’attività ritmica, potenziare le competenze musicali dei docenti, garantendo una minima alfabetizzazione musicale, anche mediante laboratori a carattere formativo di aggiornamento per il personale docente.

Il D. Lgs. 60/2017, nel tentativo di sostenere la cultura umanistica e la creatività,  attua concretamente il “fare musica per tutti”, coinvolgendo Ministero dell’Istruzione, dell’Università e  della Ricerca, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, INDIRE, Sistema Nazionale d’Istruzione e Formazione, AFAM, Università, Istituti Tecnici Superiori, Istituti del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Istituti Italiani e di cultura, Istituzioni Scolastiche, anche organizzate in rete e poli, Istituti e Luoghi della cultura, Enti Locali e tutti quei soggetti istituzionali pubblici e privati che «concorrono, nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, a realizzare un sistema coordinato per la promozione e il potenziamento della cultura umanistica e della conoscenza e della pratica delle arti» (Art. 2, comma 2 e Art. 4, comma 1).

È, in tal modo, soprattutto mediante una fusione di nazionale e locale che si rende possibile “la scuola che vorrei”, in grado di dar voce alle risorse del posto, alle richieste del territorio, alle esigenze di crescita e promozione dell’essere umano.

Il curricolo efficace contro l’erosione dell’idealità

Hannah Arendt, nel suo libro “La banalità del male”, pensa al male come “banalità” per connotarlo come “inconsapevolezza”, non del “fatto”, bensì del “valore negativo” che il responsabile del male ha delle proprie azioni, in una sorta di “cecità morale, determinata dall’appiattimento dei valori e dalla resa delle coscienze. Si pensi alla “banalità del male” che recentemente ha trasformato in tragedia il concerto di un noto cantante Trap a Corinaldo, in provincia di Ancona.

È il tempo, il nostro, dell’“idealità erosa”, che investe i comportamenti di ognuno e travolge l’etica personale come quella pubblica. In questo tempo storico caliginoso, il senso di fallimento esistenziale è direttamente proporzionale alla “perdita di fiducia” generalizzata. Le identità sono deformate. Le persone dall’aspetto bello, curato, dall’espressione ridente nei selfie, sono in realtà cariche di paura. Le persone disorientate, infiacchite, che chiamano resilienza la propria rassegnazione, il proprio senso di debolezza, di incapacità alla reazione verso un processo di ricostruzione del tessuto sociale.

In questo veloce processo di disgregazione dell’idealità culturale, è comune la volontà di chiamare a raccolta le forze necessarie per evitare il punto di non ritorno dei valori. Occorre una riflessione vivifica sull’importanza di investire nei diritti umani, nello sviluppo di una cultura della responsabilità, con attenzione agli stili di vita, mantenere la fiducia nella possibilità di un cambiamento emancipatorio (Emancipatory Change) e in una Europa che genera civiltà e umanità.

In tale scenario la scuola è chiamata a ripensare l’Autonomia scolastica, come strumento che può apportare un enorme valore, non solo in termini di apprendimento degli studenti (essendo essa alla base del successo formativo) e in termini di uguaglianza, ma anche di equità e coesione sociale, verso la collocazione della scuola in una posizione di centralità nelle politiche sociali.

In tale direzione il curricolo verticale, “percorso formativo intenzionale”, progettato dalle singole Istituzioni scolastiche, in regime di autonomia, sulla base dei reali bisogni dell’intera popolazione scolastica e delle specificità del territorio (attese e risorse), è uno strumento strategico e vincente per garantire lo “sviluppo integrale della persona”. Uno dei punti chiave del successo formativo è, infatti, la continuità educativa, che fa la differenza in fatto di qualità e che sottende al curricolo verticale (DM 139/2007, Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo scolastico), per lo sviluppo armonico delle competenze.

Il curricolo mette in relazione tre elementi: l’esperienza individuale, l’insieme organico delle conoscenze e un determinato periodo storico. La ricerca sul curricolo studia proprio la relazione tra questi elementi. Lo scopo è l’efficacia dell’interazione continua tra cultura individuale e cultura sociale. L’oggetto (d’amore) del curricolo è la ricerca delle “modalità di mediazione tra singole persone e società”. L’elemento strategico dell’efficacia di un curricolo è il raccordo tra la “mappa del mondo” di una persona (secondo la Programmazione Neuro Linguistica, rappresentazione personale della realtà, mediante cui si attribuisce un significato agli eventi e si valutano scelte possibili e auspicabili) con il suo essere nel mondo; ossia, il raccordo tra “i modi di pensare e di affrontare la realtà” con “le strategie di pensiero e di condotta in un ambiente organizzato”. L’efficacia del curricolo, oltre all’acquisizione delle competenze disciplinari (D.M. 254/2012, Regolamento recante indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione e “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari” del 2018), sta, dunque, nel superamento della difficoltà degli alunni (ognuno con la propria realtà soggettiva) a prendere atto o unicamente a concepire l’esistenza di rappresentazioni e modelli della realtà differenti dai propri.

Le persone reagiscono emotivamente, non ai fatti o alla descrizione degli stessi, ma al senso che attribuiscono ai fatti. La conquista, dunque, è la consapevolezza della relatività dei propri modelli. Il curricolo efficace valorizza il modello individuale della realtà (mediante cui una persona trova il senso della propria vita e degli eventi che accadono) e abbatte i filtri sociali, ossia la difficoltà del confronto con altre culture (“tutti gli invisibili sembrano uguali ed ugualmente maligni” scrive James Hillman per descrivere l’impermeabilità a ciò che è sconosciuto). Ecco l’importanza dell’educazione alla “cittadinanza terrestre” di cui parla E. Morin.

In tale prospettiva, è ben comprensibile il carattere di necessità del curricolo verticale di base, che rende possibile l’implementazione di percorsi formativi, dai Poli per l’infanzia alla scuola secondaria, coerenti, unitari e volti principalmente all’acquisizione di  “life skills”,  competenze sociali e civiche, relazionali e affettive, allo sviluppo di un’etica della responsabilità, di una “coscienza antropologica ed anche ecologica” (connessioni trasversali in riferimento alle competenze di Cittadinanza).

Cruciale è il ruolo del Dirigente Scolastico, massimo costruttore della comunità professionale della scuola, quale unità filosoficamente coesa, responsabile rispetto ai traguardi di competenza posti dalle Indicazioni, capace di riflessione continua (anche grazie al Rapporto di Autovalutazione e al Piano di Miglioramento) e pronta alle conseguenti iniziative di formazione. Fondamentale è la “learning organization”, la quale pretende dai docenti, facilitatori dell’acquisizione di sistemi simbolici culturali e organizzati in “comunità di pratica”,  “modelli di competenza esperta”, per strutturare ambienti di apprendimento innovativi (contesto dell’ “apprendistato cognitivo”), compiti aderenti alla realtà, iniziative di ricerca-azione.

Hillman dice che “tutti i bambini hanno un’ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca”, si parta da questo, sin dalla Scuola dell’Infanzia,  per ripensare la dimensione metodologico-operativa del curricolo.

La scuola che vorrei: “una nuova mission”

Con la Legge 107/2015 nuove parole chiave sono entrate a far parte del panorama linguistico scolastico: Vision, Mission, accountability, improvement, rendicontazione sociale, comunità professionale, PTOF, potenziamento, reti  di ambito e reti di scopo, GDPR… Si ha la sensazione di aggirarsi tra i meandri di un labirinto i cui enigmi non sono di facile risoluzione.

Dirigenti, docenti, e personale scolastico si sono trovati a fare i conti con dematerializzazione, digitalizzazione, privacy, sicurezza, benchmarking, certificazioni, rendendo la scuola una “agency” il cui fine ultimo, sembra essere esclusivamente il principio del buon andamento fissato all’art. 97 della Costituzione, la misurazione della performance, in un’ottica di qualità del servizio prestato.

La paura del miglioramento della qualità dell’istruzione, dell’innalzamento dei livelli di apprendimento, degli esiti finali, della rendicontazione sociale stanno diventando l’obiettivo prioritario attorno al quale la scuola corre il rischio di focalizzare la sua azione strategica e finale. Non adeguata attenzione viene rivolta alle emozioni, vero motore di motivazione, di autorealizzazione, di apprendimento significativo e situato, di crescita personale e sociale.

Molti gli studi sociologici che affermano che la società nella quale stiamo vivendo è sempre più diversificata a causa della multietnicità, dell’interculturalità, della globalizzazione, della diffusione di nuove tecnologie. Inoltre il profondo disagio manifestato dalle ultime generazioni nei confronti di una società alienante, liquida, senza punti di riferimento culturali, valoriali, economici, lavorativi,  crea profondo disagio e gap tra le passate e le nuove generazioni, che non riescono a comunicare tra loro.

Le cause che provocano il “drop out” dei ragazzi e portano al non impegno, al disagio e all’abbandono scolastico, sono da ricercare nelle loro relazioni con gli altri, nella mancanza di autostima, nell’assenza di fiducia nel futuro. Risulta dunque necessario rispondere alla emergente sfida educativa che rifletta sul ruolo che le emozioni svolgono nell’intero arco vitale dell’individuo, influenzandone il comportamento, il processo di apprendimento, nonché il successo formativo.

Promuovere e costruire uno “spazio d’azione” nel quale creare benessere con se stessi e con gli altri, questa è la nuova mission della scuola che vorrei; acquisire abilità di ascolto, capacità di lettura del disagio degli studenti, fermarsi a guardarli, sviluppare capacità di “empatia intellettiva” , di comunicazione tempestiva ed efficace, di uso di strategie motivazionali.

“Emozioni per educare… Educare alle emozioni” (Convegno del 30/11/2018 dell’Istituto “Ites Olivetti” in collaborazione con il MIUR, la Regione Puglia dal titolo omonimo) è il motto di una nuova mission: una mission che crede in una scuola come comunità educante, una scuola che cerca di formare identità forti, consapevoli dell’unicità individuale, della ricchezza personale, della spendibilità delle proprie potenzialità.

Le emozioni regolano la vita delle persone: esse governano tutti i rapporti umani, permettendo di aprirsi al mondo e di entrare in relazione con gli altri. Per questo, prendere confidenza con le emozioni e imparare a riconoscerle vuol dire essenzialmente imparare a mettersi in discussione, ad accettarsi, ad aprirsi al confronto, soprattutto apprendere il mondo e le cose del mondo. Le emozioni devono guidare l’agire didattico, un agire improntato a valori di cittadinanza attiva e responsabile e finalizzato al successo di tutti e ciascuno.

A sostegno di tali interventi e modalità educative, per operare direttamente nelle realtà scolastiche intervengono anche le norme che regolano le azioni da mettere in atto. La legge 107/15 all’articolo 1, comma 16 afferma che una delle priorità a cui la scuola deve rispondere, è quella di guidare le nuove generazioni al rispetto delle diversità nell’ottica di una “scuola inclusiva e aperta al dialogo” (altre fonti normative D.lgs 71/17, Piano nazionale per l’educazione al rispetto/MIUR).

Ruolo fondamentale della scuola è quello di creare esperienze emotive significative capaci di muovere il pensiero riflessivo e di stabilire un rapporto empatico tra docenti e discenti; un rapporto basato sulla fiducia relazionale, sulla credibilità, sulla continua autoanalisi. L’obiettivo è allenarsi a riconoscere le emozioni dei nostri ragazzi nel momento stesso in cui si manifestano, senza che esse prendano il sopravvento su di loro e quindi su di noi.

Infatti il pericolo del disorientamento, dello scoraggiamento è sempre alle porte, esiste un rischio molto alto di DISTORSIONI COGNITIVE che fanno apparire le cose peggiori di quanto siano in realtà. È invece importante che l’insegnante li renda consapevoli che vi sono alcune cose che non si è in grado di cambiare e che per tanto non vale la pena lasciarsi frustrare da esse o prendersela.

Dobbiamo aiutarli a comprendere che le esperienze siano esse positive o negative, possono trasformarsi in insegnamenti e in una futura crescita dai quali ripartire più forti e convinti. Il Piano dell’offerta formativa può contenere un insieme di azioni educative e formative che, attraverso le collaborazioni con gli Uffici scolastici regionali, con le Reti di scopo e con gli Enti locali, permettano agli studenti di acquisire e sviluppare competenze trasversali, sociali e civiche.  Anche la promozione della formazione dei docenti è garanzia di acquisizione di life skills, il cui possesso aiuta a prevenire atteggiamenti antisociali, promuovere autoefficacia e collaborazione tra pari ed indirizzare gli alunni verso un percorso di autoconsapevolezza e responsabilizzazione verso il proprio status di “cittadino, lavoratore responsabile, partecipe alla vita sociale, capace di assumere ruoli e funzioni in modo autonomo, in grado di saper affrontare le vicissitudini dell’esistenza” (OMS).

“Mi pareva di essere nell’antico oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Si vedeva che fra i giovani e i Superiori regnava la più grande cordialità e confidenza…”( Don Bosco “Il cortile di Valdocco”- tratto da Lettera da Roma, 1884).

