L’educazione ambientale passa attraverso l’arte

La Cracking Art: un progetto per le Scuole del primo ciclo e non solo

Nel 1993 nasce la Cracking Art. Questa forma d’arte è connotata da un forte impegno sociale e ambientale. Questo movimento artistico ha lo scopo di rappresentare la dicotomia tra naturale e artificiale. Il nome deriva dal verbo “to crack” che significa spezzare, rompersi, incrinarsi. Inoltre, con il termine “cracking catalitico” si indica una reazione chimica che trasforma il petrolio grezzo in plastica.

Gli artisti si ispirano a questo concetto per trarre ispirazione e realizzare i loro coloratissimi animali, attraverso il riciclo di materiale plastico, che attirano l’attenzione di grandi e piccini. Coccodrilli, rane, rondini, conigli, chiocciole e molti altri anche di gigantesche dimensioni hanno letteralmente invaso diverse città italiane e straniere. Questo progetto itinerante, che unisce un evidente effetto estetico con una riflessione sul riciclo della plastica, ha coinvolto anche gli alunni di alcune scuole di infanzia e primaria.

L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è uno tra gli obiettivi specifici di apprendimento definiti nell’ambito dell’educazione civica, che in questo caso specifico si declina nell’educazione ambientale. In un’ottica pedagogica del learning by doing, gli studenti sono stati coinvolti per un percorso didattico culturale improntato alla sostenibilità e che si inserisce perfettamente nella finalità educativa dell’esposizione artistica. Guidati da esperti educatori ambientali, sapientemente formati, sono stati accompagnati ad una visita della mostra. Successivamente le classi sono state coinvolte in una serie di workshop legati al tema del riciclo: il gioco delle cinque R, Riuso, Riduco, Riparo, Riciclo, Recupero.

Il quiz sulla biodegradabilità dei rifiuti con gare a staffetta: curioso il legame tra gioco di movimento e riflessione sul tema della raccolta differenziata, che aiuta ad intendere questo senso civico come una vera e propria competizione dettata da alti valori, quali aumentare la consapevolezza dei rifiuti che io produco e della loro quantità. Educare le nuove generazioni ad un uso consapevole dei materiali e far sì che comprendano la necessità di ridurre l’uso della plastica ed evitare gli sprechi.

Un’interessante attività laboratoriale con l’utilizzo di materiale plastico come bottiglie, tappi, piatti, ecc. ha permesso ai piccoli artisti di realizzare semplici animali che hanno portato nelle loro case come ricordo dell’esperienza vissuta insieme a una foto e all’attestato di partecipazione al gioco “Indovina che rifiuto sei”. Con la convinzione che l’educazione ambientale deve trovare riscontro anche nella quotidianità della vita familiare, durante il fine settimana è stata prevista un’ulteriore attività legata al processo di riciclo della plastica in tempo reale: con ausilio di macchinari, specifici per la macinatura e estrusione della plastica, il processo si conclude con la creazione di oggetti tridimensionali tramite una stampante 3D. Il coinvolgimento delle famiglie e soprattutto la curiosità dei bambini di fronte al lavoro della stampante 3D può veicolare certamente messaggi sul valore del recupero e del riutilizzo di materiali.

Il coinvolgimento delle scuole è stato proposto con l’intento di fare svolgere ai bambini attività che possano avvicinarli all’arte contemporanea la quale a sua volta diventa veicolo di sensibilizzazione verso l’abuso di plastica e le disastrose conseguenze che questo sta apportando al pianeta. Ricordiamo a tal proposito che solo alcuni mesi fa una ragazzina di nome Greta Thunberg è riuscita a coinvolgere milioni di giovani con l’obiettivo di richiamare all’attenzione dei grandi del mondo, l’urgenza di un cambio epocale nelle politiche legate al rispetto dell’ambiente e al cambiamento climatico. Leggi tutto “L’educazione ambientale passa attraverso l’arte”

L’Europa in cammino: White Dove Way

Il cammino della colomba bianca è stato proposto nella sessione plenaria del CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo). Si tratta di un percorso di pace che si estende per 5.000 Km attraverso l’Unione Europea.

Da 70 anni molte generazioni di europei hanno avuto il privilegio di non conoscere le atrocità della guerra, questo è un dato di notevole rilevanza per la valorizzazione della cittadinanza globale intesa come occasione di incontro e dialogo pacifico. Da sempre la Pace è l’obiettivo principale dell’Unione Europea. Questo importante impegno ha visto riconoscere all’Europa il premio Nobel per la Pace nel 2012. Sono passati sette anni e mai come in questo momento spirano sull’Unione venti populisti da più fronti che non possono e non devono essere ignorati.

Il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), nella sua proposta di iniziativa, ha esortato l’Unione Europea a dare nuova linfa vitale promuovendo una autentica strategia globale per costruire e mantenere la pace, anche attraverso dei finanziamenti economici. Questa nuova interessante sfida sarà chiamata “Il Cammino della Colomba Bianca”. Un cammino di pace che partirà dall’Irlanda del Nord e si concluderà a Nicosia capitale di Cipro: 5.000 km di Pace, attraversando terre protagoniste storicamente, loro malgrado, di brutali scenari bellici quali l’Alto Adige e i Balcani. Questa iniziativa intende promuovere il dialogo, la riconciliazione tra i popoli e la prevenzione di eventuali nuovi conflitti. Per fare questo occorre il coinvolgimento della società civile affinché vengano create reti e strutture, capaci di coinvolgere i sistemi educativi e le scuole di tutta Europa.

L’iniziativa partita dal CESE intende:

  • creare alleanze sinergiche con partner locali e regionali già presenti sui vari territori
  • la nascita di Centri europei per la pace e la riconciliazione in Irlanda del Nord e a Nicosia, e centri di apprendimento che colleghino siti strategici lungo il Cammino della Colomba Bianca
  • coinvolgere la società civile attraverso i Sistemi scolastici europei e la partecipazione delle scuole di tutta Europa mediante efficaci metodologie didattiche
  • implementazione del Programma Erasmus e delle strategie di informazione e comunicazione, per coinvolgere i cittadini a tutti i livelli nello sforzo di pace dell’UE.

Il Comitato economico sociale ed europeo ha inoltre invitato l’Unione Europea a dare priorità alla costruzione della pace nel suo nuovo quadro finanziario 2021-2027, auspicando investimenti nella diplomazia culturale, nel giornalismo di pace e nel dialogo interculturale.

Una curiosità: l’itinerario segue i passi di un Santo monaco di nome Colombano, pellegrino irlandese del VI secolo d.C., patrono di tutti coloro che cercano di costruire un’Europa pacifica e unita. Con Lui partirono per l’Europa diversi suoi seguaci anch’essi monaci con l’obiettivo di diffondere il Vangelo e lo stile monacale. Lo stesso S. Colombano dopo il passaggio in Francia arrivò in Italia a Bobbio dove fondò un monastero: siamo nell’epoca delle invasioni dei popoli germanici, in questo periodo le missioni irlandesi di S. Colombano rappresentarono un’iniezione di linfa vitale per l’Europa intera. Per questo motivo egli fu definito “Gigante dalla statura europea”, infatti fu un monaco mosso da autentico spirito missionario e da una grande carità. Nell’iconografia cristiana il Santo è raffigurato con la veste monacale e come attributo principale porta una colomba bianca sulla spalla, animale che richiama il nome stesso di Colombano e che sta ad indicare lo Spirito Santo che ha guidato il monaco nella sua avventurosa missione europea. Ecco perché la colomba è stata scelta come simbolo di questo cammino di pace, poiché oltre a richiamare il santo irlandese, appare nella Bibbia, in particolare nella storia di Noè, come segno universale di pace. Leggi tutto “L’Europa in cammino: White Dove Way”

La “Cittadinanza” nello scenario europeo

La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (3ª parte)

Durante il dominio fascista in Italia furono emanate diverse norme che dimostrano chiaramente cosa significhi essere cittadini in quest’epoca. Il primo gennaio 1926 il Paese si sveglia con la legge sulla stampa, Mussolini con tale normativa sancisce la messa fuori legge di qualsiasi giornale che non abbia un responsabile riconosciuto dal Prefetto e di conseguenza dal governo. Moltissimi giornali, quotidiani, opuscoli sono considerati illegali. Inoltre viene imposto ad ogni tipografia l’obbligo di depositare ogni scritto in tribunale per ottenere l’autorizzazione del magistrato in vista della pubblicazione. Il 12 gennaio è la volta dei dipendenti pubblici, ai quali è severamente proibito iscriversi a qualsiasi tipo di associazione, l’unica consentita, ovviamente è quella fascista.

