Che cosa sono le vacanze? Breve storia di un mito, di un rituale, di un traguardo

Il sostantivo femminile «vacanze», attestato nell’uso della nostra lingua italiana fin dal XVI secolo, deriva dal sostantivo latino, neutro plurale, vacantia, un plurale sostantivato del verbo vacare: «esser vuoto, esser vacante, esser libero da, […] essere immune da vizi, […] avere tempo per (dare ascolto a) qualcuno, ecc…».

Se nella nostra lingua italiana il termine rimanda ad un’«assenza», ad uno «svuotamento» nei dialetti del Sud – scruta con acutezza l’antropologo Franco La Cecla, che nei suoi lavori ha affrontato a più riprese il tema dell’organizzazione dello spazio contemporaneo – l’aggettivo è un «rimprovero, un riferimento all’assenza di contenuto di/ in una persona».

Nel nome «vacanza», però, c’è una storia ben più lunga, millenaria che muove da Ulisse, il «figlio di Laerte, una figura che ha letteralmente afferrato l’immaginario occidentale, un personaggio il cui vero viaggio è senza fine» (cfr. P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse) che è attraversata dall’aristocratico e, in origine, britannico per approdare nelle coste italiane, spagnole e greche negli anni Venta, Trenta del Novecento quando nasce il «mito delle vacanze al mare».

Nell’antico mondo romano il diritto all’otium è riconosciuto solo ai nobili. I Romani trascorrono il tempo libero (appunto, otium) nelle ville in campagna o sulla costa di Baia, Pozzuoli, Miseno che diventano il ritrovo di tutta l’aristocrazia del periodo. Nei secoli che vanno dal XVI al XIX si diffonde, si afferma il Grand Tour nell’Europa centrale mediterranea come lunga «vacanza» di formazione (Bildung) per i/le giovani aristocratici/che. È nel Regno Unito del XVII secolo che compaiono i primi luoghi di villeggiatura termale. A partire dal Settecento, andare in vacanza in campagna è una moda degli aristocratici, un segno distintivo che dava lustro al nome della famiglia. Come scritto sopra è negli anni Venta / Trenta del secolo scorso che nasce il mito delle vacanze al mare.

Vacatio, per paradosso, è uno «spazio vuoto» attraversato e pregno di tempo libero, cioè un tempo dotato di libertà, a differenza di quello dedicato al lavoro che è invece un tempo scandito dall’obbligo, dalla produzione, ecc…

Il tempo delle vacanze è il vero tempo libero, quello che ha in sé la pienezza, la pienezza di una scelta che si palesa nella chiacchierata con un amico, nella scelta di un bel libro, di una passeggiata sotto le stelle con chi si ama, di una nuotata con un figlio, ecc…

Le nostre vacanze non siano pagine vuote ma una sosta per ri-partire. Alberto Moravia (1907-1990), che nella sua opera letteraria mette in luce, con grande realismo, la vasta e variegata umanità delle periferie senza mai giudicarla, ci dà un consiglio su come vivere questo tempo di ferie. In uno dei saggi raccolti nel volume L’uomo come fine (1964), Moravia, riconosce che «per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione. La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino. Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati».

Dunque, buone vacanze a tutti/e come un momento libero dalle consuete occupazioni ma teso ad «accumulare energia» per cercare di comprendere come abitare, nel miglior modo possibile, il nostro mondo. Leggi tutto “Che cosa sono le vacanze? Breve storia di un mito, di un rituale, di un traguardo”

L’Educazione alla legalità: una risposta alla domanda «che cos’è la legge?».

«Che cos’è la legge?» è una domanda fondamentale che ha venticinque secoli. È, in origine, un interrogativo che fa riferimento al dialogo, di impronta socratica, che ne I Memorabili di Senofonte, Alcibiade, pone a un giovane Pericle, che sembra sorridere di quella che gli pare una domanda molto ingenua.

In un mondo eccentrico, dominato dal disorientamento, sempre connesso e/o interconnesso ma abitato da solitudini che si moltiplicano, i più grandi pedagogisti, filosofi, tout court, intellettuali, invitano a scommettere su una possibilità in cui ne va del nostro stesso presente e futuro: l’educazione o come in molti chiamano con acume ed ironia «l’utopia dell’educazione».

