La cosa difficile non è comprendere le ragioni della raccolta differenziata: è tutto sommato semplice condividerne, in linea di principio, la necessità e i potenziali vantaggi. Il difficile sta nell’assumerne il rigore applicativo. Necessario e vincolante: una bottiglia di plastica nel posto sbagliato, e il risultato è compromesso. Rimane l’esortazione che però rischia di diventare “predica”.
Pensiero simmetrico mi è balenato nel considerare le “novità” dei provvedimenti sull’educazione civica, sulla cittadinanza, ecc…. Si tratta di una pluralità di interventi accomunati da “titoli” tra loro connessi, utilizzabili per una comune predicazione, ma che hanno significati differenziati.
Alla base di tutto ciò mi pare stiano tre ispirazioni di fondo, certo non alternative, ma che sottolineano aspetti diversi del significato e degli obiettivi che si vorrebbero perseguire con tale iniziativa.
La prima, importante ma dal punto di vista culturale di portata ristretta, muove dalle preoccupazioni relative ai “comportamenti” giovanili che, con le contraddizioni e le “deviazioni” misurate nella vita quotidiana della scuola, sono state variamente elaborate negli ultimi anni, con rilevanza, enfasi e ridondanza mediatica: il bullismo, l’uso disinvolto delle tecnologie della comunicazione, ecc.
Con questo significato, le proposte relative a Cittadinanza e Costituzione sembrerebbero dirette a dare il “conforto” di un piano culturale più elevato al richiamo generale rivolto alla valutazione del comportamento (l’enfasi sulla disciplina dei comportamenti).
La seconda interroga l’oggetto, che ormai è catalogato come “Cittadinanza e Costituzione” sotto il profilo delle discipline di insegnamento, dal Diritto, all’Economia, alla Storia, in relazione alla loro effettiva presenza nel curricolo, per scoprire una verità da sempre presente.
E cioè che nel nostro ordinamento tali discipline non sono presenti e se lo sono hanno rilievo “specialistico” (negli indirizzi economico-giuridici della secondaria superiore) ma non nella “formazione di base”. Oppure, come nel caso della Storia, non hanno “sagomature” capaci di riflettere e portare in rilievo le questioni connesse all’oggetto.
Né il richiamo (più tradizionale) all’Educazione Civica, né quello più recente alla necessità di sviluppare l’insegnamento della storia del ‘900 sembrano “centrare l’obiettivo”.
Certo la storia del ‘900 è caratterizzata dall’affermazione dei “diritti sociali di cittadinanza”, almeno nella seconda metà del secolo: ma appunto è quella parte di storia che in generale sfugge all’elaborazione approfondita dei “programmi”.
E d’altra parte, se si dovesse approfondire il problema del rapporto tra cittadino e Stato potrebbe avere altrettanta importanza lo studio della Guerra dei Trent’anni e della pace di Westfalia…
La terza ispirazione, sullo sfondo, è il messaggio che proviene dall’UE, con la determinazione del repertorio delle “Competenze di cittadinanza” definito per la conclusione del ciclo obbligatorio di istruzione. Come spesso succede alle determinazioni europee, mi pare però che, anche e soprattutto per questo argomento che affonda le sue radici di senso nelle diverse formazioni storico sociali dei paesi membri, l’istanza di produrre indicazioni all purpose conduca ad affermazioni rarefatte di significato e in definitiva povere di specificità.
Le competenze di cittadinanza, in quelle indicazioni, si collocano in tre dimensioni:
- la persona in sé stessa,
- la persona nel rapporto con gli altri,
- la persona nel rapporto con il lavoro.
Nulla da eccepire naturalmente: ma quelle coordinate sono null’altro che le coordinate della “formazione” in quanto tale. Potremmo applicarle, in chiave “educativo-formativa” ad ogni campo disciplinare.
Ho provato, in altre circostanze, a proporre un esercizio: separate dal termine “educazione” i contenuti definiti come “educazione civica”, “educazione alla cittadinanza”, “cittadinanza e Costituzione”, e così via…. E guardate a “ciò che resta”. Provate anche a fare il contrario: quando date alla scuola le funzioni dell’istruzione, dell’educazione e della formazione, provate a specificare cosa intendete.