E’ questa l’immagine della scuola che ogni ragazzo dovrebbe sperimentare e vivere nel proprio percorso formativo. Una scuola dove la familiarità, la fiducia reciproca, la lealtà guidano le relazioni umane, promuovono la crescita dell’identità, motivano all’apprendimento significativo. Nella lettera si parla di cordialità e confidenza, una confidenza che cresce nel tempo tra gli attori del processo educativo, tra educatori e educandi,  che suscita spontaneità nei rapporti umani. Sentirsi amati è il fulcro della vera felicità e realizzazione personale e l’amore si manifesta nella capacità dell’educatore di ascoltare. Ascoltare per me significa guardare oltre e guardare dentro ogni uomo, per poter capire e carpire i reali bisogni della persona che ho davanti. In questo momento fluttuante, alienato, è veramente difficile per la scuola ritrovare il proprio ruolo e lo è ancora di più per ogni docente che vive la sua professionalità in modo frustrante e limitato. Ma vorrei far mia una frase di Don Bosco che dice: “Studia di farti amare, prima di farti temere“.

“Una koinè della Storia: la fiaba”

Il titolo di questo articolo utilizza tre sostantivi splendidi sia come significanti che come significati.

Il termine koinè deriva dal greco e significava la lingua letteraria utilizzata dai prosatori di età imperiale. Dal 1933 ha assunto l’accezione di “lingua comune”, “lingua con caratteri uniformi” capace di mettere in relazione popolazioni anche geograficamente distanti e dissimili. La Koinè si contrappone al dialetto, alle parlate regionali, che localizzano la relazione e la diffusione delle informazioni.

La Storia, va da sé, è la somma di tutte le azioni umane perpetrate nel tempo e nello spazio e di cui si ha memoria o testimonianza o documentazione di qualsiasi forma.

Per Fiaba, infine, si intende una narrazione, orale o scritta, che ha radici antichissime e che racconta di uomini e donne che incappano in avventure cariche di magia e mistero, personaggi anche orridi e truculenti, capaci di mangiar vive le persone o smembrarle o trasformarle in qualsiasi cosa si immagini. Il suo fine non è pedagogico ma, come direbbe Sigmund Freud, rappresenta le paure umane, gli “ambigui sogni” che ognuno di noi porta in cuor suo, più o meno coscientemente, in forma più o meno silente.

E’ da questa definizione di base che sono partita per interpretare la funzione del patrimonio fiabesco mondiale, un lavoro immenso, praticamente infinito, capace di serbare sorprese degne del più famoso dei maghi fiabeschi.

La mia analisi, però, non si muove solo all’interno di un concetto linguistico/geografico, ma implica anche un filone che contempla la metaforicità del concetto di Koinè. Il mio viaggio fiabesco, quindi, è fatto, come per un treno, di due binari paralleli: uno squisitamente antropologico ed un altro storico; ambedue, ovviamente, strettamente connessi all’evoluzione di eventi sociali, economici, politici legati a luoghi, a microcosmi popolari e a macro esperienze di interi popoli ed etnie.

La Fiaba è questa Koinè, è questo strumento/mezzo attraverso cui, nei millenni, si sono strutturati e trasmessi saperi e “dissaperi”, fatti e misfatti.

Partendo da un’epoca relativamente moderna e tralasciando tutto ciò che è stato nei secoli precedenti, perché il tempo non ci permette di fare altrimenti, vi presento una velocissima panoramica: siamo nei primi anni del 1800 e due fratelli leggendari, Wilhelm e Jacob GRIMM conducono la loro ricerca e la stesura di quei racconti della tradizione tedesca, a quell’epoca, come tutta l’Europa, alle prese con l’espansione onnivora di Napoleone Bonaparte. Per i due “ricercatori”, come dice Italo Calvino nella sua famosa introduzione alla prima edizione di “Fiabe Italiane” del 1956(1), questo progetto aveva il sapore archeologico della scoperta di resti di un’antica religione della loro razza, religione custodita dal popolo e che si auspicavano potesse risvegliarsi al passare dell’era in corso. Per i due fratelli, la Fiaba, quindi, costituisce una sorta di navicella del tempo, come quelle da riempire e sotterrare al fine di tramandare conoscenze e memoria ai posteri, utile a perpetuare un patrimonio di saperi, che rischiavano di essere cancellati dagli eventi.

In Italia, nel medesimo periodo e poi un po’ più avanti, all’epoca dei moti insurrezionali e delle guerre di indipendenza, la Fiaba acquisisce il valore del Culto Patriottico, della resistenza culturale come primo baluardo di una auspicabile resistenza ideologica e, di conseguenza, di una reazione politica e militare.

Siamo lontani dal lavoro positivista degli studiosi, che andavano alla ricerca di nonne e nonni in vena di ricordare e narrare. Quello è l’ambito scientifico della ricerca sulla Fiaba, incentrato sulla raccolta e sulla conseguente catalogazione di una memoria popolare.

Proseguendo cronologicamente, sempre in Italia, perfino Benedetto Croce si cimenta con questo repertorio. Raccoglie testimonianze orali e le trascrive. Questo lavoro è affidato a” Demopsicologi”.

Il lavoro che sto cercando di impostare io, è, invece, una via di mezzo fra visioni simili a queste e considerazioni come quelle della scuola di Freud, di cui ho già detto in principio. Lo scienziato considera le Fiabe come espressioni di paure, “repertorio di ambigui sogni”(2) che vengono così rappresentati.

È il caso, a mio parere emblematico, di raccolte come “Le favole di Auschwitz”, raccolta edita dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau nel 2017 e che per una specialista in didattica della Shoah è materiale preziosissimo.

Questo libro presenta sei fiabe scritte da prigionieri del tristemente famoso lager. Questi, nel 1942 o 1943, erano stati mandati a lavorare negli uffici del Bauleitung, un ufficio che si occupava di produrre documentazione edilizia attinente i diversi campi di concentramento nazista. Fra le loro mani giunsero, di nascosto, quaderni di bambini ebrei di lingua ceca, che erano stati ritrovati nei pressi delle camere a gas nelle quali quei bambini erano stati fatti entrare. La fase dell’espoliazione aveva, ovviamente, implicato l’abbandono anche di questi materiali. Quando i quaderni giunsero nelle mani di questi 27 internati, diciamo pure, “fortunati”, essi pensarono ai propri figli, a come avrebbero potuto narrare loro una Fiaba tratta da simile melma esperienziale e cominciarono chi a tradurre o a scrivere, chi ad illustrare, chi a copiare in bella grafia, chi a rilegare, chi a produrre le copertine, chi, mentre tutto ciò accadeva, a fare da palo per evitare che si venisse scoperti.

A lavoro finito venne prodotta una cinquantina di copie di queste fiabe, che vennero fatte uscire dal campo nei modi più disparati.

Nell’introduzione dell’editore si legge “La favola sul leprotto, la volpe ed il galletto, trasmessa da Bernard Swierzyba al proprio figlio Felicjan nato dopo il suo internamento ad Auschwitz, venne trasportata da un ufficiale delle SS. La fiaba, con ogni probabilità mascherata tra le carte, fu inserita dall’ufficiale in un dizionario di lingua tedesca. La favola sulle avventure del pulcino nero, illustrata ad Auscwitz da Henryk Czulda per il proprio figlio Zbyszek, giunse a destinazione dopo aver attraversato ben cinque campi di concentramento.”(3)

Il linguaggio immaginifico e fantastico attraverso cui questi padri trasmettono messaggi rassicuranti e rasserenanti ai propri figli lontani esprime il desiderio genitoriale più naturale, ancestrale: proteggere la propria creatura dalle brutture di cui è capace quell’essere che spesso di umano ha ben poco. Il lieto fine, caratteristica quasi universale delle fiabe, è qui rispettato, perché non è naturale e salutare far sognare che il male possa predominare, sopraffare il bene, godere della vittoria finale. Qualche battaglia gliela si può anche dar vinta, ma la guerra no!

Questa formula, che si trova in queste come nelle fiabe di tante altre provenienze geografiche e quindi culturali ed etniche, manifestano un leit motiv, che sottende a necessità umane ataviche, innate, connaturate alle sue necessità di equilibrio, stabilità e armonia.

Gli “ambigui sogni” vengono in tal modo esplorati ed esorcizzati così come vuole il più umano dei percorsi di crescita.

Tale ricerca mi sta portando a spasso per il globo, quindi, e per il tempo. L’eccezionale, in tutti i sensi, raccolta e trascrizione delle “Fiabe Italiane” di Italo Calvino, edita, per la prima volta, nel 1956 è un’altra fonte di studio e progettazione disciplinare attinente la storia, la geografia e la Letteratura. Attraverso il suo uso si può giungere ad identificazioni di topoi antropo-culturali, linguistici, politici, socio-relazionali e storici.

Il viaggio prosegue verso l’estremo oriente e le Fiabe della Cina antica e poi nelle Americhe con le culture del nord, del centro e del sud di questo immenso continente, che attraverso la tradizione e trasmissione di tale memoria, sono riuscite a superare il terrificante ostacolo posto dalle invasioni e dalle violazioni dei più elementari diritti civili di tutela e sopravvivenza imposti dai popoli occupanti.

La fiaba, qui, ha spesso funto, come è stato per la cultura dell’Africa nera saccheggiata e violentemente sparpagliata per il mondo, da rifugio segreto, da Griot immateriale atto a perpetuare al fine di non cancellare le radici, l’origine, il perché dell’esistere di interi popoli, di splendide culture, di un ricco passato di grande umanità.

Note:

  1. Italo Calvino, Fiabe Italiane – Volume Primo. Introduzione; Ed. Oscar Mondadori, Milano 2006, pag XI.
  2. Ibidem, pag XII.
  3. Le favole di Auschwitz, Ed. Museo statale di Auschwitz/Birkenau, Oswiecim, 2017.

PUA (Progettazione Universale per l’Apprendimento)

E’ stata una stagione particolarmente feconda per la scuola, investita negli ultimi anni  da un processo riformatore che ha visto impegnati a diverso titolo diversi soggetti. Una vera svolta epocale iniziata nel  luglio 2015 con la legge 107 sulla “Buona Scuola”, continuata con i decreti attuativi ed una mole di riforme successive che  nelle intenzioni del legislatore avevano l’unico scopo di mettere a regime la nostra scuola fanalino d’Europa.

Il risultato? Migliaia di docenti e dirigenti scolastici impegnati dapprima a decodificare il senso di questo processo riformatore per poi cavalcare il cambiamento cercando di attuare quanto veniva richiesto. Una scuola sempre più organizzazione complessa, aperta, attiva sul territorio, risorsa importante per la ripresa civile ed economica del Paese che necessitava da tempo di un restyling che nelle intenzioni sicuramente appariva fin da subito apprezzabile ma nelle modalità e nei tempi (non certo distesi per la messa a regime) andava valutato meglio.

Volendo tralasciare le riflessioni evidentemente comprensibili del magma legislativo (che ha avuto effetti dirompenti) va detto che il legislatore ha voluto affrontare una vera e propria “impresa” strutturale finalizzata a trasformare una scuola malferma, ponendo al centro, decisioni di “sostanza” che avrebbero avuto un qualche riverbero in un futuro non troppo lontano. Un passaggio un tantino affrettato, approssimativo, confuso, che ha sbloccato sì la latitanza politica di un ministero quello dell’istruzione intorpidito da un bel po’, che senza badare alle implicazioni future ha ritenuto maturi i tempi per rispondere a quel bisogno di cambiamento della didattica.

Come??? Innanzitutto con una riqualificazione della professione docente , con il superamento di quell’impianto tradizionalista, obsoleto e  trasmissivo (ancora purtroppo largamente prevalente) costruito su una rigida organizzazione spazio-temporale che andava ripensato in funzione dei ritmi e degli stili di apprendimento, valorizzando la significatività della cultura della progettazione e della valutazione, affrettando il passaggio alla digitalizzazione, (mettendo a regime le situazioni di inadeguatezza informatica delle istituzioni scolastiche grazie anche al PNSD) premiando sulla base di indicatori di qualità le scuole migliori di ogni ordine e grado, trasformando la platea di studenti in ”un esercito di problemi differenti” che necessitano di essere risolti attraverso l’ottimizzazione di progetto didattico.

Allora dopo il RAV, il PTOF, la fase C, la PNSD con il coding, gli accordi di rete, di ambito e di scopo, ecco che all’orizzonte si profila la PUA (PROGETTAZIONE UNIVERSALE per L’APPRENDIMENTO) o UDL (UNIVERSAL DESIGN for LEARNING) che sviluppa al suo interno tre grandi sfide: diversità, inclusività, tecnologia.

Dunque, un nuovo approccio psico-pedagogico che attraverso le Linee guida compie un grosso passo avanti nella costruzione e miglioramento del curricolo adattando percorsi di apprendimento flessibili e accessibili a tutti. Un modello nel quale il primato della dimensione pedagogica-educativa non si esaurisce nel postulato del principio della personalizzazione dei processi di scolarità, ma si sforza di dare IDENTITA’ e VISIBILITA’.

Costruire curricula validi per tutti, superando la categorizzazione degli allievi in contesti inclusivi, stimolanti senza “penalizzanti etichette” è la nuova sfida delle scuole. Si potrà dire di uscirne vincenti nella misura in cui si comprenderà che correre da soli non porta più così tanto lontano e che nel raccogliere idee intelligenti attraverso reti, partenariati, consorzi si può ben sperare di andare lontano. Documenti internazionali di grande spessore come l’ICF, la Convenzione dei diritti delle persone con disabilità, la strategia europea sulla disabilità e tutte le innovazioni normative sui BES vanno tutti nella direzione di una nuova frontiera dell’educazione.