Studiare la storia dell’educazione alla legalità nella scuola italiana – ricorda il professore e scrittore Nando della Chiesa nell’«Introduzione» della ricerca dello studio La storia dell’educazione alla legalità nella scuola italiana – è un po’ come studiare sotto una specifica prospettiva la storia stessa del Paese.

Con la circolare del MIUR, n. 302 del 1993, il concetto di «educazione alla legalità» entra nel sistema normativo italiano. In breve, il principio giuridico di legalità è il principio cardine dello Stato di diritto, formulato a partire dal XVIII secolo ma già riconducibile all’età arcaica elladica (VII secolo a.C.). Un principio non dogmaticamente immutabile, ma che evolve ed accompagna le trasformazioni dell’ordinamento giuridico e delle nostre democrazie.

L’Educazione alla legalità ebbe formale origine nel contesto storico 1992-1993 quando gravissimi eventi (le stragi di Capaci, di via D’Amelio, gli attentati di Milano, Firenze, Roma) resero forte la percezione di una minaccia al sistema democratico. Così il Ministero della Pubblica Istruzione emanò in data 25 ottobre 1993 la Circolare n. 302 introducendo l’«Educazione alla legalità», tesa a valorizzare il ruolo della scuola nella comunità civile.

Tale Circolare, nel primo paragrafo intitolata «la lotta alla mafia», afferma:

«Di fronte ad una situazione del genere (le stragi di Capaci, di via D’Amelio e gli attentati sopra citati), la scuola ha il dovere di promuovere prima una riflessione e poi un’azione volta alla riaffermazione dei valori irrinunciabili della libertà, dei principi insostituibili della legalità.

La scuola, in collaborazione con le altre istituzioni competenti e responsabili, deve pertanto ricercare e valorizzare le occasioni più propizie per avviare un processo di sempre più diffusa educazione alla legalità, come presupposto etico e culturale di una contrapposizione decisa a tutti i fenomeni di criminalità.

L’educazione alla legalità si pone non soltanto come premessa culturale indispensabile ma anche come sostegno operativo quotidiano …».

Un «processo di sempre più diffusa educazione alla legalità, come presupposto etico e culturale» da costruire giorno dopo giorno facendo leva sulle conoscenze, abilità e competenze iscritte in tutti i nostri curricula scolastici ma che può anche essere potenziato da due «classiche» letture: Il giusto e l’ingiusto del filosofo francese Jean-Luc Nancy, una lezione semplice, che non teme né la complessità del tema né la leggerezza dell’esposizione, un testo adattabile già fin dalla Scuola media di I grado e, per la scuola secondaria di secondo grado, La storia della mafia di Leonardo Sciascia, una descrizione puntuale ed affascinante di un universo di cui si scopre sempre qualche aspetto nascosto, inedito.

La Circolare n. 302 individua, consegna «regole» e connessioni di azioni, pensieri, luoghi e persone per riallacciare nel mondo della Scuola, il mondo per eccellenza della formazione ed educazione, i fili dispersi e tagliati dalle «preoccupanti vicende nazionali» degli anni Novanta. Il nostro testo ministeriale nelle «Finalità» scrive i seguenti punti che poi sono vere e proprie guide dello spirito e della mente davvero necessari e capaci di risvegliare le coscienze e di ri-costruire domande ed azioni di senso e di ethos:

«Educare alla legalità significa elaborare e diffondere un’autentica cultura dei valori civili. Si tratta di una cultura che:

  • intende il diritto come espressione del patto sociale, indispensabile per costruire relazioni consapevoli tra i cittadini e tra questi ultimi e le istituzioni;
  • consente l’acquisizione di una nozione più profonda ed estesa dei diritti di cittadinanza, a partire dalla consapevolezza della reciprocità fra soggetti dotati della stessa dignità;
  • aiuta a comprendere come l’organizzazione della vita personale e sociale si fondi su un sistema di relazioni giuridiche;
  • sviluppa la consapevolezza che condizioni quali dignità, libertà, solidarietà, sicurezza, non possono considerarsi come acquisite per sempre, ma vanno perseguite, volute e, una volta conquistate, protette.