Il provvedimento di controllo si estende a tutti gli intestatari di numeri telefonici, schedati a secondo dell’appartenenza politica. Vengono sciolte tutte le sedi di aggregazione degli operai con la creazione di un unico organismo che è l’OND. I docenti di ogni ordine e grado devono possedere la tessera del partito nazionale fascista pena l’espulsione dal lavoro, i libri di testo devono essere controllati e approvati esclusivamente dal Ministero della Pubblica Istruzione per essere in linea con il pensiero del regime. La televisione e il cinema proiettano documentari ideologici di propaganda prodotti dall’Istituto Luce, Unione Cinematografica educativa italiana con il compito di inculcare e plasmare il buon cittadino fascista. Sempre in questo anno viene istituito il Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, con lo scopo di condannare tutti gli antifascisti condannandoli al confino.

Il 1938 si caratterizza per la vergognosa campagna antisemita che sfocia nella promulgazione delle Leggi Razziali. Esse sostengono che gli italiani sono ariani mentre gli ebrei non lo sono mai stati. Da quel momento, gli ebrei italiani non potevano più lavorare nelle amministrazioni pubbliche, insegnare o studiare nelle scuole e università italiane, far parte dell’esercito, gestire alcune attività economiche e commerciali che il fascismo giudicava “strategiche” per la nazione. Di anno in anno le misure contro gli ebrei diventarono sempre più dure, fino al 1943, quando l’occupazione tedesca dell’Italia del centro-nord diventò una tragedia anche per gli ebrei italiani, molti dei quali finirono nei campi di concentramento e di sterminio.

Proprio in questo periodo, nel 1941, quando le sorti della guerra sembrano pendere verso una vittoria dell’Asse, tre figure di spicco nel panorama intellettuale italiano, hanno scritto un documento che è ora ricordato come il Manifesto di Ventotene. Altiero Spinelli, che si trova al momento della stesura al confino sull’isola di Ventotene, insieme con Ernesto Rossi e con il contributo di Eugenio Colorni, iniziano una discussione ispirata dalla lettura di due articoli scritti da Luigi Einaudi circa 20 anni prima. Questi partono dal presupposto che i principi sanciti dalla Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale sono stati completamente sovvertiti dall’imperialismo e dai totalitarismi. Inoltre ritengono che l’Europa sotto il dominio nazi-fascista è quella che ingloba il cittadino, e quindi non si costruisce sulla libertà di cittadinanza.

Essi sperano che dopo il crollo dei regimi totalitari, i popoli possano costruire una vera democrazia, non gravata dal desiderio di potere e dalla pressione delle élite conservatrici. Per realizzare quest’obiettivo i tre intellettuali hanno proposto la costituzione di una federazione europea, una forza sovranazionale che avrebbe dovuto ricostituire l’Europa, evitando gli errori commessi dal capitalismo e dal comunismo sovietico.

Nella prima parte del manifesto, Spinelli ha descritto i valori più importanti sui quali è basata la civiltà moderna, prima dell’avvento del totalitarismo, vale a dire la libertà e il principio di autodeterminazione degli stati. Tuttavia questi valori sono già viziati dal riconoscere nello stato un’entità sovrumana che, per soddisfare i propri bisogni, non si cura né delle reali esigenze dei cittadini, né degli altri stati. Secondo Spinelli i ceti privilegiati hanno favorito la formazione delle dittature, preferendo un regime autoritario alla diffusione della democrazia e di diritti uguali per tutti. Per questa ragione, egli suggerisce che la nuova Europa, che si dovrà costruire dopo la guerra, si basi sugli ideali socialisti di emancipazione delle classi operaie e di progresso sociale messo al servizio della collettività. Lo Stato deve garantire ai propri cittadini un’equa distribuzione della ricchezza e la possibilità di avere un lavoro, un’istruzione e adeguata assistenza. Inoltre il concetto di laicità viene inteso come il rispetto di tutte le religioni, mentre la chiesa è invitata a non interferire con la vita civile dei cittadini, ma soprattutto gli stati europei devono costituirsi in una confederazione, un ente superiore che garantisca i punti descritti sopra.

Gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati dal tentativo di ridefinire lo stato sociale e con esso il diritto di cittadinanza. Quest’ultimo non può più semplicemente fondarsi sui vecchi principi, ma deve essere ampliato e approfondito dopo la negazione imposta dai regimi fascisti e in vista di una società più aperta e multiculturale. Questa ricerca di una nuova definizione ha trovato la sua espressione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Oggi uno Stato che si voglia definire civile deve impegnarsi a eliminare le situazioni di svantaggio, assicurando l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini, vale a dire laccesso per tutti alla sfera dei diritti fondamentali. A tal proposito si può citare come esempio l’articolo 2 della Costituzione italiana che sostiene: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo testo traduce la necessità di riaffermare i “diritti fondamentali” della persona dopo la tragica esperienza del fascismo e del nazismo, di accentuare la rilevanza della persona, la sua intangibilità e la necessità di moltiplicare i diritti a sostegno dei bisogni fondamentali dell’individuo.

La storia moderna ha visto prevalere la centralità del soggetto, l’intenzione di attribuirgli una molteplicità aperta di diritti e il bisogno di sottrarlo all’assoluta dominanza dello stato, per collocarlo in uno scenario sovranazionale. L’affievolirsi del ruolo dello Stato-nazione, sotto alcuni aspetti sostituito da una struttura più ampia, lascia inevitabilmente un vuoto di appartenenza e la necessità di nuovi sistemi di riferimento. Nel contesto dell’internazionalizzazione del diritto e della creazione di forme di aggregazione di popoli come l’Unione europea, il concetto di cittadinanza si è perciò ulteriormente sviluppato. La condizione ideale sarebbe quella di creare un’identità propria del popolo europeo nel rispetto dei particolarismi degli Stati appartenenti e nella piena condivisione dei principi comuni, di carattere sociale e politico, espressi anche nella Costituzione europea.

La cittadinanza dell’Unione europea e i diritti che ne derivano devono essere visti in una prospettiva storica, partendo dal processo avviato dal trattato che ha dato vita alla Comunità economica europea (firmato a Roma nel 1957). Detto trattato ha introdotto il diritto delle persone a circolare liberamente sul territorio della Comunità europea. A quei tempi, tuttavia, la libera circolazione delle persone è legata a motivi strettamente economici e ha lo scopo di facilitare gli scambi tra i paesi che hanno firmato il trattato. Il diritto di soggiorno su tutto il territorio della Comunità è riconosciuto innanzitutto ai lavoratori subordinati e autonomi e ai loro familiari in relazione al diritto all’esercizio di un’attività professionale su tale territorio.

L’Atto unico europeo del 1986 ha modificato il trattato di Roma in un’ottica più ampia e non soltanto basata su motivazioni economiche. Alla sua base vi è l’esplicita volontà di creare uno spazio senza frontiere in cui le persone possano muoversi liberamente a prescindere dalla loro nazionalità. L’intento dei firmatari è di avviare un processo di apertura che dovrebbe compiersi appieno entro il 31 dicembre 1992. Nel 1990, la dinamica dell’Atto unico induce il Consiglio a estendere il diritto di soggiorno anche alle persone che non esercitano alcuna attività economica, a condizione che dispongano di risorse sufficienti e di una copertura sociale.

La cittadinanza europea è stata formalmente istituita in occasione del Vertice dei Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea (denominazione che da allora sostituì quella di Comunità Europea) tenutosi a Maastricht il 9 e 10 dicembre del 1991. Tuttavia, in quell’occasione, l’attenzione dei mass media si è concentrata soprattutto sulla decisione presa dal vertice di creare una moneta unica europea e l’istituzione del diritto di cittadinanza è passato in secondo piano, rimanendo sconosciuto alla maggior parte delle persone. La scelta politico-monetaria di fatto ha messo in secondo piano quella “culturale” di cittadinanza, quasi facendola scomparire: occorre dunque cercare una soluzione a questa crisi d’identità che continua a serpeggiare tra i cittadini. La cittadinanza delineata a Maastricht, è una “cittadinanza comune” agli abitanti dei Paesi membri, come si legge, fra l’altro, nel Preambolo del trattato, firmato dai governi il 7 febbraio 1992. Essa non sostituisce la cittadinanza delle singole nazioni, ma in qualche modo si aggiunge ad essa, tuttavia è ancora quella nazionale a rimanere come riferimento principale per stabilire chi gode dei diritti giuridici di cittadinanza entro l’Unione e chi no. L’obiettivo principale, che ha motivato la decisione dei firmatari di istituire una cittadinanza dell’Unione, è quello di rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi stati membri, come si legge nell’art. B.