Chiaramente l’attuazione della personalizzazione nella progettazione curricolare andrebbe declinata con lezioni /unità di apprendimento che riducano gli ostacoli, ottimizzino i livelli di difficoltà e di supporto e soddisfino i bisogni di tutti gli studenti. Via dunque curricula rigidi, validi per tutti, vere e proprie barriere all’apprendimento e al loro posto la PUA che risponde alla variabilità degli stili cognitivi degli studenti attraverso opzioni personalizzabili di obiettivi, metodi, materiali e valutazioni. La ricerca neuroscientifica che viene in supporto conferma la bontà della PROGETTAZIONE UNIVERSALE per l’APPRENDIMENTO e fornisce tre principi che sono schematizzabili in :

  1. cosa si apprende
  2. perché si apprende
  3. come si apprende”

Le modalità di approccio ai contenuti avviene secondo approcci multipli che consentono agli studenti di percepire e comprendere più o meno velocemente. Non esiste un modo di apprendere valido per tutti e le rappresentazioni sono la risultanza di opzioni e modalità diverse di approcciarsi. Anche le abilità strategiche e l’organizzazione del lavoro è variabile e questo spiega che non esiste una sola azione valida per tutti ma molteplici. L’apprendimento diventa allora il nodo strategico per i mille motivi che influenzano la conoscenza e per gli altrettanto svariati fattori (culturali, neurologici, affettivi, cognitivi) che sottendono il coinvolgimento. Ogni giorno ci interfacciamo come docenti con una variabilità di stili e comportamenti (allievi motivati, oppositivi, apatici, spaventati, altri ancora che si esprimono meglio nel microgruppo, altri invece che hanno bisogno di un tutor e così via).

L’intento della PUA è quello di formare studenti ESPERTI, che riescano a sviluppare tre  direttrici di marcia:

  1. studenti capaci, strategici ed orientati all’obiettivo;
  2. studenti esperti;
  3. studenti motivati ad apprendere di più e meglio.

Progettare un curriculum della PUA richiede il rispetto di quattro elementi fortemente correlati:

  1. obiettivi che rispettano le diverse variabili degli studenti e che quindi offrono una varietà di opzioni; è chiaro che il focus nella Progettazione universale è spostato sulla formazione dello studente esperto e sulle aspettative raggiungibili e non più sui contenuti;
  2. metodi, ovvero procedure dell’apprendimento assolutamente differenziate in base all’obiettivo educativo, al contesto, ai soggetti, all’ambiente della classe, ai continui progressi;
  3. materiali o supporti integrati necessari per arrivare alla conoscenza meglio se non standardizzati, ma alternativi, assolutamente utili ed efficaci al successo di ciascuno;
  4. valutazione ovvero il momento finale di raccolta dei dati sulla conoscenza acquisita, sul coinvolgimento, sulla capacità degli allievi di pervenire alla conoscenza. Dunque, curricula concepiti e disegnati in maniera completamente diversa, non più inflessibili o peggio ancora ideali che gli insegnanti in un difficile gioco di adattamento fanno andare bene a tutti. Un curricolo sapientemente accessibile, adattabile, progettato per controllare progressi graduali, dinamici, tale da fornire le chiavi di lettura efficaci per apprendere e non per insegnare. E’ chiaro che un curricolo centrato sui principi della PUA ha il pregio di ridurre o addirittura limitare i tempi e i costi di modifica qualora si costruiscono situazioni ed ambienti di apprendimento ottimali per tutti e per ciascuno in cui le differenze individuali non rappresentano una “scomoda variazione” al programma.

Una simile progettazione che si fonda principalmente sulla zona di sviluppo prossimale di Lev Vygostskij ma che non disdegna la lezione di Piaget, Bruner, Ross, Wood e Bloom recepisce anche i moderni contributi delle neuroscienze secondo cui la conoscenza da parte della nostra mente si raggiunge con la costruzione di una rete che avviene con un’azione congiunta di riconoscimento strategico ed affettivo.

Allora l’apprendimento e il trasferimento dello stesso avvengono in presenza di rappresentazioni multiple che consentono agli allievi di fare anche connessioni non lineari. E la multimedialità??? Per le potenzialità educative e didattiche non indifferenti e per il carattere polimorfico le TIC offrono all’utente la possibilità di scegliere il percorso conoscitivo più confacente alle proprie caratteristiche. La scuola non può non tener conto di questa risorsa strategica specie alla luce del rinnovato ruolo formativo che impone di ridefinire i processi di apprendimento-insegnamento.

La tecnologia, valore aggiunto all’oggetto della conoscenza, dà ancor più valore al reale. Provare a scoprire in questo nuovo modo di progettare tanto di positivo, lo si deve per amore della verità, ma ancor più per aggiustare il tiro di una scuola che per troppo tempo ha puntato l’indice verso coloro che per limiti, errori, incapacità sono rimasti nascosti, ai margini, avallando nel tempo una professionalità docente sempre più scaduta nella sua caricatura (il professionismo) e l’insegnamento ridotto ad un solo fatto tecnico. Allora viene da chiedersi se si è ancora in tempo per rimediare agli errori di un passato non così lontano. La risposta assolutamente affermativa ha senso se si ha la volontà di cambiare cominciando a sforzarsi di capire la PUA e alla straordinarietà della ricaduta metodologico-didattica… Al momento la PUA rimane ai più “questa sconosciuta”!!!…

Il futuro dell’educazione civica

Era il 1958 quando Aldo Moro, a capo dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, introdusse nel nostro ordinamento scolastico l’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole medie e superiori,  per due ore al mese obbligatorie affidate all’insegnante di storia, senza valutazione. Forse è proprio a causa della mancanza di ore esclusivamente dedicate, e  all’assenza di una valutazione, che tale insegnamento fino ad oggi non ha mai trovato piena cittadinanza nelle attività scolastiche svolte dagli studenti del nostro Paese.

L’Educazione civica infatti nella maggioranza dei casi è stata oggetto di un’attenzione sporadica da parte degli insegnanti di storia che, con poche ore a disposizione, erano  già in difficoltà a completare entro la fine dell’anno scolastico i vasti programmi di Storia previsti dal Ministero.

Da  circa 60 anni quindi l’Educazione civica si è “conquistata” l’appellativo di Cenerentola della scuola italiana; presente nelle previsioni ordinamentali e  negli elenchi dei libri da acquistare a inizio anno, ma di fatto quasi assente nelle attività didattiche svolte dai nostri alunni.

La situazione non è cambiata neanche nel 2008 quando, a seguito dei processi di riforma avviati dal Ministro Mariastella Gelmini, gli obiettivi e le conoscenze compresi nell’insegnamento dell’Educazione civica confluiscono in un nuovo insegnamento denominato Cittadinanza e Costituzione, sia nella scuola dell’infanzia e del primo ciclo che in quella del secondo ciclo.

Con questo nuovo insegnamento tuttora presente negli ordinamenti scolastici il legislatore si poneva l’obiettivo di costruire più ampie competenze di cittadinanza, rispetto agli obiettivi del tradizionale insegnamento di Educazione civica. Anche questo intervento legislativo però non introdusse una disciplina autonoma con un voto distinto.

La valutazione delle competenze di Cittadinanza e Costituzione va infatti a costituire il complessivo voto delle discipline di area storico-geografica e storico-sociale di cui essa è parte integrante,  e influisce nella definizione del voto di comportamento, per le ricadute che determina sul piano delle condotte civico-sociali espresse all’interno della scuola, così come durante esperienze formative al di fuori dell’ambiente scolastico.

L’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione  quindi, da un lato è affidato al singolo insegnante di una delle aree disciplinari in questione, e dall’altro è oggetto di interventi trasversali di tutti gli insegnanti e componenti la comunità educante.

Le competenze sociali e civiche, tipiche di “Cittadinanza e Costituzione”, sono comprese tra quelle di base che tutti gli studenti, di ogni percorso di istruzione, devono raggiungere al termine della scuola dell’obbligo, a sedici anni. Tutte le studentesse e gli studenti, devono possedere alcune competenze chiave  di cittadinanza, che sono un adattamento al nostro modo di fare scuola delle competenze “chiave“ europee. Tra queste uno spazio significativo è riservato ai principi, agli strumenti, ai doveri della cittadinanza, e quindi ai “diritti costituzionalmente garantiti”.

Le stesse Indicazioni nazionali del 2012 riservano una particolare attenzione a “Cittadinanza e Costituzione“, richiamando la necessità di introdurre la conoscenza della Carta Costituzionale, in particolare le parti riguardanti i principi fondamentali e l’organizzazione dello Stato. Questi aspetti di conoscenza della Costituzione, delle forme di organizzazione politica e amministrativa, delle organizzazioni sociali ed economiche, dei diritti e dei doveri dei cittadini, come ribadito nelle Indicazioni, possono essere certamente affidati al docente di storia e comprese nel settore di curricolo che riguarda tale disciplina.

Tuttavia, le Indicazioni richiamano chiaramente l’aspetto trasversale dell’insegnamento, che riguarda i comportamenti quotidiani degli individui in ogni ambito della vita, nelle relazioni con gli altri e con l’ambiente, e pertanto  impegna tutti i docenti a perseguirlo nell’ambito delle proprie ordinarie attività. Risulta pertanto essere questo al momento il quadro ordinamentale e l’organizzazione dell’insegnamento di questa disciplina nelle nostre istituzioni scolastiche.

Il 7 dicembre 2018, all’ufficio stampa della Camera, alla presenza del Ministro dell’istruzione, dell’università e della Ricerca Marco Busseti e di altre personalità, l’on. Massimiliano Capitanio ha presentato il nuovo disegno di legge sull’insegnamento dell’Educazione Civica quale materia obbligatoria in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Il disegno di legge, che viene presentato dal suo primo firmatario come rivoluzionario, inizierà il suo iter in commissione cultura a gennaio, con l’obiettivo di portare per l’anno scolastico 2019/2020, nelle aule di scuola, importanti innovazioni a questa disciplina.

Si ritorna quindi alla vecchia nomenclatura Educazione Civica e si abbandona quella di Cittadinanza e Costituzione. Fin dalla scuola dell’infanzia si avvieranno progetti, ma sarà dal primo anno dalla scuola primaria e fino all’ultimo della secondaria di secondo grado che per la prima volta sono previste 33 ore annuali (1 a settimana), esclusivamente da utilizzare allo studio di questa disciplina. Dal terzo anno della primaria il disegno di legge prevede una valutazione delle conoscenze, e alla fine del triennio delle secondaria di primo grado e del biennio delle superiori è prevista una certificazione delle competenze.

A 60 anni esatti dall’importante scelta dell’on. Aldo Moro, l’Educazione civica potrebbe finalmente assumere il rango di disciplina curricolare a tutti  gli effetti, con un proprio monte ore, un docente disciplinare e un percorso didattico scandito da valutazioni periodiche e finali, come per le altre discipline.

L’esigenza era già stata da tempo avanzata da molti addetti ai lavori; difatti l’esponenziale aumento di episodi di bullismo e di violenze anche a danno dei docenti, di cui negli ultimi anni veniamo a conoscenza sempre più frequentemente, hanno reso necessaria una profonda riflessione per comprendere tutti i possibili interventi che la scuola può mettere in campo per arginare questi fenomeni.

Un contributo al riguardo potrebbe venire dall’Educazione civica a patto che si dia il via a percorsi ben strutturati di educazione alla legalità, di educazione alla cittadinanza, anche con riguardo alla diffusione della cultura delle pari opportunità, educazione alla parità tra i sessi, prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Solo con l’educazione al rispetto dell’ambiente, alle differenze tra le culture, nonché ai principi di solidarietà e di cura dei beni comuni possiamo cercare di arginare i preoccupanti fenomeni di bullismo, cyberbullismo e discriminazione.

Che al Miur si fossero resi conto della necessità di una maggiore attenzione e sensibilizzazione dei giovani a queste tematiche ce ne eravamo accorti all’indomani dell’emanazione del D.Lgs. 62/2017, durante il dicastero  dell’allora Ministro Valeria Fedeli.

Il Decreto legislativo in questione prevede infatti, per i colloqui  agli esami conclusivi del primo e del secondo ciclo d’istruzione, che la commissione tenga conto anche dei livelli di padronanza delle competenze connesse all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione.

Questa previsione  se da un lato ha spaventato gli studenti, in gran parte a digiuno di questa disciplina,  dall’altro ha fatto ben sperare gli addetti ai lavori circa la possibilità che a Viale Trastevere una nuova proposta per lo studio della Costituzione nelle scuole fosse pronta.

Del resto per il raggiungimento di questo obiettivo era già scesa in campo l’Anci presentando nel giugno scorso una proposta di legge d’iniziativa popolare sull’introduzione dell’Educazione alla cittadinanza nei curricula scolastici di ogni ordine e grado. Questa proposta, accolta con grande favore dal mondo della scuola e della cultura in generale, ha raccolto moltissime sottoscrizioni, tra cui anche quella della senatrice a vita Liliana Segrè che aveva intenzione di occuparsi personalmente della questione cercando un consenso trasversale in Parlamento.

E’ pertanto ipotizzabile che gli interventi normativi sull’Educazione civica non troveranno particolari ostacoli in Parlamento e che in tempi piuttosto celeri la riforma possa avere compimento.