Un itinerario formativo di tal genere deve proporsi in primo luogo la valorizzazione della posizione/responsabilità della scuola, intesa come terreno privilegiato di cultura per qualsiasi attività educativa.

Peraltro il ruolo centrale della scuola appare ancor più evidente rispetto alla finalità di educare i giovani alla legalità, in considerazione del fatto che la scuola è normalmente la prima fondamentale istituzione, dopo la famiglia, con cui essi si confrontano e su cui misurano immediatamente l’attendibilità del rapporto tra le regole sociali e i comportamenti reali».

Le idee guida, le finalità del testo ministeriale rientrino a far parte della nostra cultura scolastica quotidiana e del nostro senso comune.

Le idee portanti della Circolare n. 302 alimentino e diano sostanza alle nostre azioni didattiche perché possano diventare fatti compiuti e risposta alla domanda, per niente ingenua, «che cos’è la legge?». Leggi tutto “L’Educazione alla legalità: una risposta alla domanda «che cos’è la legge?».”

Il filo d’oro della pace attraversa la Scuola e le sue discipline

La valenza fondamentale del linguaggio dell’educazione, dell’istruzione è ben fissata in due testi: nella nostra Carta costituzionale (1° gennaio 1948) e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948).

L’etimologia del sostantivo «pace» rimanda alla radice sanscrita pak– o pag– (che significa «fissare, pattuire, legare, unire, saldare», da cui derivano anche altre parole di uso comune come «patto»,  «pagare») che ritroviamo nel latino pax = pace. È l’ebraico «shalom» che ci restituisce il significato più autentico di «pace-dono», «completezza», «prosperità».

Nei «Principi fondamentali» (artt. 1-12) la Costituzione dedica alcuni articoli all’istruzione e la considera come uno dei fini di cui ogni Stato deve farsi carico per procurare maggiore benessere alla collettività e per migliorare, elevare le condizioni di vita di tutti i cittadini e tutte le cittadine.

In particolare, nella Carta costituzionale, la Scuola è considerata ponte di passaggio tra la famiglia,  primigenio nucleo sociale e formativo della persona, e la società, luogo naturale di integrazione con gli altri individui e di sviluppo della propria personalità. (Mi corre l’obbligo morale e civile di sottolineare e specificare con le parole dello storico Paolo Macry – dopo il recente Congresso Mondiale delle Famiglie tenutosi a Verona a fine marzo – che la famiglia «[…] è un fenomeno storico e, come tale, assai difforme nel tempo e nello spazio.  La famiglia è un prodotto culturale, la sua qualità e relativa. […] Tutti quanti i caratteri dell’istituzione familiare a noi più consueti possono trovarsi, altrove, rovesciati o mancanti. […] Ma neppure è universale l’eterosessualità del nucleo coniugale» (Paolo Macry, L’età contemporanea, il Mulino, 1995, p. 105).

Al macrocosmo dell’Istruzione e della Scuola gli articoli fondamentali di riferimento della nostra Magna Charta sono il 9, il 33 e il 34. Un ruolo attivo nella stesura di suddetti articoli ebbero personalità profetiche, sagge, di grande acume e di severissima disciplina intellettuale (dei quali sentiamo nostalgia) come  Concetto Marchesi, Aldo Moro, Giorgio La Pira.

Il codice lessicale del sostantivo «pace» si declina, plasma e plana ogni curricolo di ogni ordine e grado della nostra scuola. La pace è una pietra viva, una parola-chiave e fondante di ogni percorso di apprendimento, socializzazione ecc…