Tentavo, con un po’ di presunzione, di ricondurre la discussione tra i pro e i contro alle misure appena varate dalla Camera, ad un comune convenire di cosa fosse “educazione”.
Anche per evitare che i riferimenti fossero alla “casistica” contingente dei “giornali che svolazzano e i francesi che si incazzano”: dalla madre che assalta la docente, alla banda di mini delinquenti, o all’abolizione (finalmente…) di un Regio Decreto sulle “punizioni” cui solo i burocrati del “visto… visto… visto” serbavano memoria.
Siamo, da “gente di scuola”, tributari di un “mito” pedagogico nel quale l’educazione è funzione della città. (A termini capovolti, cioè).
Non è qui luogo di analisi approfondite. Mi limito a tre citazioni e invoco/evoco il pensiero dei lettori. (Con le scuse del caso…).
“La città, nel suo insieme è una impresa educativa” (Tucidide II, 41).
“Quando i ragazzi abbiano lasciato i maestri, la città li obbliga ad apprendere le leggi… anzi… e chi traligni da esse, punisce, e a tale punizione si dà il nome di raddrizzare” (Platone, Protagora).
“Non è con la cooperazione nel lavoro produttivo di ricchezza che il membro della comunità (il cittadino) si riproduce, ma con la cooperazione nel lavoro dedicato agli interessi collettivi…” (K. Marx, Grundrisse….).
Educazione e città sono, nel mito di fondazione della nostra cultura, strettamente unite.
E la funzione educativa della città sta nella piazza, nell’assemblea, nel teatro, nel tribunale, nello stadio, nell’impegno per gli interessi collettivi (in quel contesto storico ateniese: la guerra…).
La scuola (i grammatici…) è importante, ovviamente, ma non ha la delega per la cittadinanza.
Si veda il Protagora: la città è l’ortopedia del cittadino. I grammatici correggono le tavolette degli alunni, ma è la città che ne “forma” (raddrizza) il carattere da cittadini.
L’animale-uomo (zoon logon echon…) è biologicamente rudimentale e imperfetto: non ha zanne e artigli per cacciare, pinne, squame, corazze, ali per volare… ha arti non specializzati, sensi di non grande acutezza, un cervello di grandi dimensioni ma sempre in divenire, ed è afflitto da neotenia (un percorso alla adultità lentissimo e spesso mai concluso…).
I prodotti della sua civiltà (arte, scienza, tecnologia) sono stati costruiti combinando queste “imperfezioni”: il rapporto tra un arto non specializzato come la mano ed un cervello ridondante e plastico, e la sua neotenia (il percorso lungo verso l’adulto) compensata/scaricata in una gregarietà variamente interpretata: famiglia, certo, ma soprattutto clan, tribù, villaggio, città, Stato, ecc…
Sicchè le “tirate” un poco ideologiche come quelle che Tucidide mette in bocca a Pericle, o l’idealismo platonico hanno comunque una solida base materiale.
La scuola e l’istruzione hanno certo una grande funzione, ma la “formazione” del cittadino adulto è assegnata alla funzione educativa “della città”. (Non “alla città”). Alla dimensione collettiva.
Nel mito della “città educante”, la cittadinanza non è una “appartenenza”, ma è una “militanza”.
La doppia transizione storica, dalla città antica, a quella medievale, alla città della modernità, è contrassegnata dal progressivo specializzarsi dei luoghi, delle istituzioni, dei soggetti dell’istruzione ed educazione.
Dalle funzioni svolte dalla Chiesa (i Collegi dei Gesuiti sono un esempio fondamentale) ai sistemi nazionali di istruzione dopo la Rivoluzione francese, incardinati sui processi di costruzione degli stati nazionali.
Entro tale plurisecolare transizione si rielabora il mito “fondativo” della “città educante”, citato in precedenza, con una singolare trasposizione “speculare”: la “specializzazione” e la delega sociale all’istruzione e formazione “abilitano” la scuola e i luoghi dell’istruzione ad essere “pensati” (a volte organizzati…) come rappresentazioni di una sorta di “simulacro” della “città”. Una città virtuale.