Tuttavia non mancano i dubbi circa le modalità di attuazione della stessa. In particolare nella conferenza stampa dello scorso 7 dicembre  non è stato chiarito come verrà collocata la materia in seno ai curricula dei diversi cicli di istruzione, e se si opterà all’aggiunta di un’ora agli attuali quadri orari, o alla decurtazione di un’ora dal monte orario di altra disciplina per far posto all’Educazione civica.

La differenza non è di poco conto. Come non lo è la scelta dell’insegnante che si occuperà di impartire la disciplina. Se nella scuola dell’infanzia e primaria la scelta è ovvio che ricada sull’insegnante che si occupa di tutte le discipline, non altrettanto ovvia è la scelta che verrà fatta per la scuola secondaria. In particolare nella scuola di secondo grado saranno gli insegnanti dell’area storico/filosofica o di quella giuridica/economica a occuparsene?

Questi vari dettagli normativi possono fare la differenza tra una riforma sostanziale e una solo formale nell’insegnamento dell’Educazione civica. Di cambiamenti solo nominali ne abbiamo visti molti in questi 60 anni, e  l’auspicio per “la scuola che verrà” è di vedere realizzato un insegnamento davvero obbligatorio, autonomo, rinnovato e non più lasciato alla buona volontà dei singoli.

Scuola ed occupazione: la scommessa della ricerca e dell’innovazione

La disoccupazione giovanile al 32,6%, concentrata per i due terzi al Sud; la migrazione della parte migliore degli studenti liceali meridionali verso le Università del centro e del Nord Italia; la fuga dei cervelli all’estero che sta assumendo le dimensioni di un vero e proprio esodo, impongono al mondo della scuola una seria riflessione sul rilancio della sua funzione sociale, in particolare nel Meridione.

Per questo motivo i dirigenti scolastici hanno, ora più che mai, un ruolo strategico all’interno e all’esterno delle istituzioni scolastiche per determinare un’inversione di tendenza.

L’abbandono di modus operandi burocratici basati su adempimenti fini a se stessi e l’adozione di modelli manageriali dinamici è condizione indispensabile per il pieno utilizzo delle opportunità offerte dall’autonomia per far crescere il territorio e l’occupazione e trattenere risorse umane preziose per la ripresa economica.

Nel 2018, il nostro Paese rimane ancora sostanzialmente spaccato in due: la quota di giovani 15-29enni che non studiano e non lavorano, conosciuti con l’acronimo inglese di NEET, rimane, nel Mezzogiorno, più che doppia  rispetto a quella dell’Italia settentrionale.

Esaminando i dati del report sull’occupazione a cura della Fondazione Agnelli, i tipici divari territoriali del mercato del lavoro giovanile italiano vengono confermati anche dalle statistiche sull’occupazione dei diplomati tecnici e professionali.

I tassi di occupazione giovanile variano enormemente: dal 60,9% del Veneto al 22% di Campania e Calabria, regioni in cui solo un diplomato su cinque riesce a lavorare per almeno 6 mesi entro i due anni dal diploma.

Particolarmente interessanti appaiono i dati relativi alla scelta dei percorsi educativi di scuola secondaria di secondo grado: nelle regioni del Centro, del Sud e delle Isole, si preferiscono i licei. Nel Sud il liceo continua ad essere considerato come la scuola che forma la futura classe dirigente.

Nel Nord invece, almeno uno studente su tre sceglie un percorso ad indirizzo tecnico. Nel Veneto l’istituto tecnico viene preferito con una percentuale di iscritti superiore rispetto alle altre regioni (38,2%).

Sono circa trentamila i diplomati meridionali, in prevalenza liceali, che scelgono poi di immatricolarsi nelle Università del centro e del Nord Italia, considerate più prestigiose, con notevoli spese a carico delle famiglie, già gravate dal pagamento di tasse universitarie, tra le più care a livello europeo.

Nonostante ciò, i dati complessivi sul numero di laureati nel nostro paese sono tutt’altro che lusinghieri; l’Italia ha una percentuale di laureati tra le più basse in Europa. Si pensi che il 26,5% di laureati dell’Italia rappresenta quasi la metà del corrispondente dato della Svezia (51,1% nel 2017) e della Norvegia, mentre la Francia ha una percentuale di laureati di oltre il 44% e la Germania del 34%.

Come se ciò non bastasse, dopo la laurea, buona parte di questo 26,5% decide di emigrare all’estero. Un recente rapporto pubblicato dall’Istat, il cosiddetto “Bes” descrive la ben nota “fuga di cervelli” quasi come un esodo.

Nel 2016 sono stati circa 10mila i laureati con un potenziale innovativo particolarmente elevato, ad aver abbandonato l’Italia, il doppio di quanto registrato nel 2012, a fronte di quasi 69 miliardi di euro spesi per l’istruzione dei giovani. Un dato sconfortante che, a causa della mobilità interregionale, riguarda tutte le regioni italiane, da Nord a Sud.

Questi dati drammatici chiamano ad un’assunzione di responsabilità l’intera classe dirigente, compresi tutti gli stakeholder nazionali e meridionali per un urgente rilancio di politiche attive di sostegno all’occupazione e investimenti in ricerca e innovazione. Ma vediamo cosa può fare la scuola nella situazione data.

Innanzitutto è necessario implementare una cultura della valutazione autentica con processi condivisi di autovalutazione e miglioramento che coinvolgano sia le componenti interne all’istituzione scolastica, sia l’insieme dei soggetti che operano all’esterno, in un processo circolare che partendo dal RAV, PDM e PTOF culmini nella redazione di un Bilancio sociale improntato alla  trasparenza e all’accountability.

Stando ai recenti risultati degli esami di maturità, gli studenti del Sud sarebbero molto più bravi degli studenti del Nord. Peccato che da molti anni a questa parte i risultati delle prove standardizzate nazionali distribuite dall’Invalsi e confermate dall’OCSE e dall’ IEA indichino esattamente il contrario, cioè l’esistenza di un forte divario di competenze linguistiche e matematiche, ma a favore degli studenti delle scuole del Nord, e del Nord-Est in particolare.

Questi giudizi discordanti su base geografica dimostrano come i criteri di valutazione e gli standard di insegnamento vadano rivisti ed adeguati da parte dei docenti delle scuole meridionali, rivelando  con chiarezza le fragilità e le debolezze delle realtà territoriali del Meridione.

E’ solo attraverso una grande operazione di verità che si potranno migliorare le condizioni di accesso e acquisizione delle competenze attese per conseguire una maggiore equità sociale.

La nuova generazione di dirigenti deve concepire piani dell’Offerta formativa che includano i saperi tecnici e  competenze per la vita richiesti da un mercato del lavoro in continua evoluzione.

E’ quindi indispensabile promuovere la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione nelle scuole. Percorsi educativi per sostenere le competenze digitali, l’imprenditorialità e lo spirito d’iniziativa devono servire a creare nuovi profili professionali utili al territorio di pertinenza e a rafforzare il tessuto produttivo delle realtà territoriali con maggiori criticità.

Il Meridione deve rispolverare la memoria storica di primati imprenditoriali che pure ha avuto nel passato e ricordarsi di essere parte di una potenza industriale ai primi posti nel mondo, grazie al  brand del Made in Italy,  apprezzato in moltissimi paesi come modello di qualità in più di trecento settori diversi, dalla moda alla meccatronica, dall’agroalimentare alle biotecnologie, etc.

La strada per l’innovazione passa per una solida alleanza educativa con le famiglie, sostenuta da un corpo docente motivato al lifelong learning e all’avvio di processi di innovazione della didattica declinati sulle competenze.

Per favorire la transizione scuola-lavoro, ai sensi dei DD.PP.RR. 87-88-89 del 2010, riguardanti rispettivamente gli istituti professionali, i Tecnici e i Licei, le scuole possono innovare la propria struttura organizzativa attraverso la costituzione del Comitato Tecnico Scientifico negli istituti tecnici e professionali e del Comitato Scientifico nei licei.

Composto da docenti interni ed esponenti del mondo del lavoro, delle professioni e della ricerca scientifica e tecnologica ha funzioni consultive e di proposta per l’organizzazione delle aree di indirizzo e l’utilizzazione degli spazi di flessibilità ed autonomia.

Il CTS rappresenta uno strumento importante per formulare un’offerta formativa congrua con le competenze che il mondo produttivo e imprenditoriale richiede, soprattutto nelle attività di alternanza scuola-lavoro, orientamento, politiche di inclusione, individuazione di fondi che l’istituzione scolastica potrebbe intercettare a sostegno dell’offerta formativa.

Un’altra importante opportunità per il sostegno all’occupazione, introdotta dalla L. 107/2015, ai sensi dell’art. 1 comma 60, è la costituzione di Laboratori Territoriali per l’occupazione, per i quali, rispettando determinati parametri legati al livello di innovazione, si possono ottenere fino a 750.000 euro di finanziamenti.

I Laboratori possono essere attivati da una scuola secondaria di secondo grado, capofila di una rete comprendente altre scuole, enti pubblici, enti locali, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, università ed enti di ricerca anche stranieri, associazioni, fondazioni, enti di formazione professionale, Istituti Tecnici Superiori e imprese private.

Concepiti come spazi aperti all’avanguardia educativa e all’innovazione, usufruibili anche al di fuori dell’orario scolastico, devono costituire il punto di riferimento per la formazione e riqualificazione professionale, l’acquisizione di competenze tecniche e di autoimprenditorialità territoriale.

In allineamento con il tema Industria 4.0, attraverso la realizzazione di prodotti/servizi legati al territorio, i LTO sono una sorta di start up territoriale che eroga servizi di formazione di nuovi profili professionali competitivi nei campi più disparati, dalla bioedilizia al turismo, all’agroalimentare, dalla robotica e domotica all’efficientamento energetico.

La loro realizzazione avviene quasi sempre grazie a scuole che sono anch’esse 4.0: tecnologicamente avanzate, con curricoli flessibili e aggiornati, dove si pratica la didattica laboratoriale e il learning by doing,  per trasferire competenze ed abilità in ambito lavorativo, nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, negli stage, tirocini formativi e apprendistato per formare i professionisti del futuro.

Concludendo, la transizione scuola-lavoro sembra trovare meno ostacoli laddove istituzioni scolastiche e tessuto produttivo operano sul territorio sulla base di una solida collaborazione.

Nella consapevolezza che sono attualmente ottocentomila profili tecnici che le aziende cercano e non riescono a trovare nel nostro paese per poter competere sui mercati internazionali, dirigenti e collegi docenti devono assumersi la responsabilità del loro ruolo sociale e facilitare l’accesso della ricerca e dell’innovazione nelle scuole per creare il futuro delle giovani generazioni.

Come affermano James G. March e Johan P. Olsen nel saggio “Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica” lo sviluppo di un Paese dipende soprattutto dalla capacità delle istituzioni di creare meccanismi positivi, in grado di produrre nuovi valori e “mentalità”, leve strategiche del cambiamento.

La scuola nell’era del digitale

Nel 2017 il mondo della scuola, del lavoro, le istituzioni pubbliche sono davvero progettate  per permettere alle nuove generazioni di esprimersi al meglio?”

Il  sistema scolastico italiano soffre di gravi ritardi. I voti in pagella di diversi alunni ed i giudizi di alcuni professori lasciano passare un’immagine alquanto desolante del rendimento scolastico di diversi studenti italiani. Nella larga maggioranza dei casi questi studenti sono molto abili nei videogiochi, a cui magari  spetta coordinare le mansioni di un numero cospicuo di persone di ogni età ed estrazione sociale online comunicando in tempo reale in italiano ed inglese, dimostrando di aver sviluppato una serie di capacità e competenze ambitissime in ambito aziendale. I ragazzi, quindi, la mattina in classe mostrano fatiche enormi ad esternare le proprie capacità e competenze, mentre poi a casa riescono a gestire online un sistema complesso come veri e propri leader.

Purtroppo i dati che emergono dalle statistiche ci restituiscono una situazione allarmante; secondo numerosi studi circa 2/3 dei nostri studenti, ma percentuali similari si riscontrano anche nel mondo del lavoro, sono poco o scarsamente coinvolti in classe. Questo non è un dato da sottovalutare, soprattutto perché è in aumento generazione dopo generazione.

I nati dopo il 2000, i cosiddetti nativi digitali, hanno accesso in tempo reale a tutte le informazioni che desiderano, acquisendo competenze attraverso un apprendimento corsaro caratterizzato da mezzi digitali, sottoposti ad uno stimolo continuo.

Noi adulti, sia in qualità di genitori-educatori nonché docenti, abbiamo il dovere di comprendere i cambiamenti generazionali che stanno caratterizzando i nostri giovani e anche la nostra quotidianità; è per questo motivo che bisogna riprogettare l’offerta formativa.

L’apprendimento deve avvenire in spazi adeguati  affinché gli studenti possano cooperare, muoversi, esplorare autonomamente.

Il PNSD è un documento istituzionale il cui scopo è quello di canalizzare delle risorse a favore dell’innovazione digitale, a partire dalle risorse dei Fondi Strutturali Europei (PON Istruzione 2014-2020) e dai fondi della legge 107/2015.

Il piano vuole contribuire alla costruzione di una nuova didattica grazie  all’educazione digitale. La scuola ha il precipuo compito di supportare l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (life-long), attraverso contesti formali, informali e non formali (life-wide).