Nel nostro linguaggio poetico l’auspicio della «pace» risuona, tintinna già nella prosa «rimata» (cfr. Gianfranco Contini) del Cantico di frate sole, manifesta una grande vivacità nei componimenti morali-civili-politici della cd. «lirica toscana». Assai vario ed esteso è il complesso delle occorrenze in cui il vocabolo «pace» tesse le rime del linguaggio amoroso (dai Siciliani agli Stilnovisti: in breve ricordiamone la variegata parabola dal rapporto amata-amante in figura di guerra alla presentazione della donna come fonte di pace, topos / topoi della tradizione lirica classica e poi «volgare»). Nell’opera di Dante poi il concetto di «pace» è centrale. Nello spazio letterario del Novecento la parola «pace» illumina gli ardui testi saggistici della celebre conferenza Pro o contro la bomba atomica di Elsa Morante e le rime Non gridate più di Giuseppe Ungaretti. Una poesia «civile» che si rivolge agli uomini sopravvissuti all’immane tragedia della guerra: le grida piene di rabbia e di rancore coprono le flebili voci dei morti che invocano pace, rendendo inutile il loro sacrificio ed in questo modo, è come se venissero uccisi di nuovo.

Versi che richiamano in vita il dolore e il dramma solamente attraverso il nero, il bianco e il grigio di Guernica un manifesto universale contro la forza cieca delle guerre, il primo saggio del terrore novecentesco che esplode sulla tela della grande storia dell’Arte universale che ricorda – compiendo un pazzesco salto indietro alle origini della civiltà umana – il «pannello della pace» del bifronte Stendardo di Ur. Guerra e pace, Eros e Thanatos: due facce della stessa moneta di ogni essere vivente, il doppio binario su cui scorre ogni Vita.

Un millenario curricolo che molti vorrebbero «morto» il Latino – una «lingua inutile (cfr. Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini), una lingua d’amore, di pace, di diritto che non parliamo più ma che «ci parla ancora» (come saggiamente ammonisce la storica dell’antichità e del diritto antico Eva Cantarella) attraverso uno dei suoi «autori» di punta, come Tacito, ci racconta la «pace» a tutto tondo. Nel capitolo XXX dell’Agricola Tacito mette in bocca a un capo dei britanni, Calgaco, queste parole con riferimento ai romani: «infine, dove fanno il deserto, dicono che c’è la pace».

Infine, per realizzare la «pace come pieno godimento di tutti i diritti e dei mezzi per partecipare pienamente allo sviluppo endogeno della società» (cfr. Federico Mayor. The World Ahead: Our Future in the Making, Zed Books, 2001, p. 451) si adopera il curricolo della Matematica. Questa disciplina non solo aiuta a decifrare la realtà in cui viviamo ma apporta un metodo, un approccio nonviolento nell’agire per cambiare questa realtà. Un matematico in quanto persona che vive in un data società con il suo comportamento può influire su di essa adoperando le sue specifiche competenze e conoscenze. Come nel caso di un matematico, Lewis Fry Richardson (1881-1953), che proprio in forza del suo impegno etico nei riguardi della pace orienterà tutta la sua attività scientifica.  Nel 1919, in un saggio dal titolo Mathematical Psychology of War, successivamente ampliato nel 1939, Richardson propone un modello matematico basato su equazioni differenziali: egli considera non solo il caso di due paesi, potenzialmente nemici, ma ipotizza anche la possibilità di misurare in qualche modo l’animosità e/o bellicosità di ciascuno dei paesi nei riguardi dell’altro. Alla luce dell’analisi di questo modello, Richardson, vede nella cooperazione uno strumento per ridurre la possibilità di guerre.

Il rapporto fra matematica e guerra è stato sempre molto forte. Già Platone, nel settimo capitolo della Repubblica, afferma come «la conoscenza del calcolo e dei numeri» sia necessaria al guerriero «se egli vuole capire qualcosa di tattica, o piuttosto se vuole essere un uomo».