L’introduzione del concetto di cittadinanza mira inoltre a rafforzare e a promuovere l’identità europea, tentando di coinvolgere i cittadini nel processo di integrazione comunitaria. La cittadinanza dell’Unione comporta una serie di norme e diritti ben definiti, che si possono raggruppare in quattro categorie: la libertà di circolazione e di soggiorno su tutto il territorio dell’Unione, il diritto di votare e di essere eletto alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza, la tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro in un paese terzo nel quale lo Stato di cui la persona in causa ha la cittadinanza non è rappresentato e il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e ricorsi al mediatore europeo. Analogamente, i diritti fondamentali si applicano a tutti coloro che risiedono nell’Unione europea. Il testo del Trattato di Maastricht si è limitato a tracciare i confini generali della cittadinanza e ha rimandato molte questioni alle specifiche legislazioni nazionali.

Nel corso degli anni ’90, tuttavia, si sono verificati alcuni fenomeni che hanno portato alla ribalta della politica europea il problema di definire più accuratamente quali sono i diritti dei cittadini europei e degli altri soggetti presenti nell’Unione. Innanzitutto, si è approfondita l’integrazione economica e sociale dei paesi membri dell’Unione, sostenuta dagli sviluppi del mercato unico, in particolare dalla liberalizzazione della circolazione di persone, beni e capitali, anche in vista dell’introduzione della moneta unica. La società europea è così diventata sempre più interdipendente e sono nati problemi inediti nella regolazione dei rapporti quotidiani di soggetti, imprese, istituzioni, entro un quadro sempre più sovranazionale. In secondo luogo, si è delineata l’emergenza dovuta all’immigrazione, soprattutto nei Paesi dell’Unione confinanti con l’Est europeo, dopo la caduta del muro di Berlino (1989), e in quelli sulle coste del Mediterraneo, che ha posto il problema di stabilire quali siano i diritti non solo dei cittadini europei, ma anche di tutti coloro che in Europa vivono e lavorano.

Con il trattato di Amsterdam (1997), si è trovata una soluzione politica che consente di progredire sul fronte della libera circolazione delle persone. Il documento ha infatti integrato l’elenco dei diritti civili di cui godono i cittadini dell’Unione e ha definito con maggior precisione il nesso esistente fra la cittadinanza nazionale e la cittadinanza europea. Nel trattato sono stati incorporati i cosiddetti accordi di Schengen, firmati nel 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi per attuare il regime di libera circolazione dei cittadini degli stati firmatari. Il protocollo, relativo a tali accordi, è stato successivamente firmato dagli altri stati membri (l’Irlanda, la Gran Bretagna e altri hanno tuttavia espresso il desiderio di ottenere uno statuto particolare e mantenere alcuni controlli alle proprie frontiere), allegato al testo del trattato di Amsterdam e integrato nel Trattato di Maastricht nel 1999. Nonostante ciò i cittadini europei si trovano ancora a dover affrontare ostacoli veri e propri, di ordine sia pratico sia giuridico, al momento di esercitare il proprio diritto di libera circolazione e di residenza all’interno dell’Unione. Leggi tutto “La “Cittadinanza” nello scenario europeo”

La “cittadinanza” nello scenario europeo

La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (2ª parte)

Il concetto di cittadinanza è nato in Occidente nelle polis greche. Anche se il termine deriva dal latino civis, le qualità proprie di un cittadino sono tracciate per la prima volta nelle città greche del periodo classico. Nelle polis dell’antica Grecia gli stranieri, ovvero coloro che non parlano greco, sono considerati barbari, mentre gli Elleni, che hanno in comune lingua, costumi e religione sono accettati nella comunità e, anche se per la maggior parte ancora esclusi dalle cariche politiche, essi hanno il diritto di partecipare alla gestione degli affari pubblici.

Nell’antica Roma è considerato cittadino a pieno titolo il maschio adulto, libero, che partecipa a tutte le attività dello Stato e si contrappone non soltanto allo straniero non residente, ma anche agli stranieri residenti, alle donne e agli schiavi. Il popolo formato da soggetti dotati di pienezza di diritti è arbitro della pace e della guerra, delle leggi, dell’amministrazione della giustizia. La “civitas” si fonda sull’utilità comune e sulla dedizione alla res pubblica e, a differenza della polis greca, nel territorio di Roma, essa viene estesa prima ai latini poi agli italici, poi a tutti gli altri abitanti dell’Impero.

La nozione di cittadinanza ha conosciuto un periodo di stallo durante il Medioevo e l’epoca delle monarchie, in quanto il potere assoluto limita ed esclude nella maggior misura possibile il popolo dalla vita politica. Il termine è riapparso in Inghilterra nel XVII secolo grazie all’opera di Thomas Hobbes, quando si riferisce alle tematiche di cittadinanza e dei fondamenti della politica, ampliata grazie alle teorie giusnaturalistiche e alla cultura illuministica. La filosofia del diritto naturale ha modificato radicalmente la rappresentazione del soggetto, che ha acquistato un nuovo status accanto a quello di suddito-cittadino, vale a dire la condizione di uomo, a cui sono state riconosciute nuove caratteristiche inderogabili quali lo stato di natura, i bisogni e i diritti fondamentali.

Il filosofo inglese John Locke, padre del liberalismo moderno, ha introdotto la teoria secondo la quale il soggetto è anteriore e precedente rispetto alla sovranità dello Stato e all’ordine sociale, ma la vera svolta è avvenuta grazie all’opera del filosofo francese Jean Jacques Rousseau, considerato ancora oggi il padre della democrazia moderna. Secondo Rousseau l’appartenenza statale è collegata al principio di libera volontà. Il cittadino è prima di tutto colui nel quale risiede la sovranità ed è lui a delegarla ad un ente superiore. Egli non è più suddito, ma essere razionale capace di creare e scegliere il proprio governo. Nasce così il concetto di popolo come soggetto politico (il demos) inteso come l’insieme dei cittadini che, attraverso la sottoscrizione di un contratto sociale, decidono autonomamente di vivere sotto un ordinamento costituzionale comune.

La maturazione degli ideali democratici introdotti nel corso del XVIII secolo ha portato in tutta Europa un processo di cambiamento sostenuto dalla necessità di nuovi assetti politici e sociali che includessero i popoli nella gestione della vita pubblica della nazione cui appartengono.

Con lo scoppio della Rivoluzione Francese e la conseguente stesura della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” varata dall’Assemblea Nazionale, per la prima volta all’interno di uno Stato europeo, tutti gli uomini di una nazione sono stati considerati come “liberi ed eguali nei diritti”. Indubbiamente questa è stata la svolta che ha introdotto la concezione moderna di cittadinanza come contenitore di una serie di diritti soggettivi, un concetto che si è affermato come eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, in quanto soggetti di diritto, detentori della sovranità e membri della nazione.

Nella Francia rivoluzionaria il cittadino è tale semplicemente perché appartiene al nuovo stato costituito (ius soli), fondato sugli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. La cittadinanza è “generale”, poiché estesa a tutti coloro che si trovano sul territorio francese, e “astratta”, in quanto riconosciuta al di là dell’appartenenza ad un determinato ceto o gruppo sociale. Gli individui sono considerati uguali in quanto cittadini e hanno il diritto di essere rappresentati politicamente in un’Assemblea Nazionale.

Nella fase giacobina della Rivoluzione questa visione del concetto di cittadinanza si è ulteriormente ampliata, venendo a coincidere con l’identità collettiva della comunità politica: tutti possono essere cittadini, ma devono condividere gli scopi e i valori dello Stato. Coloro che non accettano di farlo, vengono identificati come Controrivoluzionari e combattuti come nemici.

Un’ulteriore svolta si è verificata con l’avvento del Romanticismo e con la reazione anti-illuministica: l’uomo non costituisce più il punto di partenza da cui nasce uno Stato, ma lo Stato-nazione diventa un’entità a se stante. Tale punto di vista è stato rafforzato dalla cultura positivistica, che si è affermata in pieno Ottocento e che ha contestato l’individualismo sostenuto dalle teorie illuministe e ha caratterizzato il soggetto in base al vincolo di solidarietà organica che lo lega alla comunità. Ad accomunare le teorie dei secoli XVIII e XIX vi è comunque l’assoluta fiducia nella libertà, vista come connotato irrinunciabile per qualsiasi soggetto.