Il dirigente scolastico promuove, organizza ambienti innovativi, capaci di configurarsi come open spaces di apprendimento. Le scuole non dovrebbero più guardare a loro stesse, ma pensare che il mondo di google, delle app, di youtube e quant’altro devono diventare elementi importanti e mezzi di continui stimoli nel campo del sapere, attraverso la capacità di attirare e incuriosire la generazione moderna.

La Finlandia, dove le flipped classroom, l’inizio della scuola obbligatoria a 7 anni e una costante inclusione del gioco sin dall’asilo come momento di crescita dell’individuo concorrono alla costruzione di una idea diversa di scuola con la conseguente riduzione (notevole) degli abbandoni scolastici.

Il gioco non deve scomparire totalmente dall’esperienza scolastica. Negli ultimi anni qualcosa sta fortunatamente cambiando ed è collegata, in parte, allo straordinario movimento di animatori digitali, insegnanti ed operatori che stanno introducendo il mondo dello scratch ed altre modalità di interazione e partecipazione attiva.

Una scuola che “promuove“

Partiamo dall’ingresso. Sull’architrave del portone dovrebbe esserci la scritta “Nessuno è somaro”. Per chiarire subito, meglio di ogni altro discorso complesso o titolo arzigogolato, che chi varca quella soglia sa di trovare ascolto, opportunità, rispetto e accoglienza. Io rifiuto il termine ‘scuola inclusiva’, perché la necessità di dichiararsi in questo modo significa riconoscere che in realtà esiste una scuola esclusiva, o meglio escludente. Ed è proprio così: la scuola, non solo nell’idea degli insegnanti, ma anche nell’immaginario e nelle aspettative delle famiglie, è un posto dove si classifica, si dividono i bravi dai meno bravi ed eventualmente si separano quelli che non ce la fanno da quelli che riescono.

Io invece immagino una scuola che ‘promuove’ e questo termine oggi sembra in controtendenza perché il bravo insegnante è quello che boccia, e la buona scuola è quella dove ci sono pochi extracomunitari. Andando avanti di questo passo avremo scuole sempre più differenziate ed esclusive e le scuole inclusive saranno in realtà il ricettacolo di coloro che hanno dei problemi e sinonimo di scuole scadenti. Le scuole per somari. La scuola deve promuovere le competenze e le capacità di ciascuno; per farlo deve prima farle emergere.

Deve scoprire cosa sa il bambino ma anche cosa sanno gli studenti delle medie, delle superiori e anche dell’università. Uno degli ostacoli principali ad assumere questa prospettiva deriva dal fatto che la scuola crede che i suoi studenti imparino esclusivamente dai docenti. Non c’è l’idea che l’apprendimento sia un processo attivo che nasce dalle idee di chi apprende e non da quelle di chi sa; quindi la lezione frontale diventa indispensabile e le informazioni ‘buone’ devono arrivare dagli insegnanti.

In realtà il processo di crescita delle conoscenze necessita di entrambi: chi sa e chi crede di sapere. Il bambino, ma anche l’adolescente, hanno le loro idee sul mondo, idee ingenue, spesso non corrette, ma idee che fanno parte in quel momento della sua enciclopedia personale. In genere l’insegnante non è interessato a conoscerle perché comunque lui è il depositario delle idee ‘buone’, della conoscenza esatta. Il suo compito è quello di travasarla nell’alunno che, siccome non sa, è considerato alla stregua di un contenitore vuoto.

Marco non fa i compiti. Luca gioca col cellulare. Mario rompe le penne. Antonio scrive “vado a casa”. Siamo di fronte a vecchi Pinocchi o nuovi somari? Cosa succede nella testa di molti adolescenti di oggi? Perché è così difficile coinvolgerli nelle attività didattiche? Per rispondere a queste domande bisogna indagare sulle emergenze sociali e culturali del nostro mondo, legate alla rivoluzione digitale, alla crisi della famiglia, alla frantumazione informativa, alla decadenza di principi morali un tempo ritenuti invalicabili. Dunque scegliamo il punto di vista del ripetente, cioè di colui che fallisce, ciò può aiutarci a capire cosa non ha funzionato e perché!

Il compito della Scuola non è quello di riempire di contenuti la testa degli allievi quanto quello di fare amare il sapere, di aprire mondi. Di far sentire che la verità non ha una sola lettura e che la bellezza si può cogliere in modi diversi. Quali sono gli insegnanti capaci di contagiare i propri allievi con il loro amore per il sapere? Insegnanti che amano il sapere e che come Socrate sanno di non sapere, sono consapevoli delle proprie mancanze.

Quel “vuoto di sapere” che spinge alla ricerca, apre al pensiero critico. Insegnanti che provocano domande, che generano curiosità, desiderio. Perché senza il desiderio di sapere non c’è possibilità di apprendimento. La scuola di oggi si ispira ad un modello aziendale dove ciò che importa è la produzione, il profitto e non le persone che la frequentano. In questo tipo di scuola però c’è posto solo per chi va veloce, non per chi ha difficoltà di qualsiasi tipo; chi va piano o in modo irregolare rischia di restare fuori.

Oggi esiste anche una scuola che si ispira ad un parco giochi in cui il maestro si deve continuamente ingegnare a tener alta l’attenzione degli allievi. Anche questo modello forse non è adeguato. Ci vuole, quindi, una scuola che premi l’irregolarità, l’inclinazione, la stortura, che tenga conto che ciascuno ha la propria misura di felicità e i propri desideri; è proprio questo atteggiamento che rende il rapporto con il sapere unico e irripetibile. Ricercare l’uniformità non è quindi un buon modo di fare scuola.

Occorre esigere che i ragazzi siano responsabili del loro talento ma non pretendere che debbano per forza recuperare e raggiungere il livello anche nelle materie in cui sono meno prestanti. Questo perché altrimenti anziché favorire l’amore per il libro si rischia di renderlo una cosa nauseabonda. In un modello di scuola così attento all’individualità degli studenti, a mio avviso, ci sarebbe meno bisogno di psicologi nella scuola e non sarebbe necessario fare ricorso a procedure testistiche di valutazione e di diagnosi.

E allora quale modello di scuola?

Citavamo all’inizio una scuola che promuove meglio del concetto odierno di scuola inclusiva. Un modello di riferimento di scuola che promuove potrebbe essere ravvisato nel modello della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani.

I Care” è il messaggio che campeggia su una parete della povera scuola di Barbiana. Come dice lo stesso Don Milani, è il motto della migliore gioventù americana, significa “Mi sta a cuore” ed è l’esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”. Ecco, è forse questo il bisogno più grande. Il bisogno di costruire una scuola in grado di “avere a cuore” tutti gli alunni, a prescindere dalle loro capacità, e di portarli tutti, nessuno escluso, verso il successo formativo.

LA SCUOLA CHE VORREI?    “I Care”… NESSUNO È SOMARO!

Sicurezza e continuità nella scuola di domani

Parlare di sicurezza nelle scuole sembra un argomento quasi fuori luogo, soprattutto se si pensa alle numerose morti bianche che purtroppo avvengono quotidianamente nel lavoro dei cantieri e delle fabbriche; eppure le strutture che ospitano le istituzioni scolastiche sono sempre più obsolete e gli enti locali che le gestiscono fanno fatica a sostenere i lavori di ristrutturazione.

Penso alle scuole di Trieste per la maggior parte ubicate in splendidi palazzi d’epoca, ma con spazi che sarebbero non solo da ristrutturare, ma soprattutto da ripensare e adeguare ad una didattica in cui l’ambiente di apprendimento, inteso come spazio, giochi un ruolo rilevante nell’insegnamento e nell’apprendimento dello studente.

La  principale fonte normativa riguardo alla sicurezza (D.Lgs. 81/2008) presenta un’attenzione particolare alla prevenzione, stabilendo un sistema sanzionatorio soprattutto nei confronti del dirigente scolastico, individuato come datore di lavoro e quindi con responsabilità penali rispetto alla gestione e prevenzione nel sistema.

Le situazioni in cui gli edifici risultano carenti sono molto diffuse, in quel caso il dirigente provvede alla redazione di un verbale in seguito ad un sopralluogo e richiede all’ente locale di provvedere agli interventi; in casi estremi si rivolge alla Prefettura o all’Autorità giudiziaria. Questa procedura deve avere seguito ogni anno per garantire la sicurezza dell’edificio, ma sappiamo con certezza da recenti rapporti sulla sicurezza delle scuole, che la qualità dell’edilizia scolastica, delle strutture e dei servizi, è critica e per se stessa insostenibile per gli utenti e per chi ne ha la responsabilità.

La questione della sicurezza degli edifici è emblematica di una scuola “pericolante” anche dal punto di vista della mancanza di una linea di sviluppo coerente e costante delle riforme che in questi anni l’hanno interessata: uno sviluppo frenetico di leggi, decreti, circolari, a volte addirittura in contrasto tra loro, anche in rapporto alla gerarchia delle fonti.

Le istituzioni scolastiche sono subissate di oneri derivanti dall’autonomia, fanno fatica ad integrarsi con il ritmo e le richieste di un servizio sempre più personalizzato e integrato con il territorio, e contemporaneamente sono tenute a rispondere a quelle norme generali e a quegli standard che richiamano all’unitarietà del servizio sul territorio nazionale.

La norma dovrebbe sempre costituire una risorsa, dare certezza della presenza delle istituzioni e in ultima analisi fiducia e servizi al cittadino; così nella scuola bisognerebbe avere la pazienza di raccogliere i frutti delle riforme, monitorandole e migliorandole nel tempo, senza strumentalizzarle al consenso di questo o quel partito.

Emblematico è il caso delle polemiche suscitate dall’alternanza scuola lavoro, introdotta con il ministro Moratti e implementata con la legge 107/2015. Considerata quale una metodologia didattica preziosa e vitale nell’istruzione tecnica e professionale, si è rivelata un’esperienza vissuta con disagio dalle famiglie ed ostilità dai docenti in alcuni licei; in parte per l’impianto strutturale che li caratterizza e in parte perché abituati ad una autoreferenzialità che ha reso difficile il confronto con il territorio circostante.

Hanno mostrato il volto di una scuola che fatica a dialogare con il mondo del lavoro e più in generale a coniugare il sapere teorico dei programmi e delle discipline con “il fare” di una dimensione laboratoriale dell’apprendimento e la diffusione di una cultura del lavoro.

La nostra è  una società complessa e sempre più anestetizzata di fronte all’ignoranza, all’ingiustizia e al dolore, diffuso, distorto dai media e amplificato dai social; impotente di fronte alla natura e spesso generatrice di “disvalori” vecchi e nuovi.

Proprio per questo la scuola non può permettersi negli scenari di questo momento storico di ricalcare la società, accettando strutture fatiscenti e inglobando quella insicurezza che promana dalla vita politica e sociale del mondo in generale; dovrebbe rappresentare nella sua possibile “artificialità” il cambiamento, nelle strutture e nelle persone che vi lavorano, farsi laboratorio dell’innovazione, delle soluzioni e della possibilità di esistenza di un mondo equo e sostenibile; avere cura delle giovani menti, prospettare nuovi orizzonti di cittadinanza e guidare, senza scarti, il capitale umano nelle acque della speranza.

Alla scuola auguro un nuovo anno all’insegna di questa sicurezza, intesa come lo star bene non solo in edifici belli e sicuri ma nella certezza che tutti abbiano a cuore il suo valore e le potenzialità di cui essa dispone per la costruzione di una società migliore.

Alternanza scuola lavoro: a new concept is born…

L’Alternanza scuola-lavoro è una modalità didattica innovativa che, grazie all’esperienza pratica, facilita il consolidamento delle conoscenze acquisite a scuola e diventa un valido ausilio nel testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti, nell’arricchirne la formazione e nell’orientarne il percorso di studio con progetti in linea con i piani di studi.

La Legge 53 del 2003 istituzionalizza l’alternanza scuola lavoro come parte integrante del curricolo scolastico e non più pratica aggiuntiva. Il D. Lgs. 77/2005 introduce l’ASL in tutte le scuole per assicurare ai giovani competenze spendibili nel mercato del lavoro.

L’Alternanza scuola-lavoro (ASL), obbligatoria per tutte le studentesse e gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori è una delle innovazioni più significative della legge 107 del 2015 in linea con il principio della scuola aperta, attraverso la quale i giovani esprimeranno la propria customer satisfaction e la riscontrata coerenza tra PECUP e profilo professionale definito in ASL.

Le Raccomandazioni europee evidenziate nella relazione di CE “Ripensare l’istruzione, investire nelle abilità in vista di migliori risultati economici” del novembre 2012, gli obiettivi di Europa 2020, il programma europeo “Education and training 2020”, l’avvicinamento dell’Italia al sistema duale, mirano ad innalzare gli standard di qualità, a migliorare il livello di apprendimento e a rispondere al bisogno di competenze che si esplicano nel concetto di cittadinanza attiva. Sullo sviluppo personale, si evidenzia l’imprescindibilità delle competenze digitali, la capacità imprenditoriale dei giovani unici protagonisti del futuro del nostro paese e dell’Europa intera.