Munir Fasheh, un professore di matematica e formazione, Master in matematica e dottorato in Formazione (Harvard), docente di matematica all’Università di Birzeit, afferma che «uno dei principali obiettivi dell’insegnamento della matematica dovrebbe essere di far capire che ci sono differenti punti di vista e di far rispettare il diritto di ciascun individuo a scegliere il proprio. In altre parole, la matematica dovrebbe essere usata per insegnare la tolleranza in un’epoca così piena di intolleranza» (cfr. Munir Fasheh. Mathematics, culture and authority in Arthur B. Powell, Ethnomathematics: challenging eurocentrism in mathematics education, State University of New York Press, 1997, p. 276). Leggi tutto “Il filo d’oro della pace attraversa la Scuola e le sue discipline”

L’Europa è antica e futura

Una riflessione sulle radici storiche e culturali dell’Europa accompagna da sempre il progetto di unificazione europea, soprattutto quando questo vive fasi cruciali e delicate come in questo preciso momento. L’Europa potrà costruire un futuro se non tiene presenti le radici da cui è nata e i valori sui quali si è costruita? L’Europa, ha nel suo complesso, una memoria storica comune? I «mattoni» della costruzione dell’idea d’Europa vanno cercati ed individuati nei «miti greci (la cosiddetta memoria collettiva dell’umanità), nel mondo ellenistico, nel mondo romano, la respublica christiana, l’Umanesimo, il Rinascimento, l’Occidente delle invenzioni e delle scoperte, il Settecento e la Rivoluzione francese, il Romanticismo …» (cfr. F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Laterza, p. 7 e sgg.).  

Quando noi diciamo «Europa», oggi, scrive con acume e profezia Federico Chabod, ben settanta anni or sono, «intendiamo alludere non soltanto ad una certa estensione di terre, bagnate da certi mari, solcate da certe catene montuose, sottoposte ad un certo clima ecc …; intendiamo, assai più, alludere ad una certa forma di civiltà, ad un «modo di essere»… L’«Europeo»… è, anzitutto, soprattutto un certo abito civile, un certo modo di pensare di sentire». Chabod, con una tessitura da ago rovente, conclude il suo scritto dedicato al formarsi della coscienza europea con queste parole: «nel formarsi del concetto d’Europa e del suo sentimento europeo, i fattori culturali e morali, hanno avuto, nel periodo decisivo di quella formazione, preminenza assoluta, anzi esclusiva». Ma, oggi, nell’Unione europea c’è ancora, si respira e si assapora la «memoria storica comune»?

L’identità europea è strettamente connessa agli apparati istituzionale localizzati a Bruxelles e a Strasburgo. Tali istituzioni oggi sono poco attive in questo processo politico-culturale del formarsi di una coscienza europea anche perché ne è debole l’identità (di ciascun Paese), e l’identità è debole perché le istituzioni anche oggi non sono – non sembrano – in grado di favorirne il consolidamento.

Sul finire del «secolo breve» lo storico francese J. Le Goff – fondatore non solo dell’odierna storiografia medievale ma anche di una collana editoriale europea («Fare l’Europa»)scrive «l’Europa è antica e futura a un tempo. Ha ricevuto il suo nome venticinque secoli fa, eppure si trova ancora allo stato di progetto».

L’Europa «ha inventato» l’Occidente. L’Europa è la patria della cultura classica, ha diffuso i valori del cristianesimo, della scienza e della tecnica, i grandi princìpi di libertà, uguaglianza e fratellanza. Qui è nata la pòlis, qui è stato elaborato il metodo sperimentale scientifico, qui sono nati i concetti di Stato e di diritto.

La riflessione sulle radici storiche e culturali dell’Europa, ci si auspichi, ri-torni ad essere un tema in seno alle istituzioni europee e che esso sia linfa vitale nel processo di riforma dello sviluppo socio-economico-politico dopo alcuni anni, forse decenni di corto-circuito.

Nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata la prima volta a Nizza il 7 dicembre 2000 e poi, una seconda volta, il 12 dicembre 2007, le radici storiche culturali non sono palesamenti espressi.

Tra le varie e diverse reazioni a favore di un riconoscimento esplicito di tali radici cito poche righe estrapolate dalla «mitica» rubrica settimanale La bustina di Minerva  (del 18 settembre 2003 dal titolo «Le radici dell’Europa»): «Io non vedrei inopportuno, in una costituzione, un riferimento alla radici greco-romane e giudaico-cristiane del nostro continente, unito all’affermazione che, proprio in virtù di queste radici, così come Roma ha aperto il proprio Pantheon a dèi di ogni razza e ha posto sul trono imperiale uomini dalla pelle nera (né si dimentichi che sant’Agostino era nato in Africa), il continente è aperto all’integrazione di ogni altro apporto culturale ed etnico, considerando questa disposizione all’apertura proprio una delle sue caratteristiche culturali più profonde».