La fiducia in una società fatta di collaborazione e di crescita progressista si è tuttavia incrinata alla fine del XIX secolo con il diffondersi di nuovi ideali e con l’inizio di un periodo identificato storicamente come imperialismo. Le date che hanno segnato l’inizio della crisi sono state il 1871, che ha visto la repressione nel sangue dell’esperimento democratico della Comune di Parigi, e il 1885, l’anno del Congresso di Berlino, durante il quale le grandi potenze europee si sono divise i territori delle colonie africane.

Il panorama culturale e filosofico in questi anni è cambiato radicalmente e all’ottimismo si è sostituito l’irrazionalismo, una corrente che ha caratterizzato il pensiero del XX secolo, spesso definito come secolo della crisi. La crisi è stata generata dagli eventi storici e politici ed ha interessato ogni aspetto della società, dai valori morali alle istituzioni. Sentimenti come il nazionalismo, il militarismo, il colonialismo, il razzismo e l’avversione per gli ideali democratici e socialisti si sono diffusi rapidamente e hanno portato alla prima guerra mondiale. In un clima di totale sovvertimento, anche il concetto di cittadinanza è entrato in crisi: esso non può più fondarsi sull’idea pacifica di equilibrio tra soggetto e stato.

Il ‘900 apre una nuova epoca, quella della società di massa, la quale, in qualità di nuovo soggetto collettivo, ha iniziato a mettere in discussione i parametri che fino ad allora avevano definito l’appartenenza e il rapporto tra l’uomo e il diritto alla cittadinanza. L’avvento dei regimi totalitari fascisti e nazionalisti ha costituito una vera e propria negazione dell’autonomia e della libertà del soggetto, il quale viene subordinato a entità collettive quali lo Stato-nazione e la razza. Il diritto alla cittadinanza, come ogni altro diritto fondamentale, ha subito in questi anni un attacco senza precedenti: il rapporto tra soggetto e Stato si inverte, non è più l’uomo al centro della comunità ma è lo Stato e ogni discorso comune di solidarietà e collaborazione è abbandonato. In questo malsano rapporto, è lo Stato che ingloba l’individuo, togliendogli ogni libertà. Leggi tutto “La “cittadinanza” nello scenario europeo”

La “cittadinanza” nello scenario europeo

La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (1ª parte)

Secondo il dizionario della lingua italiana la cittadinanza è “l’appartenenza del singolo ad una società organizzata a Stato” o, più specificatamente, secondo la giurisprudenza è la condizione della persona fisica alla quale viene riconosciuta la pienezza dei diritti civili e politici dall’ordinamento giuridico di uno Stato. Eppure la definizione del termine cittadinanza è molto più complessa poiché con essa non si definisce soltanto uno status del cittadino o un mero rapporto giuridico.

Se la si considera da un punto di vista sociologico la sua definizione ha avuto da sempre un ruolo importantissimo nella creazione dei rapporti e degli equilibri interni ad uno Stato. Grazie al diritto di cittadinanza una persona fisica non solo sa di essere titolare di diritti e doveri e di partecipare attivamente alla vita pubblica del proprio stato, ma attraverso di esso costruisce la propria identità in quanto membro di una comunità.

Occorre dunque indagare alcuni nodi fondamentali intorno a questo concetto, prendendo le mosse da un problema attuale e più che mai urgente: come poter spiegare ai bambini di oggi il significato non solo di essere cittadini per diritto, ma di agire come tali, allargando l’orizzonte sul piano europeo. Lo scopo di questa ricognizione storica non vuole essere l’analitico racconto delle tappe essenziali, portatrici di uno specifico concetto di cittadinanza, ma quello di cogliere alcuni passaggi rilevanti per una comprensione più vicina alle problematiche attuali.

Il discorso sulla cittadinanza, sull’identità e sull’appartenenza, in Europa e nel mondo, assume una particolare connotazione; si tratta di un processo complesso che mira ad allargare il concetto di “nazionalità” in un panorama in cui le identità storiche delle singole nazioni si sono trovate coinvolte in processi più ampi di globalizzazione e internazionalizzazione. Il dibattito che ne è scaturito ha dato vita ad una molteplicità di definizioni e di analisi, di critiche e suggerimenti.

Il giurista e filosofo Danilo Zolo ha riassunto tali definizioni e le ha ricondotte a due significati distinti. Uno è quello che lui definisce teorico-politico: cittadinanza designa lo status sociale di cittadino e cioè il complesso delle condizioni politiche, economiche e culturali che sono garantite a chi sia, a pieno titolo, membro di un gruppo sociale organizzato. In questo caso il termine cittadino si oppone, prima ancora che a quello di straniero, a quello di suddito (o, più anticamente, di meteco, schiavo, servo, etc). Il cittadino, a differenza del suddito, è titolare di diritti civili e politici (nel nostro secolo anche di diritti sociali) ed è in linea di massima legittimato a farli valere anche nei confronti dell’autorità politica.

Il secondo significato viene definito giuridico: cittadinanza designa uno status normativo, e cioè l’ascrizione di un soggetto, per connessioni territoriali, per legami di parentela, per libera opzione, etc., all’ordinamento giuridico di uno Stato. In questa accezione formale il termine cittadino si oppone oggi, nel diritto interno come in quello internazionale, esclusivamente a quello di straniero o di apolide. Il tema della cittadinanza riguarda in questo caso le situazioni giuridiche o di fatto che ciascun Stato definisce, sotto i profili distinti del diritto privato e del diritto pubblico, come condizioni per il possesso, l’acquisto o la perdita della qualità di cittadino e della titolarità dei diritti e dei doveri connessi a tale qualità.

Pur essendo distinti, questi due significati sono stati costruiti a partire dal medesimo principio di fondo, quello della nazionalità. Il processo di identificazione tra Stato e nazione, pur parendo naturale e radicato già da tempo nella nostra cultura, si è sviluppato invece in tempi piuttosto recenti ed è scaturito dagli eventi del XVIII secolo: la Rivoluzione Francese e quella industriale. Grazie alla diffusione di nuovi principi e al crearsi di nuovi panorami politici, economici e sociali, il concetto di cittadinanza si è affermato come principio universale e si è contrapposto ai rapporti di sudditanza feudali.

Le maggiori possibilità economiche e sociali dei cittadini hanno permesso inoltre la rottura con i legami e i vincoli, imposti dall’appartenenza ad una determinata classe sociale, e hanno creato le condizioni per far crescere il sentimento di appartenenza, facendo sì che si identificasse con il concetto di nazione. Il diritto di cittadinanza è venuto perciò a rappresentare un vero e proprio patto tra i cittadini e lo Stato democratico moderno e una garanzia di solidarietà interna alla comunità oltre che di identità collettiva. Lo Stato ha così assunto il ruolo di garante dell’identità culturale unitaria, mentre i cittadini hanno interiorizzato questa costruzione fondata sulla condivisione di lingua, memoria storica, razza e religione ed entro le frontiere che racchiudono lo spazio fisico di uno stato, si è venuta a creare l’idea di un “Noi” omogeneo e solidale.

Tuttavia è proprio in questa idea di “Noi” che si nasconde la prima contraddizione insita nella nuova concezione di cittadinanza: il carattere universalistico dei valori su cui si sono fondate la legittimità degli Stati democratici e l’insieme di diritti e di doveri dei soggetti sono venute a scontrarsi con l’esclusività dell’appartenenza nazionale. Se questi valori sono patrimonio di tutta l’umanità, non si dovrebbero tracciare confini al loro interno, eppure la separazione è già implicita nella distinzione tra “cittadini” e “stranieri”.

Il recente fenomeno della globalizzazione e i cambiamenti che si stanno verificando nell’assetto politico e culturale del mondo contemporaneo hanno messo in luce questa contraddizione e il concetto stesso di cittadinanza è stato messo in discussione. Si tratta di trasformazioni talmente radicali da mutare il complesso di coordinate spaziali, temporali, istituzionali e culturali che, sino ad ora, hanno rappresentato un referente stabile per i soggetti nella progettazione della propria esperienza e nella definizione della propria identità, non solo collettiva, ma anche individuale.

Rimini “Meeting 2018”: l’istruzione rende l’uomo felice?

Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca dott. Marco Bussetti dialoga e risponde alle domande di alcuni operatori del mondo della scuola
Il meeting di Rimini ospita da sempre i Ministri della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana e dialoga con loro. Quest’anno sarà un professore di storia e filosofia, il dott. Bonfanti del Liceo “Donatelli – Pascal” di Milano, a introdurre il Ministro che un tempo ricopriva la carica di Provveditore provinciale di Milano ed è entrato spesso in contatto con quelle che sono le reali problematiche del mondo della scuola. Lo descrive come uomo di grande umanità capace di entrare in contatto e farsi provocare dalle realtà che incontrava nel suo cammino professionale.