L’ASL come dimensione formativa centrata sull’allievo e sulle job vacancy sempre più differenziate per profilo professionale, come reale strumento di orientamento professionale non avulso dal contesto territoriale ma inserito nelle dinamiche locali, nei nuovi bisogni formativi e professionali, mette al centro dell’universo scuola i giovani, stakeholders principali ed unico motore del complesso mercato del lavoro.

Un cambiamento culturale di notevole importanza per la costruzione di una via italiana al sistema duale, che si ispira a buone prassi europee, incardinandole nel tessuto produttivo e nel contesto socio-culturale italiano.

Ma qualcosa è cambiato, infatti nella bozza della Legge di Bilancio, sono evidenti alcune modifiche al progetto di questa nuova modalità didattica dell’Alternanza scuola lavoro che, pur nella sua grande validità di principi e attuazioni,  ha, comunque, provocato nella scuola notevoli disagi organizzativi, ma c’e’ da dire che nonostante tutto in alcune regioni è stato un progetto formativo di eccezionale importanza per diffondere tra i giovani la cultura del lavoro e l’esperienza sul campo.

Ma in che cosa è cambiato? Il primo cambiamento riguarda la nomenclatura. Infatti le attività si chiameranno: “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, descrivendo nel concreto quello che gli studenti svolgono a scuola anche attraverso esperienze di aziende simulate.

In pratica percorsi di orientamento e di sviluppo delle competenze trasversali che si ispirano alla promozione  della settima competenza europea: il “senso d’iniziativa e di imprenditorialità”.

Ne viene, altresì, cambiata anche la durata in termini di ore in un progetto che deve essere necessariamente flessibile e adattato al contesto territoriale e alle esigenze dell’Istituzione scolastica. I percorsi restano comunque diversi a seconda del tipo di studio e per numero di ore utilizzate. Infatti viene fissato un tetto minimo a cui le scuole devono adeguarsi ma che possono incrementare a seconda delle esigenze e dell’offerta formativa, così ridistribuite:

  • negli istituti professionali non inferiore a 180 ore
  • negli istituti tecnici  non inferiore a 150 ore
  • nei licei non inferiore a 90 ore.

Queste modifiche, dopo poco tempo dalla nascita dell’ASL, non dovrebbero minimizzare l’importanza culturale e professionale che ha caratterizzato tale esperienza formativa sia per i docenti referenti e tutor interni e, soprattutto, per i giovani che ne sono stati i protagonisti. Il meeting con la “cultura d’impresa” è stato un input di ricchezza per la scuola, una grande possibilità di dialogo e di confronto per il welfare sociale.

Abbiamo avuto esempi di esperienze, legate all’ASL, molto ben organizzate e strutturate che hanno offerto ai ragazzi  opportunità di crescita e di maturazione umana e culturale. Gli studenti hanno avuto la reale opportunità di osservare il mondo del lavoro con un atteggiamento d’impegno e di responsabilità partecipativa.

Si auspica vivamente che la diminuzione delle ore, prevista dall’attuale Legge di Bilancio, non vanifichi la qualità di questa positiva esperienza del curricolo formativo dello studente, che, se inserita ad hoc nel percorso di studio, aiuta lo sviluppo di “competenze trasversali” ed offre una valida guida di “orientamento” nella scelta degli studi universitari, nella consapevolezza di sapere cosa “fare da grandi” e proiettarsi scientemente nella professione del domani.

La cittadinanza europea quale chiave per il futuro della scuola

La firma del Trattato di Maastricht nel 1992 ha segnato un significativo cambiamento di rotta nel percorso di crescita degli stati europei. Per la prima volta, infatti, è stata introdotta la questione della politica dell’istruzione, della formazione professionale e della gioventù in un ambito più ampio, che ha travalicato i confini dei singoli stati. La volontà dei legislatori europei è stata quella di porre in essere una vision comune delle istituzioni scolastiche, attraverso una lunga serie di azioni programmatiche proposte fino ad oggi.

La dimensione europea dell’educazione è entrata a pieno titolo nell’ordinamento scolastico italiano per effetto della ratifica del Trattato di Maastricht, diventando la condizione essenziale per un possibile sviluppo dell’educazione alla cittadinanza europea, mezzo fondamentale e imprescindibile per combattere l’esclusione sociale e culturale e per facilitare l’integrazione delle persone con bisogni speciali nella società.

Agire in un’ottica europea oggi significa saper formare dei cittadini consapevoli, attivi e responsabili, in grado di costruire collettività più ampie e connesse, così come richiesto dalla società liquida ed interconnessa, fluida e cangiante. Significa saper educare alla cultura dell’accoglienza, dell’integrazione e della convivenza, valorizzando le diversità individuali e le radici culturali di ogni studente. Significa saper offrire reali opportunità di prevenzione della dispersione scolastica e di orientamento nel mondo della formazione professionale ed universitaria. Significa anche saper educare alla legalità formando dei cittadini in grado di affrontare le avversità del mondo contemporaneo.

Fin dalla sua nascita, la politica comune nel campo dell’educazione ha avuto come fine precipuo il raggiungimento da parte degli studenti di quel sapere che, all’interno della società conoscitiva descritto da Delors e dalla Cresson, diviene la risorsa indispensabile per la produzione e lo sviluppo del sistema economico, permettendo l’incentivazione dell’occupabilità, e che deve essere sviluppato lungo tutto l’arco della vita attraverso le opportunità di formazione – formale, non formale, informale.

Un progetto educativo coerente con l’agenda europea deve necessariamente prendere avvio dalle competenze chiave del 2006 e del 2018, quadro ispiratore dei programmi disciplinari e delle programmazioni degli insegnanti e del PTOF. Le otto competenze chiave sono il punto di partenza di una reale preparazione degli studenti, volta ad incrementare la loro predisposizione allo spirito di adattamento, alla resilienza. Scuola ed economia, apprendimento ed azione, sono le facce di una stessa medaglia, quella della società stessa, oggi contrassegnata da una profonda complessità, in cui la liquidità dilagante fatta di conoscenze spesso frammentarie richiede basi profonde, strutturate, pervicaci.

L’occupabilità si intreccia con le competenze e con l’orientamento permanente, e ciò che ne deriva è la capacità del nostro Paese di raggiungere i benchmark europei 2020, sicuramente ambiziosi ma necessari, in particolare quello riguardante la dispersione scolastica che si attesta ancora al 13,8 % e che, nonostante una flessione al ribasso, è lo specchio di un paese non ancora unificato dal punto di vista delle pari opportunità. La dispersione scolastica, strutturale e multifattoriale, è un fenomeno complesso, che deve essere contrastato con interventi multipli, variegati, flessibili ma costanti, sempre calibrati in modo da dare a tutti la possibilità di conseguire un titolo di studio spendibile nel mondo del lavoro. La scuola deve agire creando coesione sociale e spirito di cittadinanza attiva, nello slogan “mai uno di meno”.

Un altro benchmark di rilievo, non solo educativo ma soprattutto sociale, è il traguardo della frequenza della scuola dell’infanzia da parte del 95 % dei bambini italiani, su tutto il territorio nazionale: i documenti europei sottolineano la reale interconnessione ed interdipendenza tra frequenza e diminuzione della dispersione scolastica, in quanto essa pone le basi dell’apprendimento permanente.

La scuola, prima e più importante comunità in cui si formano le persone attraverso il dialogo e lo scambio di idee, diviene il luogo dove il valore di ciascuna componente aumenta il suo significato grazie al confronto con gli altri. L’Unione europea, come ha ribadito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un recente discorso al Quirinale, è una comunità di valori e tali valori devono pervadere gli insegnamenti disciplinari affinché diventino prassi, buone pratiche su cui costruire un futuro migliore per i cittadini di domani, con lo sguardo rivolto all’obiettivo n. 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti.

Studente competente o studente istruito?

In una società altamente tecnologica e in continua evoluzione che richiede giovani sempre più competenti e responsabili, in qualità di docente di una scuola primaria del nostro Sud, osservo attonita ciò che la norma ci impone e a cui la realtà si “oppone”.

Faccio parte di quella schiera di docenti che lavorano a capo chino per il raggiungimento degli obiettivi, spesso senza tutti i sussidi e in istituti non bene attrezzati, al solo scopo di contribuire alla formazione della persona umana.

Diversi dibattiti evidenziano la difficoltà della scuola odierna, scuola delle competenze intese come “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto”, ove è tutto scientificamente tarato.

Ma uno studente competente è meglio formato di quello istruito? In realtà la competenza valorizza la disciplina.

In Italia infatti il sistema educativo è tradizionalmente caratterizzato da rigide suddivisioni fra le varie discipline che da sempre hanno “ingabbiato” le competenze. Quindi, sicuramente risulta efficace ed efficiente lavorare oggi per competenze in quanto sono stati definiti nuovi approcci e strategie per preparare il cittadino del domani alle sfide del cambiamento continuo e della complessità.

Si è dato significato a conoscenze e contenuti in un contesto di apprendimento per competenze per far acquisire ai discenti la capacità di appropriarsi di ciò che viene appreso, riutilizzandolo in modo critico in contesti e tempi diversi. Si aprono così le porte all’apprendimento permanente, inteso come percorso individuale di crescita continua in mano alla persona.

Le Indicazioni per il curricolo del 2012 fanno esplicito riferimento alle otto competenze chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea.

“Le competenze chiave sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personale, l’occupabilità, l’inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, una vita fruttuosa in società pacifiche, una gestione della vita attenta alla salute e la cittadinanza attiva. Esse si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente, dalla prima infanzia a tutta la vita adulta, mediante l’apprendimento formale, non formale e informale in tutti i contesti, compresi la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro e le altre comunità”.

Eppure la scuola che io vorrei e che è ampiamente delineata dalla normativa, non è impossibile da realizzare!

Ciò di cui parlo non è un edificio in marzapane con caramelle alle pareti e sul tetto o con maestre dalla pennetta rossa, ma una scuola ove porre in essere una didattica che ponga gli studenti di fronte a problemi reali per affrontarli da protagonisti, mettendo in campo tutte le proprie risorse cognitive, affettive, culturali, relazionali.  La scuola che aiuta gli studenti a fronteggiare la realtà è molto diversa da quella che si occupa solo della trasmissione del sapere.

Secondo me, la norma interviene in nostro aiuto con il Service Learning che include tutti gli aspetti significativi della scuola che vorrei: lo sviluppo delle competenze, la loro messa alla prova in una situazione di realtà, il collegamento scuola/vita.

Infatti, lo scorso 8 agosto il Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione ha trasmesso il documento “Una via Italiana per il Service Learning”, nato da una sperimentazione che ha coinvolto alcuni istituti scolastici i quali hanno immaginato un nuovo modello di fare scuola.

L’obiettivo è quello di recuperare la dimensione sociale dell’apprendimento, potenziando il principio di convivenza civile e democratica.

Si fa dell’apprendimento un servizio solidale, non in termini assistenziali, ma finalizzato alla cittadinanza attiva perché “apprendere serve, servire insegna”.

Si tratta di una metodologia didattica che pone al centro del processo di apprendimento il discente e che ha lo scopo di farsi carico dei bisogni dell’altro nel tentativo di risolverli.

Il Miur definisce il SL come un “punto d’intersezione tra teoria e pratica, tra ricerca e sperimentazione, tra apprendimento come sviluppo delle competenze individuali e condivisione e azione solidale, perché a crescere e a svilupparsi sia la comunità”.

La metodologia del Service Learning, nelle sue varie forme, è rivolta alla promozione della cittadinanza attiva, dell’inclusione sociale e delle capacità di problem posing e problem solving, nonché di realizzazione di progetti che abbiano una ricaduta sulla comunità, non solo scolastica, del territorio di appartenenza.

Mio malgrado mi accorgo che non tutti i docenti si preoccupano di approfondire, di aggiornarsi, di studiare, di verificare come attuare praticamente ciò che detta una fattispecie astratta.

Nella scuola che vorrei soprattutto i docenti dovrebbero avere competenze  specifiche e necessarie per intraprendere un percorso pedagogico, in questo caso di Service Learning, le cui azioni mirino ad attivare processi generativi tra apprendimento e azione nella comunità, tra scuola e territorio, tra problemi e progetti.

Le attività di formazione e di aggiornamento proposte dovrebbero avere un arricchimento professionale in relazione alle modifiche di ordinamento previste dal processo di riforma in atto, sviluppo dei contenuti dell’insegnamento, puntualizzazione dei metodi e organizzazione dell’insegnamento, integrazione delle nuove tecnologie informatiche e multimediali nella didattica e valutazione degli esiti formativi articolata e organizzata secondo le specificità disciplinari.

Come insegnante ritengo che l’innovazione che si deve introdurre debba tener conto anche dell’acquisizione di una solida cultura generale di base dei discenti aggiunta allo sviluppo delle competenze a tutto tondo. Quindi, una professionalità del docente flessibile e polivalente che deve sempre mirare al lavoro in équipe.

La proposta culturale di attuare determinate attività di formazione e aggiornamento cerca dunque di considerare le diverse esperienze ed esigenze didattiche a partire dal contesto fenomenologico particolare, valorizzando la creatività individuale che in gran parte è oggi una risorsa inevitabile data l’ampia eterogeneità dei saperi e i livelli di approfondimento delle discipline che richiedono momenti specialistici.

Lo studente va comunque coinvolto in processi di co-valutazione: un allievo apprende solo se è soggettivamente consapevole del senso e del valore personale del sapere che scopre e che costruisce.