Precisa ancora di più sagacemente Morin: «Se si cerca l’essenza dell’Europa, non si trova che uno spirito europeo».

Nella formazione del processo dell’Europa tali tematiche – dalla scuola alle agorà politiche – ri-prendano slancio vitale coscienti che le conseguenze saranno assai grandi come l’Europa – (davvero con una grande «E») – nella quale vogliamo vivere. Leggi tutto “L’Europa è antica e futura”

L’istruzione nell’Unione Europea

Nel corso del Novecento gli stati europei portano a compimento l’aspirazione illuminista di un livello di istruzione sempre più generalizzato tra la popolazione attraverso una democratizzazione dell’istruzione e formazione permanente, realizzando sistemi istituzionali di insegnamento organizzati e programmati.

Nel secondo dopoguerra, nell’Europa occidentale, assistiamo ad un impressionante aumento della popolazione scolastica.

Tra gli anni Sessanta e Settanta gli studenti dei corsi secondari raddoppiano, anzi, triplicano in tutti i Paesi europei.

Negli ultimi decenni del «secolo breve», in tutta Europa si assiste ad un innalzamento medio della qualità dell’istruzione, che produce una parziale mobilità sociale.

In Europa, ogni Paese ha la responsabilità di elaborare proprie politiche in materia di istruzione e formazione, decidere i contenuti dell’insegnamento e organizzare il sistema scolastico nazionale.

Il Trattato di Roma (1957) non disciplina la materia di istruzione e formazione. Solamente l’art. 128 prevedeva una politica comune di «formazione professionale» avente come unico fine la risoluzione dei problemi occupazionali.

Nel 1976, il Consiglio Europeo, nella consapevolezza di intervenire nel settore dell’istruzione indica le seguenti priorità d’azione:

  • l’istruzione dei figli dei lavoratori immigrati
  • l’integrazione di sistemi europei di istruzione
  • l’insegnamento delle lingue straniere

È con il Trattato di Maastricht (1992) che l’istruzione viene formalmente riconosciuta come area di competenza dell’Unione Europea (cfr. l’art. 126, paragrafo 1).

Per ogni Stato membro la qualità dell’istruzione costituisce una priorità politica perseguita a livello nazionale al cui sviluppo la Comunità europea può contribuire.

Il 1996 è l’anno della pubblicazione del Libro verde sull’innovazione, ma è anche l’anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita. Il messaggio chiave è che: «non bisogna mai smettere di formarsi». Il progetto di apprendimento permanente (lifelong learning) costituirà uno dei pilastri attorno ai quali si sviluppa a partire dall’anno 2000 il processo di Lisbona considerato a ragione il punto nodale per lo sviluppo delle politiche di istruzione e formazione in Europa.

Il 19 giugno 1999, i Ministri dei Paesi membri si riuniscono per sottoscrivere un importante documento: la Dichiarazione di Bologna con lo scopo di armonizzare i sistemi di istruzione superiore in Europa.

Il Trattato di Amsterdam (1997) apporta modifiche e integrazioni al Trattato di Maastricht. Il 10 gennaio 2003 entra in vigore il Trattato di Nizza che costituisce parte integrante del trattato di Lisbona (particolarmente importante per noi l’art. 9), che dal 10 gennaio 2009 rappresenta la base costituzionale dell’UE.

Inoltre, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che lo stesso valore giuridico dei Trattati, stabilisce all’art. 14 che «ogni persona ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua» e l’art. 15 che «ogni persona ha il diritto di lavorare ed esercitare una professione liberamente scelta o accettata».

Gli stati membri dell’UE sono quindi responsabili dei contenuti e dell’organizzazione dei sistemi di istruzione e formazione professionale. L’UE rispetta la diversità delle norme legislative nazionali e non ha la competenza per armonizzarle ma contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra i Paesi sostenendone ed integrandone la loro azione.