Una realtà che sin da subito è stata ricordata è Portofranco, un’eccellenza nel panorama milanese di quello che è stato il genio pedagogico che è don Giorgio Pontigia. Per chi non lo conoscesse Portofranco è un’istituzione presente sul territorio milanese da 18 anni e ormai estesa in tutto il panorama italiano; è una realtà libera di aiuto allo studio, di incontro di ragazzi a partire da un supporto educativo e didattico-metodologico fondato e sostenuto dalla gratuità di centinaia di volontari adulti universitari e anche studenti delle scuole medie superiori che restituiscono cosa loro hanno ricevuto. Enzo Iannacci definì Portofranco come “Luogo pieno di luci, giovani e mistero” (2 dicembre 2011).

La prima domanda l’ha rivolta il prof. Bonfanti: cosa lo ha colpito di Portofranco?

Ministro: “Portofranco vuole essere la risposta a quello che è il disagio giovanile; spesso nell’adolescenza si vivono momenti di crisi, talvolta i ragazzi hanno paura di questo disagio e non sanno trovare la giusta chiave di lettura per comprendersi. Ma dalle crisi possono nascere nuove opportunità e quel momento di “caos interiore” può trasformarsi in volano. La crisi può penalizzare le reali capacità di questi ragazzi rispetto alla ricchezza interiore di ognuno, che in quel momento non emergono perché il caos ha predominato. A Portofranco si ha un approdo sicuro e una certezza granitica di trovare persone specializzate e competenti, che dedicano il loro tempo e si prendono cura con amore, passione, attenzione e ricerca del successo e del risultato nei confronti di ragazzi che vengono a chiedere aiuto. Questi ragazzi superano la loro crisi, raggiungono risultati, proseguono i loro studi, si laureano, tornano a Portofranco e vogliono restituire ciò che hanno ricevuto. È una forma di riconoscenza, amore e restituzione nei confronti di quegli adulti che hanno creduto in loro e voler restituire il bene che si è ricevuto.”

Matteo Sama, studente presso ITC di Bologna in quarta, e Presidente della Consulta della provincia di Bologna, ha raccontato la sua esperienza nel mondo delle Scuole superiori dove è emersa una criticità grossa sull’uso degli stupefacenti in ambito scolastico e ha posto la seguente domanda: Come si possono valutare i docenti che insegnando si impegnano con il “cuore” dei propri studenti?

Il Ministro sorride e sostiene come il tema della valutazione in Italia sia molto delicato sotto tutti i profili; mostrando il suo lato paterno, esordisce dicendo che quando sua figlia arriva a casa con un voto scolastico lui le dice sempre “Il voto non l’hai preso tu ma il tuo compito”, valuta cioè una prestazione circoscritta e non è un giudizio di valore sulla persona.

Sono le persone con le quali la scuola quotidianamente si confronta, ma occorre fare una premessa: il sistema, l’organizzazione prevede tutta una serie di figure che lavorano affinchè la macchina amministrativa funzioni al meglio e permetta che si avvii l’anno scolastico per tempo e nel migliore dei modi. Questi sono il personale amministrativo delle scuole, i dirigenti scolastici, le persone che occupano i posti nei vari uffici provinciali e regionali. Parlare di valutazione rispetto ai docenti è un tema urgente poiché alla fine dello scorso anno scolastico sono arrivati dei fondi che i dirigenti dovevano distribuire ai docenti meritevoli.

Il ministro ritiene che una persona se deve essere valutata, deve sapere su che cosa avviene la sua valutazione e ha chiesto da subito un incontro con i sindacati, che si sono dimostrati collaborativi al massimo e insieme hanno determinato da subito, entro settembre 2018, quali saranno gli indicatori e gli obiettivi per i quali tutti, docenti di ruolo e non, verranno valutati, di modo che ci sia una valutazione vera. È utile suggerire anche gli aspetti che un docente dovrebbe avere innati, ma che comunque si possono anche costruire e che sono legati a una sensibilità, un’attenzione alle persone che permetta di seguire in modo personalizzato ogni singolo alunno/a: una forza esterna che viene da un docente altamente motivato e appassionato della sua professione, rigenera un processo che agisce sulla motivazione intrinseca ed estrinseca del docente e genera una forza propulsiva e ridona motivazione, autostima; dare senso di appartenenza deve esser uno degli obiettivi della scuola insieme a una formazione allargata e più olistica.

Occorre valorizzare di più le attitudini piuttosto che le capacità, spesso si è focalizzati su quello che un individuo sa fare e quindi può esserci una deriva a un giudizio personale alla persona, ecco perché occorre valorizzare di più le attitudini, per evitare una valutazione sulla persona. L’atteggiamento pedagogico deve rifarsi a Rosmini che diceva che “I ragazzi non hanno diritto ma sono il diritto” e quindi vanno “amati”: è questa la parola magica da usare sempre in qualsiasi relazione; empatia, affetto, comunicazione, scambio di opinioni, conoscenza, in tal modo io posso aver forse un po’ di presunzione di giudicare la persona e non solo un compito.

La terza domanda è stata posta da Lidia, una docente di matematica in un Istituto tecnico professionale in una classe composta da 31 alunni, la quale ha descritto la situazione talvolta problematica che si viene a creare, in ambienti di frontiera, nell’attirare l’attenzione di ragazzi, spesso pluriripetenti, che presentano forti criticità in famiglia e che rivelano un forte disagio sociale a cui la scuola è chiamata a farsi carico. Questa la domanda: Osservando le difficoltà che talvolta presentano i ragazzi, la mancanza di strumenti e la presenza di classi numerose, quali possibilità concrete ci sono per gestire in modo adeguato le risorse presenti e incrementarle e nel gestire queste risorse quali realtà e quali aspetti a suo giudizio sono da valorizzare? Da dove partire? In secondo luogo, a carattere più tecnico, riguardo il decreto delegato 61/2017, quali modifiche apporta il nuovo decreto di riforma di istruzione professionale; se da un lato lo scopo è quello di raccordare i percorsi di istruzione professionale e di formazione e insieme preservarne la distinzione, mi chiedo che cosa caratterizza e cosa si vuole preservare dell’istruzione professionale rispetto ai percorsi regionali di formazione?

Per il Ministro le strategie didattiche, educative e metodologiche devono essere patrimonio di un consiglio di classe, di un dipartimento. Le statistiche ci dicono che le nostre classi hanno una media di 21, 2 alunni per classe nelle scuole statali, la classe numerosa è un tema che spesso emerge e che deve essere affrontato.

I percorsi di formazione nascono negli anni ’50 insieme agli Istituti tecnici, nell’immediato dopoguerra, dove le nostre industrie stavano ripartendo e avevano necessità di manodopera maggiormente specializzata. Erano funzionali a un processo di crescita e di industrializzazione, oggi abbiamo un potenziale umano pronto a esprimersi nelle attività STEM, abbiamo  ragazzi SMART pronti a reagire, e quindi gli istituti  professionali possono avere un ruolo fondamentale nella crescita del percorso.

Valorizziamo  le attitudini dei ragazzi, le loro potenzialità e soprattutto è importante che le scuole, in questo momento storico particolare, debbano tornare a esser fulcro della formazione dei ragazzi, dandosi una vera identità e senso di appartenenza forte; mai come in questo momento storico c’è bisogno di questo.

Le scuole professionali sono importanti e ancora più importanti sono la ricerca e le buone pratiche didattiche, non da custodire gelosamente, ma da divulgare. Gli indirizzi professionali sono passati da 6 a 11 per cui occorre che la collegialità intervenga in maniera forte e che un approccio didattico di tipo laboratoriale, incentrato sulle nuove pratiche didattiche, possa essere il leitmotiv per questi ragazzi.

Il passaggio dalle scuole regionali a quelle professionali è previsto dal nostro sistema di formazione come una prosecuzione verso il futuro e non deve mancare un aggancio vero con il mondo dell’imprenditoria delle aziende, delle industrie di modo che i ragazzi vedano davanti a loro un futuro concreto, reale, un aggancio tra il mondo della formazione didattica, che diventa sinergica con il mondo dell’impresa: è un legame che diventa vincente, che può produrre sicuramente dei risultati che vedremo fra qualche anno ma andranno a soddisfare i bisogni dei nostri studenti e la loro piena realizzazione.