Un “luogo”, cioè, dove ricostruire, nella “simulazione” educativa, i processi di formazione dell’uomo e del cittadino che nel mito della paideia ateniese erano esercitati dalla città stessa e dai suoi luoghi (l’agorà, l’assemblea, il tribunale, il teatro, lo stadio, la guerra…).
Un luogo “virtuale”, dunque, in grado di connettere il soggetto a valori, ideali, virtù di cittadinanza anche a “correzione” delle dinamiche sociali a-pedagogiche e spesso anti-pedagogiche che la “città reale” non esercita più, nella disarticolazione della sua “compattezza” (quella dell’Atene di Pericle, ma anche quella della “organicità” medioevale), dissolta nella città del mercato e della produzione capitalistica.
Si pensi alla distinzione – dalla Rivoluzione dell’89, ma in Hegel stesso – tra citoyen e burgeois, per indicare l’effetto di tale disarticolazione.
Se si guarda alle architetture dei Collegi dei Gesuiti si ha la rappresentazione visiva di ciò: cortili, aule, spazi, corridoi, ricostruiscono una “città”. Una comunità simulata con le sue regole, le sue simboliche, i suoi linguaggi. Analogo potrebbe essere il ragionamento per la struttura del college anglosassone (per gli appassionati: c’è un pensiero di Gramsci in proposito…).
Solo per provocare: in tale percorso non vi è traccia della “famiglia” se non nelle fasi più che precoci dell’infanzia.
La “neotenia” strutturale è sempre compensata da un ambito collettivo più ampio. E del resto, a chi ne invoca il ruolo educativo, a quale famiglia ci si rivolge? Non rappresentano certo medesima occasione formativa la famiglia multi generazionale e a insediamento plurimo (il casolare comune pluri famigliare della società contadina) e quella urbana-nucleare. Ruoli formativi assolutamente non sovrapponibili. Accostabili solo nelle “invocazioni” vanveriste… o attardate in un cattolicesimo post Concilio, ma di Trento.
Un’ipotesi formativa, quella fondata sulla città, che implicava anzi esplicitamente la “separazione” del soggetto in formazione dai suoi contesti di appartenenze “ereditate”, per immetterlo, appunto, non solo in percorsi di istruzione cadenzati e organizzati in una “tecnologia” specializzata (la didattica vedi Ratio Studiorum gesuita), ma anche in una collettività densa di relazioni, sia simmetriche che asimmetriche, di regole e norme, di attività “collaterali” al curricolo in senso stretto, ma di significato intensamente “formativo” nella loro mescolanza di “successo” e “frustrazione”.
Così nel college anglosassone, così nel Collegio dei Gesuiti. Fuori dalla famiglia, comunque.
L’organizzazione della dimensione collettiva nella formazione da un lato simula la “città ideale”, dall’altro attrezza e forma la dimensione della “noità” che è “premessa formativa” della sua conclusione di successo nella “cittadinanza”.
La dimensione della noità ha una componente “strutturale” (la gregarietà connessa alla neotenia…) che è in sé a-pedagogica e a volte anti-pedagogica. La sfida si fa via via più significativa nei passaggi dall’infanzia all’adolescenza. Ai quali presiede Dioniso, non Apollo.
La sfida pedagogica è proprio quella di come ricondurre la dinamica della noità alla dimensione della cittadinanza. A partire dalla consapevolezza fondata dei caratteri intrinsecamente “selvatici” delle dinamiche della noità lasciate operare senza ricomposizioni accorte del rapporto Dioniso/Apollo.
Siamo (quelli della mia età…) venuti grandi con Huckleberry Finn e Tom Sawyer… E che dire dei Ragazzi della Via Paal, per tacere di Pinocchio e Giamburrasca… Siamo venuti grandi con il bullismo… ritemperato (non negato…) in una noità “pedagogicizzata”.
A fondamento dell’educazione alla cittadinanza sta la formazione alla “noità”.
Per ricongiungersi all’argomentazione precedente potremmo sinteticamente affermare che la cittadinanza è “noità” più “padronanza deliberativa”.
Ma il richiamo al “noi”, all’“io e l’altro” nella dimensione costitutiva del soggetto, nel superamento “dell’onnipotenza del soggetto” nel percorso originario del suo costituirsi, rischia anch’esso di tradursi in chiave puramente esortativa.