Per una lettura esauriente, scientifica ed integrale dei diversi sistemi educativi europei invito alla lettura del Quaderno di Eurydice Italia sulle diverse strutture dei Paesi membri dell’UE.

Antonio Megalizzi

Ad Antonio…

Venuto alla luce nel lembo di quel pezzo di terra da dove è germinato il nome Italia, Antonio Megalizzi è non solo un giovane ragazzo di soli 28 anni con tanti sogni, grandi quanto l’Europa, ma soprattutto è un giovane ragazzo italiano, europeo la cui breve vita è una grande «parabola» che riassume e con la sua scomparsa imbocca una curva di grande dolore ma – questo il nostro auspicio – di grande trasformazione. A soli cinque mesi con la famiglia emigra nella provincia di Trento. Dal grande giardino, come Antonio chiamava Reggio Calabria, la famiglia si stabilisce a Trento: una città, porta di passaggio con l’Europa.

Da piccolo, da adolescente Antonio avrà seguito il fantastico volo d’Europa sulla groppa di Zeus: un volo che da Creta, dallo stretto di Messina percorreva tutto il continente toccandone il cuore, la testa (Strasburgo, Bruxelles). Un bambino che con le dita accarezza questo fantastico volo, illuminato dalle stelle e da tanti anni di studio, di passioni che ben presto tessono l’identità di un giovane uomo innamorato della vita, del suo bel Paese e dell’Europa di cui non smetteva di seguirne il volo nonostante il fatto ch’esso ultimamente era disturbato da opposti venti di freddezza, e desolanti spinte nazionaliste.

La nostra scuola vorrei, vorremmo che avesse lo sguardo limpido e pulito di Antonio, la sua voce europea, il suo slancio vitale e quell’immensa passione per la vita che giammai muore… e,  che se dovesse essere strappata, rinasce per virtù di quel magico ed infinito volo dell’Europa in cui adesso Antonio è nascosto e guida.

Che cos’è e perché la religione a scuola?

La religione: una via per uscire dalla crisi

Che cos’è la religione? L’Europa di questi ultimi decenni è una società post-secolare, post-cristiana ma non post-religiosa. La religione conserva un ruolo sociale in continua evoluzione, in una società che è anch’essa in continua evoluzione. Le religioni «negli ultimi decenni in conseguenza di processi come la fine dei regimi comunisti e i giganteschi movimenti migratori provocati dalla globalizzazione stanno conoscendo sommovimenti tettonici dalle conseguenze impreviste e imprevedibili» ma ancor di più se «diminuisce la pratica religiosa tradizionale e ancor più la fede nella dottrina ecclesiastica ufficiale… aumenta il carisma riconosciuto di alcuni leader religiosi, la religiosità della terra, lo spazio della spiritualità nell’arte. […]

In realtà, non solo Dio non è mai morto, ma neppure gli Dei sono mai morti. Lo mostra ogni giorno l’impero di Afrodite o del piacere, quello di Ares o della forza, quello di Zeus o del potere. Se infatti non esiste civiltà senza religione, ciò è perché gli esseri umani sperimentano una dipendenza da potenze più grandi, la quale, una volta espressa, genera la categoria del divino. E il divino, oggi come diecimila anni fa, entra inevitabilmente in gioco nella vita umana. […]  Il divino dice soprattutto l’innato bisogno di appartenenza che contraddistingue l’umano. «A chi appartengo io?»: questa è la più forte domanda esistenziale, ancora più urgente del desiderio di indipendenza, e la sua risposta si chiama religione. […] Per questo la religione oggi nell’epoca delle «passioni tristi» risponde al radicale bisogno di appartenenza assumendo un fascino particolare».

Dentro il perimetro di questo grande contesto, a noi interessa focalizzare prioritariamente l’ambito educativo nell’attuale sistema scolastico che è quello svolto dall’«Educazione alla cittadinanza», volta a diffondere la cultura della democrazia tra i giovani, a contribuire alla lotta contro la violenza, il razzismo, le ideologie, l’intolleranza e a promuovere una cultura ed una prassi dei diritti, della pace, della libertà e della giustizia sociale.