La quarta domanda è posta dal presidente di una scuola paritaria di Modena il dott. Silvio Vitella, il quale dopo aver introdotto la situazione della scuola in cui è presidente ha posto le seguenti domande: Quali prospettive si possono immaginare per le scuole paritarie nel sistema nazionale di istruzione? E la seconda di carattere più tecnico riguarda il reclutamento e l’assunzione di docenti abilitati: quando si attiveranno i percorsi perché i giovani laureati possano ottenere la specializzazione all’insegnamento o altro titolo utile per insegnare nella scuola secondaria?

Il Ministro sostiene che le scuole paritarie sono parte integrante del sistema di istruzione nazionale poiché è a conoscenza della situazione delle scuole paritarie, essendo stato per anni responsabile di tutte le scuole paritarie della Lombardia. Queste sono regolate dalla legge 62 del 2000 che prevede tutta una serie di adempimenti, caratteristiche particolari, e soprattutto raccomandazioni di tipo organizzativo e legislativo, per ottenere e mantenere la parità e tra queste c’è il fatto che ci devono essere docenti abilitati.

Negli ultimi anni la Buona Scuola ha creato un reclutamento nuovo che ha condizionato la vita di migliaia di persone sradicandole dal proprio territorio, creando molti disagi in persone e famiglie, con un contenzioso che ancora oggi occupa parte del tempo dei funzionari del nostro ministero e che non è ancora risolto, ha prosciugato queste graduatorie ad esaurimento.

Le scuole paritarie si trovano a perdere docenti che vengono messi in ruolo nello Stato e a doverne ricercare altri e non trovarli; è un tema che, come quello dei rapporti e del sistema di istruzione, ha ben chiaro, come Ministro e dovrà sicuramente affrontarlo con serietà e ri-normarlo. È evidente però che le scuole paritarie devono avvicinarsi sempre più agli standard di qualità delle scuole statali. La scuola paritaria è una ricchezza e il ministero cercherà di tutelarla e valorizzarla in tutti i modi.

L’ultima domanda è posta dal Dirigente scolastico di un IC di Busto Arstizio il dott. Paolo Maino il quale dopo aver definito la scuola come “Comunità educante”, dove ciascun individuo apporta il suo contributo, ha posto la seguente domanda: “Cosa intende fare oggi il ministero e che indicazioni intende dare per avviare un processo di reale e concreta realizzazione di quell’autonomia della comunità educativa che è indicata nel DPR 275 del regolamento dell’autonomia?”

Il Ministro risponde dicendo che la parola autonomia non significa autodeterminazione ma avere un’istituzione o soggetto in grado di negoziare con e per il territorio. Questo dovrebbe essere il vero scopo dell’autonomia scolastica che in questi anni si è realizzato; si sono fatti passi avanti, c’è un regolamento del ’99, letto con una certa propensione verso il futuro, ancora per certi aspetti molto attuale.

È evidente che una revisione del Testo Unico è essenziale, poiché è ancora più antico e al suo interno occorre rivedere tutta quella che è la gestione degli organi collegiali, ma alla base dell’autonomia deve esserci il principio dell’identità: la scuola deve tornare a essere il fulcro della formazione degli individui e l’autonomia, da questo punto di vista, la può favorire dando senso di appartenenza, presupponendo un’ampiezza di sguardo verso il futuro, grande sinergia con il territorio e con gli attori che vivono la scuola.

Il DS è vero che è diventato un po’ un burocrate, basti considerare la legge 165 art. 25. Ha anche il compito di diventare l’elemento trainante e necessario per fare sintesi tra quello che è un bisogno di un territorio e quelle che sono le sue potenzialità.

Il lavoro di tanti DS, dal punto di vista dell’autonomia, si è visto in questi anni e tutti hanno fatto un ottimo lavoro. Il DS ha bisogno di avere qualcuno intorno che lo sostenga, è una figura sola al comando e ha necessità di uffici amministrativi che lo sostengano, degli enti e delle istituzioni che gli siano vicini, e di trasmettere la sua visione di impostazione di un Piano dell’offerta formativa che ha condiviso con gli organi collegiali di riferimento. Sono materie che andranno sicuramente affrontate e riviste, dico questo forte dell’esperienza che ho vissuto in prima persona.

La figura del DS per quanto riguarda l’autonomia è il cardine, è fondamentale, il suo ruolo è una responsabilità diretta su tutti: in futuro occorrerà un controllo degli obiettivi che dovranno essere condivisi all’inizio, trasparenti e valutati alla fine.

Si confondono molto le competenze con gli obiettivi oggi; ciò che deve partire è un piano della performance vera dall’amministrazione centrale poi declinato nelle singole realtà per poter offrire un punto di riferimento importante alle istituzioni scolastiche da mantenere un giusto taglio all’autonomia che è un valore che va conservato e preservato poiché contenuto nella nostra carta costituzionale e visto che il prossimo anno saranno 20 anni dalla legge del ’99 apriremo una proficua riflessione e daremo una rinfrescata a questa legge tenendo ben presente il valore che racchiude l’autonomia, custodita anche nella nostra Carta Costituzionale.

Bisogni educativi speciali ed inclusione scolastica

Introduzione

Il 27 dicembre 2012 è stata diramata la Direttiva concernente gli “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”, che delinea e precisa la strategia inclusiva della scuola italiana, al fine di realizzare il diritto all’apprendimento per tutti gli studenti in situazione di difficoltà e disagio.

Con la C.M. n. 8 del 6 marzo 2013 sono state, poi, diramate le “Indicazioni operative”.

La nuova Direttiva ministeriale definisce le linee del cambiamento per rafforzare il paradigma inclusivo attraverso

  • Potenziamento della cultura dell’inclusione
  • Approfondimento delle competenze di politiche di inclusione per gli insegnanti curricolari
  • Nuovo modello organizzativo nella gestione del processo di integrazione scolastica e di presa in carico dei BES da parte dei docenti (PDP).

A partire da queste indicazioni generali, tentiamo un’analisi più attenta sull’attuale situazione in cui versano diverse istituzioni scolastiche alle prese con emergenti problematiche, relative a situazioni di disagio che i bambini portano con sé e che richiedono una particolare attenzione nonché un supporto positivo affinché si possano superare con professionalità e vero senso di umanità.

I “BES” chi sono?

Con l’abbreviazione BES si fa riferimento ai Bisogni Educativi Speciali, in modo particolare, a tutti quegli alunni che presentano delle difficoltà che prevedono interventi individualizzati. Il termine “speciale”, soprattutto quando ci si riferisce alla disabilità, potrebbe far pensare a qualcosa di diverso dal cosiddetto “normale”, per questo motivo riconducibile a qualcosa di negativo, che ha bisogno di sostegno, a qualcosa che non sembra essere nella norma e che presenta qualche aspetto deficitario.

Considerando il rovescio della medaglia, potremmo, però, reputare “speciale” tutto ciò che ha bisogno di competenze e risorse migliori, più efficaci, speciali appunto. In linea di massima questi risultano essere i diversi bisogni fondamentali:

  • Difficoltà di apprendimento: DSA, deficit attentivo con o senza iperattività, disturbi di comprensione, difficoltà visivo-spaziali, motorie, goffaggine.
  • Difficoltà emozionali: timidezza, collera, ansia, inibizione, depressione, disturbi della personalità, psicosi.
  • Difficoltà comportamentali: aggressività, bullismo, disturbi del comportamento alimentare, disturbi della condotta, oppositività, delinquenza, uso di droghe.
  • Ambito relazionale: isolamento, passività, eccessiva dipendenza.
  • Ambito familiare: famiglie disgregate, in conflitto, trascuranti, con episodi di abuso, maltrattamento, con esperienze di lutto o carcerazione. Difficoltà sociali, economiche, culturali, linguistiche.

Proprio in questa prospettiva si colloca il pensiero di Dario Ianes, secondo il quale i normali bisogni educativi che tutti gli alunni esprimono (bisogno di sviluppare competenze, bisogno di appartenenza, di identità, di accettazione, ecc.) si “arricchiscono” nella persona disabile, o comunque con difficoltà di apprendimento, di qualcosa di particolare, ossia di speciale. Avere Bisogni Educativi Speciali non significa necessariamente avere una diagnosi medica e/o psicologica, ma, come si accennava sopra, essere in una situazione di difficoltà o disagio e ricorrere ad un intervento mirato, personalizzato.

Rispetto alla diagnosi di una malattia la valutazione dei “Bisogni Educativi Speciali” non deve essere dunque discriminante per tre motivi fondamentali: anzitutto fa riferimento ad un’ampia gamma di bisogni, poi non riguarda solo cause specifiche e infine indica che il bisogno o i bisogni non sono stabili e fissi nel tempo, ma possono venire meno o addirittura essere superati.