L’altro può essere “il non chiamato”, l’intruso, lo specchio deforme. La costruzione della “noità” non è “naturale”.
Chi spara sugli immigrati in Calabria esercita la sua violenza sull’altro come immagine deformata e inaccettata di sé. Il simulacro di un suicidio.
La formazione alla noità è una “triangolazione”: io, l’altro, la “buona istituzione” (Levinas, Ricoeur, Todorov…).
Ed è qui che ritroviamo gli interrogativi sulla scuola. A quali condizioni cioè essa si configura come la “buona istituzione” di tale triangolazione per la costruzione della “noità”.
Si riannoda qui tutta la riflessione precedente sul rapporto tra curricolo esplicito e curricolo implicito, su processi di istruzione e formazione, contesto organizzato e valore istituente della formazione, su “città educante” e scuola come “simulacro ideale di città”.
Nella scuola riconfigurata come “città ideale” virtuale la domanda diventa dunque: cosa sono e come si riorganizzano, in quel contesto, l’agorà, l’Assemblea, il Tribunale, il Teatro, lo stadio, la guerra (l’impegno nell’utilità collettiva)?
Rispondere a tale domanda significa collocare sensatamente il termine “educazione” nella sua sinonimia con quello di cittadinanza.
Superando i repertori tassonomici (dall’educazione ambientale, alla Costituzione, all’educazione civica, a quella stradale, a quella economica…) che ne mortificano il carattere di valore complessivo dell’animale-uomo (politikon zoon).
Certo la risposta alla domanda è impossibile se si tenta di filtrarla entro la griglia sistematica dell’“enciclopedia” del curricolo (le discipline); dell’enciclopedia delle classi di concorso (le materie di insegnamento); entro le dimensioni spazio temporali organizzative (classi, ore di lezione, aule…) di un “taylorismo imperfetto” che subordina istruzione e formazione a una incastellatura formale tipica del procedurale amministrativo.
E viceversa: se si vuol tenere ferma tale incastellatura (fornisce qualche “protezione” conservativa…) si finisce per ridurre (o meglio a chiedersi “come ridurre?”) l’istanza dell’educazione a un repertorio disciplinare, più o meno articolato. (In generale per questa via i repertori si fanno sempre più ampi, e sempre meno realisticamente operativi. Deve starci tutto…).
Rielaborare sensatamente educazione e cittadinanza potrebbe essere, in tal senso, un’occasione per affrontare effettivamente la problematica dell’ambiente di apprendimento: non solo l’adeguamento spaziale e temporale, ma l’articolazione per l’esercizio pedagogico della noità.
Appunto: l’agorà, l’assemblea, il tribunale, lo stadio, il teatro, il lavoro collettivo… Del resto ambiente è uguale a spazi più tempi più relazioni tra chi li popola. Ma ciò richiede un poco di “toyotismo” (responsabilità collettiva di gruppo) e abbandono del “taylorismo imperfetto” e dei suoi dispositivi rassicuranti e protettivi. (Ritorno a chieder scusa delle provocazioni).
Sotto tale profilo mi permetto solo un paio di argomenti ulteriori.
Nella mia tradizione il percorso formativo alla cittadinanza era quello del soggetto verso la dimensione dello Stato. In una sorta di “acquisizione” progressiva. (“Dovuto” a mio padre).
È questa del resto la dimensione della cittadinanza propria della fase storica della modernità e della costruzione degli Stati nazionali.
Ma è processo che ha, sotto il profilo formativo del soggetto, aspetti specifici legati alle singole realtà storiche culturali e statuali e tutt’altro che equivalenti.
Statalismo e societarismo si dialettizzano nelle diverse culture nazionali in quella stessa fase storica, declinando il rapporto specifico tra Stato e Società Civile.
Lo statalismo “combinato” con una pedagogia emancipatrice della tradizione (rivoluzionaria) francese produce modelli di cittadinanza assai diversi dallo statalismo con pedagogia stabilizzatrice come nella tradizione “bismarkiana”.