Infine, ho tratto le mie conclusioni a dispetto dell’idea che uno studente “competente sia più attrezzato di quello istruito”. Per me vale il binomio ISTRUITO E COMPETENTE!

Che cos’è e perché la religione a scuola?

La religione: una via per uscire dalla crisi

Che cos’è la religione? L’Europa di questi ultimi decenni è una società post-secolare, post-cristiana ma non post-religiosa. La religione conserva un ruolo sociale in continua evoluzione, in una società che è anch’essa in continua evoluzione. Le religioni «negli ultimi decenni in conseguenza di processi come la fine dei regimi comunisti e i giganteschi movimenti migratori provocati dalla globalizzazione stanno conoscendo sommovimenti tettonici dalle conseguenze impreviste e imprevedibili» ma ancor di più se «diminuisce la pratica religiosa tradizionale e ancor più la fede nella dottrina ecclesiastica ufficiale… aumenta il carisma riconosciuto di alcuni leader religiosi, la religiosità della terra, lo spazio della spiritualità nell’arte. […]

In realtà, non solo Dio non è mai morto, ma neppure gli Dei sono mai morti. Lo mostra ogni giorno l’impero di Afrodite o del piacere, quello di Ares o della forza, quello di Zeus o del potere. Se infatti non esiste civiltà senza religione, ciò è perché gli esseri umani sperimentano una dipendenza da potenze più grandi, la quale, una volta espressa, genera la categoria del divino. E il divino, oggi come diecimila anni fa, entra inevitabilmente in gioco nella vita umana. […]  Il divino dice soprattutto l’innato bisogno di appartenenza che contraddistingue l’umano. «A chi appartengo io?»: questa è la più forte domanda esistenziale, ancora più urgente del desiderio di indipendenza, e la sua risposta si chiama religione. […] Per questo la religione oggi nell’epoca delle «passioni tristi» risponde al radicale bisogno di appartenenza assumendo un fascino particolare».

Dentro il perimetro di questo grande contesto, a noi interessa focalizzare prioritariamente l’ambito educativo nell’attuale sistema scolastico che è quello svolto dall’«Educazione alla cittadinanza», volta a diffondere la cultura della democrazia tra i giovani, a contribuire alla lotta contro la violenza, il razzismo, le ideologie, l’intolleranza e a promuovere una cultura ed una prassi dei diritti, della pace, della libertà e della giustizia sociale.

Il ruolo educativo che la scuola è chiamata a svolgere richiama la pedagogia a una riflessione che si ponga sul piano «di rispondere alla duplice esigenza del diritto all’educazione della generazione giovane e del compito della cura educativa della generazione adulta, l’una e l’altra accomunate dal riconoscimento della singolarità della persona»

L’istituzione scuola risponde ai bisogni formativi dell’uomo ed per questo deve abbandonare l’impostazione trasmissiva mono-disciplinare e sperimentare progettazioni didattiche che si presentino come strumenti atti a promuovere un sapere unitario che possa alimentare, nutrire, dissetare le varie dimensioni (cuore, mente, corpo, animo/a) dell’essere umano  nei vent’anni e più – gli anni più belli, d’oro – che vive a scuola. Un sapere che, nel processo costruttivo di insegnamento/apprendimento, recuperi in pieno i contenuti disciplinari e permetta allo studente di costruire da protagonista un percorso di apprendimento personalizzato e unitario.

L’insegnamento della religione cattolica (IRC), al pari delle altre discipline, è chiamato a riflettere sul proprio ruolo all’interno della scuola, a tracciare linee pedagogiche teorico-pratiche che gli consentano di essere promotore di un sapere che superi i limiti dell’odierna frammentarietà e del tecnicismo e di essere operatore di interdisciplinarietà. Interdisciplinarità intesa non solo come modalità di incontro tra i saperi disciplinari, ma come caratteristica, topos di un approccio alla realtà della persona che in modo unitario comprende sé e il mondo.

Nella mia personale formazione umana e culturale sono sempre stato affascinato dalla storia del mondo antico, dalle letterature comparate, dalla religione. Al di là dell’ormai esausta disputa sulle radici cristiane dell’Europa, è augurabile che si comprenda che la Bibbia costituisce uno dei punti di riferimento capitali per la nostra stessa civiltà. «Le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Questa affermazione tratta dal saggio Il grande codice di Northrop Frye sul rapporto tra Bibbia e letteratura registra un dato di fatto: la Bibbia è l’immenso lessico o repertorio iconografico, ideologico e letterario cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare.

In un corso di aggiornamento dal titolo «La Bibbia: alle radici della cultura europea», organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano, il primo dicembre 2012, il professore Piero Stefani, con acume, sottolinea come nel mondo dell’istruzione italiana la lettura (letteraria, storica, iconografica) della Bibbia non è praticata.

Sul fatto che nella scuola la cultura biblica non «godesse» di ottima salute se ne era accorto il grande Umberto Eco che dalle colonne dell’Espresso nel lontano settembre del 1989 scriveva «Perché i ragazzi devono sapere tutto degli dèi di Omero e pochissimo di Mosè?». In tutte le aree disciplinari la lettura della Bibbia è e sarebbe più che percorribile. Si pensi subito alla storia dell’arte, alla letteratura italiana e non solo ma anche alla letteratura dell’intera Europa (francese, inglese, tedesca, spagnola, ecc…).

La lettura della Bibbia è applicabile allo studio del pensiero filosofico, alla storia, al diritto, alla storia della scienza e dell’economia. In ognuno di questi campi la presenza di influssi biblici è documentabile a vastissimo raggio. La Bibbia perché non può essere presentata a tutti come un classico al pari dell’Iliade, dell’Odissea o dell’Eneide? Un po’ semplificando ma non troppo la Bibbia interroga l’uomo al pari di Sofocle, Euripide, Seneca.

Infine, da un punto di vista strettamente pratico-istituzionale la presenza della Bibbia – «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello» (Marc Chagall) – comporterebbe ad una qualificazione (da parte del MIUR attraverso concorsi) di un corpo docente che, attualmente, è quasi del tutto impreparato e più praticamente e «semplicemente» a programmare all’interno del P.O.F.T.  una collaborazione fra docenti di materie diverse (letteratura, arte, filosofia, storia, musica, religione) alla ricerca di itinerari di notevole interesse e suggestione.

Max Horkheimer ci ricorda che la «stupidità è una cicatrice». In altri termini crescere è un processo delicato che come il processo involontario del respirare può essere ostacolato o favorito. In-segnare a riconoscere i lineamenti di un patrimonio che ci accomuna significa offrire ossigeno alla mente e al cuore; concorre a rafforzare nei ragazzi energia e speranza, il gusto di approdare a vivere le vertigini di una profondità e ricchezza che ci danno solo le lettere, i numeri e i colori fin dalla loro comparsa negli esseri umani, una comparsa che è legata a quella che chiamiamo civiltà.

AAA… Dirigenza cercasi!!!

Il sistema scolastico italiano è composto da circa 8000 Istituzioni scolastiche autonome, di cui 3000 circa senza un Dirigente Scolastico titolare e circa 2400 scuole senza Direttori dei Servizi Generali Amministrativi titolari. Da decenni, inoltre, il complesso mondo delle scuole è privo di 600 Dirigenti Tecnici.

Abbiamo voluto quindi dedicare il quinto numero della nostra Rivista alla Dirigenza scolastica e alla Dirigenza Tecnica. Abbiamo ospitato, quindi, i commenti e le riflessioni di quanti sono stati in “trincea” nei fatidici  150 minuti del 18 ottobre scorso, durante i quali dei professionisti preparati, motivati, con anni di esperienza e di studio  non hanno avuto il tempo, il gusto ed il piacere di descrivere come prefiguravano una funzione dirigenziale strategica nella scuola dell’autonomia, nel terzo millennio, nella società complessa, tra innovazioni necessarie  per rispondere a nuove esigenze culturali e sociali e dimostrare di essere pronti ad assumere il timone di questa “Vela d’altura”. Le modalità con cui si è operato da parte del MIUR hanno fatto diventare il tanto atteso “concorso” una “scommessa”.

Le vicende concorsuali per la Dirigenza scolastica pensate e definite dal MIUR sono ancora più inverosimili e stridenti se confrontate ai concorsi paralleli e analoghi  nelle Province di Bolzano e Trento dove nella massima professionalità e con modalità innovative (pensate al portfolio per il bilancio delle competenze) stanno selezionando la loro dirigenza scolastica per un investimento sicuro per il futuro delle loro generazioni giovanili.

Un sistema autonomistico complesso come quello della scuola italiana necessita anche di una forte e qualificata Dirigenza Tecnica. Nel DPR 80 del 2013 si prefigurava già un corpo ispettivo che insieme ad Indire e Invalsi presidiasse i processi di miglioramento del sistema scolastico. I numerosi nuclei di valutazione esterna (NEV) coordinati dai Dirigenti Tecnici avrebbero dovuto visitare 2400 scuole entro l’anno scolastico 2017/2018, mentre ora sono solo 700 le scuole appena visitate, facendo presagire che solo nel 2034 tutte le scuole avranno il piacere di potersi confrontare con i nuclei di valutazione dell’Invalsi, vanificando in questo modo la bontà e i risultati sperati. Nessuna organizzazione seria può pensare di attivare un efficace processo di miglioramento con un ciclo di 20 anni.

Inoltre, il Decreto Legislativo 66 del 2017 prefigura, a partire dal primo gennaio del 2019, la costituzione dei GIT (Gruppi di Inclusione Territoriali) che dovrebbero essere presieduti da un Dirigente Tecnico. Ai GIT (circa 400 in tutta Italia) spetta la gestione degli organici degli insegnanti di sostegno e soprattutto l’attivazione di politiche d’inclusione territoriale di area vasta.

Quindi,  AAA… Dirigenza cercasi!!!  perché un organismo così complesso come il sistema scolastico autonomistico italiano non può essere acefalo!!!

In un periodo di grandi riforme a livello mondiale (Agenda 2030) ed europeo (Raccomandazione sulle competenze di cittadinanza del 22 maggio 2018) ed italiano (Legge 107 del 2015 per una scuola intesa come “laboratorio permanente di ricerca”) necessita una dirigenza scolastica e tecnica capace di elaborare strategie educative capaci di gestire la complessità.

Naturalmente è necessario ridefinire ruoli e funzioni di queste dirigenze.

La dirigenza scolastica per avallo della ricerca internazionale ha ripensato il suo ruolo e la proiezione attuale è verso una dirigenza per l’apprendimento e più attenta alla “vision” pedagogica come traspare anche dalle tracce assegnate al concorso, senza trascurare l’importanza dell’efficienza e dell’efficacia della managerialità.

Per la Dirigenza Tecnica è necessario avviare un’adeguata riflessione per scardinarne la funzione (ex ispettiva) incentrata sulle “patologie” e sulle disfunzioni del sistema e più indirizzata, invece, verso le innovazioni e l’implementazione delle riforme. La Raccomandazione europea del 22 maggio 2018, che possiamo ritenere una “guida didattica” per impostare una nuova ed efficace progettazione per competenze, non è stata inserita nell’ordine del giorno dei collegi docenti e non è stata neanche percepita come momento importante di riflessione da parte del MIUR e del corpo ispettivo.

A tal proposito un mio amico ispettore mi confidava “la maggior parte delle giornate le trascorriamo in tribunale”. Pertanto non serve una dirigenza tecnica per le “patologie”; questa funzione può essere delegata benissimo alla dirigenza amministrativa; serve, piuttosto, una Dirigenza Tecnica che si faccia carico della ricerca, dei processi di miglioramento per una scuola di qualità e per fungere da stimolo delle politiche di governance necessarie per un sistema scolastico “sostenibile”.

La marginalità, anche numerica del ruolo ispettivo, rende invece afasica ed asfittica una funzione che potrebbe, invece, dare un orizzonte culturale e di innovazione alla nostra scuola.

La nocchiera

Nel quinto numero della Rivista “Scuola 4 All” potranno essere letti interessanti contributi sulla dirigenza tecnica e alcuni commenti sull’esperienza del 18 ottobre. Essendo una docente che a luglio ha espletato la preselettiva per il reclutamento dei futuri dirigenti scolastici, voglio riportarvi anche le mie riflessioni.

Con molto sacrificio e intenso  studio ho superato la prova posizionandomi tra i primi, avendo ottenuto il massimo punteggio possibile. È stata una bella sfida. Non è stato semplice visto il tempo a disposizione e una famiglia da curare. Ma la voglia di dare il mio contributo alla scuola, motore di crescita e successo per l’intera Nazione, mi ha spinto a non cedere. I nostri figli saranno il nostro domani e saranno le nostre tracce in un tempo che non vedremo mai. Bisogna agire ora, la vita è qui ed ora.

Con grande impegno ho affrontato allo stesso modo la prova scritta che si è tenuta il 18 ottobre. Questa è stata una prova in cui il tempo è stato sovrano! Non mi sono mai chiesta quanto fosse il tempo ma cosa fosse. Ho sempre dato qualità al tempo che ho vissuto. Questo è il maggior insegnamento che ho ricevuto dalla vita. Una vita che mi ha visto trascorrere ogni minuto con la gioia di esserci ancora. Quindi non più minuti, ore, giorni ma vita!