Si potrebbe dire che questo concetto riguarda ciascuno di noi perché chiunque potrebbe incontrare nella propria vita situazioni che gli creano Bisogni Educativi Speciali: per tale motivo è doveroso rispondere in modo serio e adeguato a questo recente problema che attualmente riguarda una percentuale del 10-15 % degli alunni che non possiedono una certificazione medica, ma che necessitano di attenzione e di interventi mirati. Nelle scuole vivono sia alunni con Bisogni Educativi Speciali con diagnosi psicologica e/o medica sia alunni con Bisogni Educativi Speciali senza diagnosi.

Nel primo caso le categorie diagnostiche si riferiscono al DSM-IV e all’ICD-10. Vi rientrano il ritardo mentale, i disturbi generalizzati dello sviluppo, il disturbo artistico, i disturbi dell’apprendimento, i disturbi di sviluppo della lettura, i disturbi di sviluppo del calcolo, i disturbi di sviluppo dell’espressione scritta, i disturbi di sviluppo dell’articolazione della parola, i disturbi di sviluppo del linguaggio espressivo, i disturbi di sviluppo nella comprensione del linguaggio, i disturbi del comportamento, i disturbi da deficit di attenzione e iperattività, i disturbi della condotta, il disturbo oppositivo-provocatorio e infine vi sono le patologie che riguardano la motricità, quelle sensoriali, neurologiche o riferibili ad altri disturbi organici.

Nel secondo caso, invece, rientrano tutti quegli alunni che non corrispondono perfettamente ai parametri sopra citati, perché la loro situazione pare meno precisa e più sfumata. Questa tipologia di alunni è però presente e abita la scuola anche in modo piuttosto considerevole.

Una scuola più inclusiva

Questa tipologia di alunni che vive nella scuola rappresenta l’immagine speculare di come la società sia diventata multi-etnica e multi-culturale. È diventato normale incontrare e convivere con persone di nazionalità, lingue e culture diverse; da parte sua la scuola dell’obbligo accoglie studenti con esperienze, disagi, difficoltà diverse, a cui è necessario offrire delle risposte personalizzate. Inoltre il mondo, le persone, i bambini e i ragazzi stanno modificando i loro stili di apprendimento, di gestione delle informazioni grazie alle nuove tecnologie e di conseguenza il mondo del lavoro, delle relazioni interpersonali si è modificato.

Il termine inclusione rappresenta un vero e proprio modello relazionale, portatore di un cambiamento radicale e importante. Includere significa inserire, portare dentro la scuola tutte le nuove realtà e i bisogni espressi e presenti nella nuova realtà sociale e di vita del mondo, dell’Italia, del Comune, del quartiere, del territorio.

Inclusione significa dunque che la scuola nel suo modello organizzativo e di programmazione, è chiamata a considerare seriamente queste realtà e situazioni di vita. Di fronte a tale sfida educativa, i docenti possono avere a disposizione strumenti, metodologie e strategie adeguate per rilevare queste realtà, per impostare il piano di lavoro e per attuare il processo di inclusione.

I docenti, nell’organizzare le attività scolastiche, dovranno tener conto di alcune fondamentali strategie: saper osservare e valutare con attenzione gli alunni di ogni classe, tramite l’ausilio di specifici e scientifici strumenti di osservazione. Possedere anche una conoscenza approfondita del territorio di residenza degli alunni che frequentano la scuola.

La differenza tra inclusione ed integrazione

Più che parlare di differenza sarebbe meglio considerare il passaggio da integrazione a inclusione che si basa non certamente sulla misurazione della distanza da normalità/standard, ma sul processo di piena partecipazione e sul concetto di equità.

Per fare questo occorre ampliare il proprio campo visuale in quanto l’inclusione richiede una maggiore considerazione delle differenze al plurale e quindi degli alunni e della classe in cui si opera. L’intervento inclusivo avrà il compito di rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo e l’equo apprendimento. La scuola inclusiva pertanto promuove l’apprendimento di tutti gli alunni e non si limita alla semplice accoglienza e inserimento di casi particolari, come potrebbe significare l’integrazione in senso semplicistico, ma spesso reale.

Alla luce di queste considerazioni, i nuclei in cui si concentrano le differenze tra il modello dell’integrazione e quello dell’inclusione, risultano i seguenti:

  • La risorsa fondamentale su cui si regge il modello dell’integrazione è la figura dell’insegnante di sostegno. Per quanto la normativa stabilisca che si tratti di risorsa finalizzata a promuovere differenziati processi di integrazione rivolti alla classe, ancora oggi tale figura professionale viene considerata e vissuta come “l’insegnante dell’alunno certificato”. Nella scuola inclusiva, viceversa, si offre la garanzia che tutti gli insegnanti siano ben formati e si sentano in grado di prendersi la responsabilità di tutti gli studenti, qualunque siano le loro esigenze personali;
  • La normativa in materia d’integrazione prevede che la risorsa “insegnante di sostegno” sia resa disponibile alla scuola solo nei casi in cui è presente in classe almeno un alunno con “certificazione di handicap”. Nella scuola inclusiva, la risorsa dell’insegnante specializzato viene concepita come risorsa di sistema. Dal rapporto di studio dal titolo “Organizzazione del Sostegno per gli Insegnanti che Lavorano con i Bisogni Speciali nell’Educazione Comune”, emerge la necessità che il sostegno non vada solamente centrato sull’alunno in quanto richiede di essere indirizzato anche agli insegnanti curriculari con l’obiettivo di aiutarli a migliorare specifiche abilità di trattamento e gestione dei bisogni educativi speciali presenti nelle classi.

La distinzione tra insegnanti “ordinari” (senza una formazione specifica sui temi dell’inclusione) e insegnanti “specializzati” (con titolo di specializzazione per il sostegno) ha generato nell’ambito del contesto classe inevitabilmente la divisione tra alunni “normali” e alunni cosiddetti “speciali”.

Di fatto, la realtà risulta assai più complessa e variegata, soprattutto se si guarda al mondo della scuola oggi. Qui ci si rende conto, quasi come un gioco di parole, che gli alunni speciali hanno anche bisogni normali e che anche gli alunni normali possono avere bisogni educativi speciali. Non considerare tale condizione porta a credere che anche le soluzioni ai problemi possano seguire la medesima logica, ovvero per gli alunni speciali soluzioni straordinarie, mentre per gli alunni normali soluzioni ordinarie.

La logica dell’inclusione richiede di transitare dall’idea di una scuola che incarna un sistema duale unificato (nella stessa classe convivono senza interazioni reciproche la programmazione disciplinare di classe e il Piano Educativo Individualizzato per l’allievo/gli allievi in difficoltà), all’idea di una scuola a sistema unico (in cui la classe identifica un gruppo di allievi naturalmente eterogeneo, e le differenze si convertono nel modus vivendi naturale dei processi d’aula).

Lo stesso concetto viene ribadito nel documento Linee Guida dell’UNESCO del 2009, in cui si afferma che “La scuola inclusiva è un processo di fortificazione delle capacità del sistema di istruzione di raggiungere tutti gli studenti. […] Un sistema scolastico ‘incluso’ può essere creato solamente se le scuole comuni diventano più inclusive. In altre parole, se diventano migliori nell’educazione di tutti i bambini della loro comunità”.

In sintesi, il modello dell’inclusione, non si limita alla semplice attuazione di un sistema di attenzione assistenziale privilegiata del più debole, quanto nella modifica e nel cambiamento dei contesti, con l’obiettivo di generare le medesime opportunità di sviluppo per chi vive particolari situazioni di disagio che si esplicano in uno stato di bisogno educativo speciale. In assenza di risposte specifiche, infatti, tali situazioni di bisogno mutano in limitazioni alle attività e in restrizioni della partecipazione sociale.

La struttura del modello dell’integrazione non risulta idonea ad affrontare le problematiche con cui la scuola oggi si confronta, in particolare il dato del costante aumento all’interno delle classi di alunni che, seppur privi di “certificazione di handicap”, presentano difficoltà legate ad una variegata gamma di bisogni educativi speciali. Il fenomeno richiede una nuova filosofia di non solo di pensiero ma soprattutto di azione, partendo da un cambiamento nel sistema di valutazione e da una presa in carico dei bisogni educativi secondo l’ottica di una scuola aperta a tutti.

Il Cooperative learning: metodologia efficace ed efficiente per alunni con Bisogni Educativi Speciali?

Il Cooperative Learning costituisce una metodologia complessiva di insegnamento e di gestione della classe attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso. In questo contesto l’insegnante assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività, strutturando “ambienti di apprendimento” nei quali gli studenti, favoriti da un clima relazionale positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo di “problem solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo personale di tutti, ovviamente anche degli alunni definiti BES.