Esattamente come il “societarismo” combinato con pedagogia emancipatrice determina forme di cittadinanza tipiche della tradizione anglosassone, (vedi Tocqueville…) e il societarismo in chiave stabilizzatrice è tipico dei paesi scandinavi.
Mi verrebbe da proporre agli “statalisti” nostrani più o meno manifesti e consapevoli, che partecipano a questo dibattito (per intenderci: quelli che “il disastro della scuola nasce con l’autonomia”…) di esercitarsi a contraddistinguere i modelli di cittadinanza nazionale italiana usando la combinazione delle categorizzazioni precedenti… E forse certe “difese” di principio dell’“unità nazionale” acquisterebbero fisionomie più collegate alla realtà e meno ideologiche.
Ma, al di là della provocazione, vi sono due problemi nella stessa caratterizzazione dei valori di cittadinanza. (Quante “cittadinanze” vi sono?).
Il primo già accennato è il rapporto tra Stato e Società civile.
Dimensione critica: verificare quanto sia pregnante nella cultura nazionale il valore della sussidiarietà e dell’autonomia di organizzazione della società civile, e quanto di ciò si traduca nelle concezioni della cittadinanza (dunque anche nella “educazione alla…”). Rielaboriamo un costrutto di “cittadinanza sociale” che articola (va oltre? Ingloba? Affianca?) quello tradizionale che segna il rapporto tra il soggetto e lo Stato? Vale per tutta la tradizione “mutualista” per esempio… cattolica e di sinistra…
Il secondo è costituito dall’obsolescenza del modello “nazionale” della cittadinanza e l’articolazione del costrutto stesso. Come rielaborare la cittadinanza sovranazionale che accompagna il declinare (o l’articolarsi delle funzioni e delle competenze? O le cessioni di sovranità?) degli Stati nazionali? Quante delle condizioni della nostra vita quotidiana di cittadini sono determinate da momenti e organi di decisionalità sovranazionale e che, dunque, richiedono, per il controllo e la partecipazione, altre forme di “padronanza di cittadinanza?” (Largamente da inventare…).
Come si vede domande non semplici e cariche di senso.
Ovviamente i colleghi esperti di Storia, di Diritto, di Economia, di Pedagogia, potrebbero e dovrebbero dare più che una mano a tentare di rielaborare risposte assennate da calare nel processo di formazione della nuove generazioni (solo le nuove?…).
Ma per stare alla scuola e al suo quotidiano lavoro il problema di fondo è quello più volte citato: nella scuola cosa sono “l’agorà, l’assemblea, il teatro, il tribunale, lo stadio, il lavoro per l’interesse collettivo”? Che cosa ne svolge la funzione fondamentale nell’organizzazione dell’itinerario formativo dalla “noità” alla cittadinanza?
Ultima considerazione. Se ha senso la citazione di Marx riportata in testa a queste note (cittadinanza come impegno nel lavoro di interesse collettivo) e posto che, a differenza dell’Atene che decliniamo nel “mito pedagogico”, tale interesse collettivo di cittadinanza non è la guerra, perché lasciare la questione alla deformazione del messaggio dei nostalgici (la riproposizione della naja)? Perché non avere il coraggio di battersi per il potenziamento (obbligo?) del servizio civile per tutti?
Coordinatore del servizio ispettivo dell’Ufficio Scolastico Regionale per le Marche; Laurea in Scienze Naturali; Corso di formazione presso Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione “Programmazione e gestione risorse”; Corso di formazione presso Scuole di Pubblica Amministrazione “La gestione delle risorse umane”; Segretario Provinciale Milano del SNS CGIL (1974-76); Responsabile Ufficio Studi Economici Camera Confederale del Lavoro di Milano (1976-1980); Segretario Regionale Lombardia SNS CGIL (1980-1981); Segretario Nazionale SNS-Università CGIL (1982-1984); Docente di scuola secondaria di secondo grado (1971-1986); Vice Presidente IRRSAE Lombardia (1984-1986); Ricercatore presso IRRSAE Lombardia (1987-1997); Direttore IRRSAE Lombardia – poi IRRE (1997-1999); Direttore CIPREF – Consorzio Inter-IRRE per la Ricerca Educativa e la Formazione (1999-2002).