Il 18 ottobre mi sono dovuta scontrare con il tempo, con la quantità del tempo! L’ossessione del tempo che manca è  ritornata prepotente. Tempo ridotto e quasi ridicolo per poter esprimere tutto ciò che avevo dentro. Ore ed ore di studio, competenze professionali acquisite, riflessioni personali e teorie organizzative, pedagogiche e psico/sociali a fondamento delle idee non hanno avuto il “tempo” di manifestarsi nella loro pienezza.

Ho svolto la prova. Credo di aver comunque espresso quanto potevo ma non ho avuto il sentore di averlo fatto come volevo! Spero sia comunque una buona prova, visto che ho risposto ai quesiti dando la mia chiave di lettura. Tuttavia, non posso esimermi dal dire ciò che ho provato e che provo ora! Il potere del tempo ha spazzato via il “volere” di esprimere tutto ciò che avrei voluto.

La sensazione è la stessa di quando si è costretti a scrivere di getto e a canalizzare tutto il proprio sapere in un tempo ridotto che ti costringe a buttare fuori contemporaneamente al ragionamento. Come assegnare un problema di matematica ad un allievo, che ha tutte le competenze per poterlo risolvere, e  dargli soltanto il tempo di riuscire a leggere e comprendere il testo. A questo si aggiunge il fatto che la prova, che da bando doveva esser nazionale, non lo è stata più.

Alla vigilia della prova scritta e precisamente alle 23 circa del 17 ottobre, curva su una scrivania in una stanza d’albergo, perché costretta ad espletare la prova a più di 100 km di distanza da casa, ho appreso della chiusura delle scuole di Cagliari per possibile alluvione. Qualche giorno prima la batosta della sentenza del TAR che ha accolto i ricorrenti che alla preselettiva avevano avuto problemi con i pc; pochissime ore prima la pugnalata della sentenza del CDS che ha accolto i ricorrenti che chiedevano di accedere alle prove scritte pur non avendo avuto un punteggio valido ai fini della graduatoria di accesso allo scritto.

Ora mi chiedo: perché ho sacrificato i miei figli, la cura della mia persona, per darmi anima e corpo in uno studio matto e disperato per raggiungere il massimo punteggio possibile per continuare il mio sogno? Perché? Possibile che adesso tutti i ricorsi che pioveranno sul Miur metteranno in serio pericolo la reale possibilità di continuare questo percorso andando a bloccare l’intero concorso? Possibile che non ci siano altre soluzioni? Perché continuare a” buttar via” soldi per tutelare i nostri interessi pur avendo fatto tutto ciò che dovevamo fare? Perché ? Perché non fermare queste assurdità e fare in modo che questo concorso possa andare avanti e che le nostre scuole non subiscano tutto questo caos.

Le scuole a settembre avranno bisogno di dirigenti competenti e non di reggenti! I nostri figli avranno bisogno di “porti sicuri” e ambienti di apprendimento reali. Confido nel fatto che presto avremo risposte concrete, che ci siano date certe per i colleghi in attesa, che la nostra  voce, la voce degli insegnanti che ancora ci credono, credono in un sogno, credono nel fatto che si possa ancora intervenire affinché il sogno continui, affinché i propri diritti vengano tutelati, venga ascoltata.

Ispettore scolastico

Identità e ruolo dell’ispettore

Rosario Drago, ispettore tecnico dell’Istruzione e consigliere Miur, afferma… “C’erano una volta gli ispettori”. Praticamente una “Lapide”, un ricordo. Nel 1990 erano circa 625, nel 2001 circa 440 e attualmente 191 in organico. Fino a tre anni fa quelli effettivamente in servizio presso le sedi regionali non superavano la quarantina.

Poi è giunto il Concorso del 2008 con il reclutamento  di 49 ispettori, ma il numero è calato di anno in anno. Rispetto agli altri stati europei è drasticamente diminuito la rilevanza del corpo ispettivo nella realtà e immagine della scuola. Il compito degli ispettori è di valutare il sistema nella sua complessità e dei soggetti che la compongono come dirigenza scolastica.

La stima del numero di ispettori che necessita il nostro sistema scuola andrebbe da 350 a 450 unità rispetto a quelli ad oggi realmente in servizio. Tutto ciò desta preoccupazione secondo l’ottica di attenzione mostrata per la culture organizzative  basate sull’efficacia e l’efficienza dell’azione della scuola e dell’Amministrazione scolastica e del perfezionamento del Sistema Nazionale di Valutazione.

L’ispettore, oltre a restituire, i risultati della valutazione, assume la figura di “consulente, consigliere e sostegno per le scuole”. Una funzione che ammorbidisce la visione di controllo e valutazione per esaltarne la posizione di coinvolgimento “critico”.

Anche Ettore Acerra, coordinatore nazionale degli Ispettori, facendo riferimento al DM 753/2014 ha inquadrato la situazione attuale della funzione ispettiva sottolineando l’importanza del coordinamento con altre strutture, tecniche – centrali e periferiche, ai fini della formazione e di un’attività non dispersiva, ma efficace nel consigliare gli obiettivi più rilevanti.

Gli ispettori hanno la funzione di supportare il miglioramento delle scuole attraverso le funzioni che prevalentemente svolgono:

  • valutazione esterna delle scuole,
  • valutazione dirigenti scolastici,
  • consulenza tecnica per il Ministero.

La Ministra dell’Istruzione uscente Valeria Fedeli  ha sottolineato l’importanza per il MIUR di farsi supportare da un Rapporto annuale riguardo  alla valutazione delle scuole, inoltre  ha ritenuto molto significativo l’emanazione di un nuovo Atto di indirizzo nella prospettiva di rinnovare la funzione ispettiva, volta non solo a valutare, ma anche ad accompagnare, sul piano culturale  e tecnico-scientifico i processi di cambiamento presenti nella società odierna e la necessità di formazione.

La funzione ispettiva e il suo ruolo nella realizzazione delle finalità di istruzione e di formazione affidate alle istituzioni scolastiche ed educative

A distanza di otto anni dall’Atto di indirizzo per la funzione ispettiva D.M. n. 60 del 23 luglio 2010, il Ministro della Pubblica Istruzione ha emanato il nuovo Atto di Indirizzo per l’esercizio della funzione ispettiva tecnica con il D.M. n. 1047 in data 28 dicembre 2017.

Con questo nuovo D.M., la funzione ispettiva tecnica amplia le proprie modalità di esercizio e contribuisce alle attività di formazione nell’ambito del SNV, assicura il coordinamento dei nuclei di valutazione per scuole e dirigenti scolastici, offre supporto tecnico, assistenza, consulenza e formazione alle scuole nel processo di attuazione dell’autonomia scolastica, e sui temi dello sviluppo dei curricoli, della progettazione didattica, delle metodologie, della valutazione, nella realizzazione e nel monitoraggio delle esperienze di alternanza scuola-lavoro, la consulenza, il supporto e l’intervento relativi alle richieste provenienti dal territorio, dalle famiglie e dalle associazioni di genitori in ordine, in particolare, alle problematiche degli alunni al fine di perseguire uguaglianza ed equità di opportunità.

Opportunamente collocati all’interno del quadro normativo in modo da garantirne la legittimità e la rispondenza alle finalità del sistema nazionale di istruzione, collabora per la formazione in servizio del personale della scuola e l’efficace attuazione nelle scuole delle misure previste nel PNSD e nel PON “Per la Scuola”, per la predisposizione delle prove d’esame conclusive del secondo ciclo di istruzione, l’assistenza alle scuole e la vigilanza in occasione degli esami di Stato, il monitoraggio, il controllo e la verifica dei requisiti delle scuole paritarie.

Secondo la nota di trasmissione MIUR dell’11 aprile 2018, il nuovo atto di indirizzo intensifica il ruolo della funzione dirigenziale tecnica nei processi di attuazione del Sistema nazionale di valutazione e avvalora il ruolo centrale della funzione ispettiva tecnica nell’azione di supporto all’attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.

La funzione ispettiva tecnica è esercitata dai Dirigenti Tecnici su tutto il territorio nazionale e nelle scuole ed istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado statali e paritarie, italiane nel territorio nazionale e all’estero “ai sensi del Decreto Interministeriale n. 4716 del 23 luglio 2009, nelle Scuole Europee, ai sensi della legge 6 marzo 1996, n. 151 nonché, ove richiesto ed in presenza di specifiche intese e convenzioni, protocolli, negli organismi europei, internazionali e sovranazionali.

Le linee-guida per l’ispettore emanate con la Direttiva sull’attività d’ispezione 2 luglio 2002 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, corroborate dalla Legge “Milleproroghe” del 26 febbraio 2011 n. 10, art. 2, garantiscono l’autonomia di giudizio e l’imparzialità.

In coerenza con il decreto ministeriale 26 settembre 2014, n. 753, “Individuazione degli uffici di livello dirigenziale non generale dell’Amministrazione centrale del MIUR”  art. 3, comma 2, i dirigenti con funzione ispettiva tecnica collaborano con il Ministro per la formulazione delle prove concernenti gli esami di Stato e svolgono i loro compiti offrendo sostegno alla progettazione e al supporto dei processi formativi; supporto al processo di valutazione e autovalutazione; supporto tecnico-didattico-pedagogico; svolgono funzione ispettiva anche con riferimento ai fenomeni del bullismo, delle devianze giovanili, dell’assiduità della frequenza e della continuità delle prestazioni da parte dei docenti e dei dirigenti scolastici, supporto tecnico-scientifico per le tematiche ed i processi definiti dall’Amministrazione. Con atto di indirizzo del Ministro sono determinate le modalità di esercizio della funzione ispettiva tecnica.

Il ruolo del Dirigente Tecnico nel Nucleo Esterno di Valutazione

Dirigente Tecnico

La valutazione esterna delle scuole, si inserisce nell’ampio contesto normativo relativo all’emanazione del D.P.R. 80/2013 – “Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione in materia d’istruzione e formazione”. Il procedimento di valutazione dell’Istituzione Scolastica si esprime attraverso quattro fasi:

  • il Rapporto di autovalutazione (RAV), dove vengono espressi i punti di forza e di debolezza,
  • la valutazione esterna condotta dal Nucleo Esterno di Valutazione,
  • la realizzazione delle azioni di miglioramento (PDM) e
  • la Rendicontazione sociale come diffusione dei risultati raggiunti.

Il Nucleo Esterno di Valutazione è composto da tre membri: un Dirigente Tecnico del Miur e due esperti, reclutati dall’Invalsi, che provengono dal mondo interno ed esterno alla scuola. La diversità di questi tre profili ha l’obiettivo di assicurare differenti punti di vista, durante il processo valutativo, permettendone un proficuo confronto. Il Dirigente Tecnico, in virtù del suo profilo istituzionale garantisce la legittimità del percorso valutativo, coordina il Nucleo, mantiene i contatti con l’Istituzione Scolastica e gestisce gli aspetti del procedimento valutativo garantendone l’uniformità.

Il Dirigente Tecnico assicura una competenza specifica, oltre che sugli aspetti giuridici e normativi, anche per gli ambiti culturali e pedagogici. Le visite del Nucleo Esterno di Valutazione si svolgono solitamente in tre giorni. Il Dirigente Tecnico preannuncia al Dirigente Scolastico il calendario delle operazioni ed elenca i documenti che dovranno essere inviati, tramite mail, ad ogni membro del Nucleo oltre che, essere messi a disposizione in formato cartaceo, durante la visita in loco.

Il Dirigente Tecnico fornisce all’ Istituto uno schema di visita dove verranno indicati i nominativi delle persone da intervistare scelti tra docenti, alunni e genitori, una sinossi sugli scopi della valutazione esterna da parte di Indire e Invalsi, un elenco degli argomenti soggetti ad indagine, un documento per le famiglie che spiega lo scopo della valutazione e un’informativa sul rispetto della privacy.

Al termine della visita vi sarà una riunione conclusiva, dove il Dirigente Tecnico comunicherà le impressioni generali esclusivamente al Dirigente Scolastico e al suo staff. Il Nucleo esterno di valutazione, infine, redigerà un Rapporto di Valutazione Esterna che invierà alla scuola dove saranno espressi i giudizi su ogni area oggetto di valutazione. Dopo tale invio, il Dirigente Tecnico ritornerà nell’Istituto preso in esame, per attivare un confronto relativo al report, in un clima di cooperazione e collaborazione reciproca.

Tale momento rappresenta un raccordo molto importante tra la fase diagnostica precedente della valutazione esterna e l’individuazione degli obiettivi nel Piano di Miglioramento. In questo incontro il Dirigente Tecnico pone grande attenzione ad argomentare sufficientemente i giudizi di valutazione esterna che sono apparsi molto distanti dai giudizi di autovalutazione, consigliando buone pratiche utilizzate in altri contesti o rifacendosi a casi con criticità simili che sono stati superati con successo.

Nella stesura del Rapporto di Valutazione Esterna, il ruolo del Dirigente Tecnico e degli esperti, assume fondamentale importanza dal punto di vista non solo tecnico e formativo, ma anche amministrativo. Infatti, il Servizio Nazionale di Valutazione fornisce i risultati della valutazione della scuola anche ai Direttori Generali degli Uffici Scolastici Regionali, che ne potranno tenere conto ai fini della valutazione dei Dirigenti Scolastici ai sensi dell’art. 25 del D. Lgs. 165/2001.