Tali obiettivi possono essere conseguiti se all’interno dei piccoli gruppi di apprendimento gli studenti sviluppano determinate abilità e competenze sociali, intese come un insieme di abilità interpersonali e di piccolo gruppo indispensabili per sviluppare e mantenere un livello di cooperazione qualitativamente elevato. Tale metodo si distingue sia dall’apprendimento competitivo che dall’apprendimento individualistico e, a differenza di questi, si presta ad essere applicato ad ogni compito, materia e curricolo. Il lavoro di gruppo non è una novità nella scuola, ma la ricerca dimostra che gli studenti possono anche lavorare insieme senza trarne profitto. Può infatti accadere che essi operino insieme, ma non abbiano alcun interesse né soddisfazione nel farlo. Nei gruppi di apprendimento cooperativo, invece, i bambini si dedicano con piacere all’attività comune, si sentono e sono realmente protagonisti di tutte le fasi del lavoro, dalla pianificazione alla valutazione. I cinque elementi che rendono efficace la cooperazione sono:

  1. l’interdipendenza positiva, per cui gli alunni si impegnano per migliorare il rendimento di ciascun membro del gruppo, non essendo realizzabile il successo individuale senza il successo collettivo.
  2. La responsabilità individuale e di gruppo: quest’ultimo è responsabile del raggiungimento degli obiettivi ed ogni membro è responsabile del proprio contributo.
  3. L’interazione costruttiva, ovvero gli studenti sono chiamati a relazionarsi in maniera diretta per lavorare, promuovendo e sostenendo gli sforzi di ciascuno e congratulandosi a vicenda per i successi ottenuti
  4. La realizzazione di abilità sociali specifiche e necessarie nei rapporti interpersonali all’interno del piccolo gruppo: gli alunni si impegnano nei vari ruoli richiesti dal lavoro e nella creazione di un clima di collaborazione e fiducia reciproca. Particolare importanza in quest’ambito rivestono le competenze di gestione dei conflitti, ossia le competenze sociali che richiedono un insegnamento specifico.
  5. La valutazione di gruppo che osserva con sguardo critico il proprio modo di lavorare e si pone degli obiettivi di miglioramento.

Come si applica nel contesto classe? Perché?

Nel contesto del lavoro in classe, sembra dunque necessario adottare degli stili di insegnamento-apprendimento che possano consentire in particolare agli alunni BES di poter imparare con gli altri senza alcuna differenza sostanziale. Tutto questo può avvenire solo nel momento in cui i docenti saranno in grado di: non sostituirsi mai agli alunni, ma aiutarli ad organizzarsi, mostrarsi incoraggianti e ottimisti sulle loro capacità, dunque limitando il più possibile inutili rimproveri. Promuovere esperienze positive di socializzazione, cercando anche di rivedere, oltre che gli obiettivi di apprendimento, anche gli obiettivi comportamentali ed adattivi.

Le metodologie e strategie didattiche dovranno dunque essere volte a:

  • ridurre al minimo i modi tradizionali “di fare scuola” (lezione frontale, completamento di schede che richiedono ripetizione di nozioni o applicazioni di regole memorizzate, successione di spiegazione – studio – interrogazioni…)
  • favorire attività nelle quali i ragazzi vengano messi in situazione di confronto cognitivo con se stessi e con gli altri, dove ciascuno ricopre un ruolo specifico e di fondamentale importanza per il conseguimento dell’obiettivo finale;
  • sfruttare i punti di forza di ciascun alunno, adattando i compiti agli stili di apprendimento degli studenti e offrendo varietà e opzioni nei materiali e nelle strategie d’insegnamento;
  • utilizzare mediatori didattici diversificati (mappe, schemi, immagini).

Lo scopo di queste strategie sarà essenzialmente rivolto alla partecipazione attiva degli alunni, stimolando il recupero delle informazioni tramite il brainstorming, insegnando a collegare l’apprendimento alle esperienze e alle conoscenze pregresse. Nel contempo favorire l’utilizzazione immediata e sistematica delle conoscenze e abilità, mediante attività di tipo laboratoriale e sollecitare la rappresentazione di idee sotto forma di mappe da utilizzare come facilitatori procedurali nella produzione di un compito. Infine grande importanza riveste il puntare tutto il lavoro sulla motivazione ad apprendere.

Per fare questo occorre dunque che il docente sia capace di essere molto chiaro nel dare istruzioni, evitando troppo informazioni alla volta, di strutturare l’aula e la lezione sottolineando sempre l’importanza della partecipazione attiva da parte degli alunni che si possano sentire protagonisti del processo educativo e non solo semplici recettori di sterili informazioni. Agire sull’autostima dei bambini è una delle carte vincenti per consentire oggi un nuovo modo di apprendere sintetizzabile nello slogan “imparare ad imparare”.

Un metodo efficace al fine dell’inclusione

Rispetto ad un’impostazione del lavoro che si potrebbe definire tradizionale, il Cooperative Learning presenta alcuni innegabili vantaggi: anzitutto produce migliori risultati da parte degli alunni, i quali lavorano più a lungo sul compito assegnato, perfezionando la motivazione intrinseca e sviluppando maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico. In secondo luogo si instaurano relazioni più positive tra i bambini, i quali sono coscienti dell’importanza dell’apporto di ciascuno al lavoro comune e sviluppano pertanto il rispetto reciproco e lo spirito di squadra.

Infine, si registra maggiore benessere psicologico: gli studenti sviluppano un maggiore senso di autoefficacia e di autostima, sopportando meglio le difficoltà e lo stress. Quest’ultimo vantaggio risulta di grande valore soprattutto nei confronti di bambini che rientrano nella macro-categoria dei BES. L’efficacia della metodologia cooperativa è confermata inoltre dal supporto di alcuni comportamenti e valori specifici, che facilitano la partecipazione attiva anche da parte dei BES coinvolti.

All’interno di questo quadro generale, le diverse interpretazioni del principio di interdipendenza e delle variabili più rilevanti nell’apprendimento (interazione, motivazione, compito e ruolo dell’insegnante) hanno originato lo sviluppo di diverse correnti o modalità di Cooperative Learning. Alcuni aspetti del Cooperative Learning sono ancora oggi oggetto di discussione e di approfondimento, tra questi ricordiamo: la situazione dei più dotati, l’inserimento di alunni con handicap grave, le modalità in relazione a specifici obiettivi trasversali, la possibilità di sviluppare questo metodo combinandolo con altri e con l’uso delle nuove tecnologie, non da ultimo la sfida dei BES e il loro apprendimento. Risulta importante che anche in Italia questa metodologia continui ad essere approfondita, studiata e implementata e che non diventi un metodo educativo e innovativo che prima crea entusiasmo e poi viene presto accantonato per una presunta inefficacia dovuta più a un’inadeguata applicazione che non al metodo in sé.

Considerazioni finali

In conclusione, riflettendo sulla sfida attuale dei BES, sembra che agli insegnanti possano essere affidate alcune funzioni fondamentali per intervenire dando risposte individualizzate e per studiare metodologie e strategie di insegnamento utili da attuare per gestire situazioni problematiche sempre più variegate. La prima funzione è quella di istruire, cioè di aiutare in particolare gli alunni BES ad acquisire padronanza di abilità e di conoscenze disciplinari. La seconda è quella di condurre la classe, cioè di definire regole e procedure, tenendo costante l’attenzione e la partecipazione durante la lezione. Infine i docenti sono chiamati a far socializzare gli studenti e a mantenere un buon clima di classe.

Spesso succede che non tutti gli alunni reagiscano in maniera positiva agli interventi di istruzione, gestione della classe o socializzazione e che sia necessario un lavoro suppletivo, che richiede ulteriori abilità. Sono dunque necessarie la capacità di analizzare la situazione, di decodificare le diagnosi dei diversi specialisti, di condurre interviste anche con i genitori, finalizzate a raccogliere le informazioni utili alla costruzione di un piano di intervento. Ma prima ancora è essenziale la disponibilità ad accorgersi che esiste un problema e che su quest’ultimo è possibile intervenire efficacemente, anche se risulta difficile.

Risulta di vitale importanza pensare che sia effettivamente possibile risolvere il problema in stretta alleanza e collaborazione con le famiglie e i genitori e che il primo passo per fare ciò consista nell’affrontarlo, superando l’ansia, l’impotenza, l’inadeguatezza o la rabbia, che coglie chiunque di fronte ad una situazione nuova, complessa e stressante, ma che nonostante tutto rende il lavoro del docente sempre carico di novità e di impellenti sfide educative.