Il ruolo educativo che la scuola è chiamata a svolgere richiama la pedagogia a una riflessione che si ponga sul piano «di rispondere alla duplice esigenza del diritto all’educazione della generazione giovane e del compito della cura educativa della generazione adulta, l’una e l’altra accomunate dal riconoscimento della singolarità della persona»

L’istituzione scuola risponde ai bisogni formativi dell’uomo ed per questo deve abbandonare l’impostazione trasmissiva mono-disciplinare e sperimentare progettazioni didattiche che si presentino come strumenti atti a promuovere un sapere unitario che possa alimentare, nutrire, dissetare le varie dimensioni (cuore, mente, corpo, animo/a) dell’essere umano  nei vent’anni e più – gli anni più belli, d’oro – che vive a scuola. Un sapere che, nel processo costruttivo di insegnamento/apprendimento, recuperi in pieno i contenuti disciplinari e permetta allo studente di costruire da protagonista un percorso di apprendimento personalizzato e unitario.

L’insegnamento della religione cattolica (IRC), al pari delle altre discipline, è chiamato a riflettere sul proprio ruolo all’interno della scuola, a tracciare linee pedagogiche teorico-pratiche che gli consentano di essere promotore di un sapere che superi i limiti dell’odierna frammentarietà e del tecnicismo e di essere operatore di interdisciplinarietà. Interdisciplinarità intesa non solo come modalità di incontro tra i saperi disciplinari, ma come caratteristica, topos di un approccio alla realtà della persona che in modo unitario comprende sé e il mondo.

Nella mia personale formazione umana e culturale sono sempre stato affascinato dalla storia del mondo antico, dalle letterature comparate, dalla religione. Al di là dell’ormai esausta disputa sulle radici cristiane dell’Europa, è augurabile che si comprenda che la Bibbia costituisce uno dei punti di riferimento capitali per la nostra stessa civiltà. «Le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Questa affermazione tratta dal saggio Il grande codice di Northrop Frye sul rapporto tra Bibbia e letteratura registra un dato di fatto: la Bibbia è l’immenso lessico o repertorio iconografico, ideologico e letterario cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare.

In un corso di aggiornamento dal titolo «La Bibbia: alle radici della cultura europea», organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano, il primo dicembre 2012, il professore Piero Stefani, con acume, sottolinea come nel mondo dell’istruzione italiana la lettura (letteraria, storica, iconografica) della Bibbia non è praticata.

Sul fatto che nella scuola la cultura biblica non «godesse» di ottima salute se ne era accorto il grande Umberto Eco che dalle colonne dell’Espresso nel lontano settembre del 1989 scriveva «Perché i ragazzi devono sapere tutto degli dèi di Omero e pochissimo di Mosè?». In tutte le aree disciplinari la lettura della Bibbia è e sarebbe più che percorribile. Si pensi subito alla storia dell’arte, alla letteratura italiana e non solo ma anche alla letteratura dell’intera Europa (francese, inglese, tedesca, spagnola, ecc…).

La lettura della Bibbia è applicabile allo studio del pensiero filosofico, alla storia, al diritto, alla storia della scienza e dell’economia. In ognuno di questi campi la presenza di influssi biblici è documentabile a vastissimo raggio. La Bibbia perché non può essere presentata a tutti come un classico al pari dell’Iliade, dell’Odissea o dell’Eneide? Un po’ semplificando ma non troppo la Bibbia interroga l’uomo al pari di Sofocle, Euripide, Seneca.

Infine, da un punto di vista strettamente pratico-istituzionale la presenza della Bibbia – «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello» (Marc Chagall) – comporterebbe ad una qualificazione (da parte del MIUR attraverso concorsi) di un corpo docente che, attualmente, è quasi del tutto impreparato e più praticamente e «semplicemente» a programmare all’interno del P.O.F.T.  una collaborazione fra docenti di materie diverse (letteratura, arte, filosofia, storia, musica, religione) alla ricerca di itinerari di notevole interesse e suggestione.

Max Horkheimer ci ricorda che la «stupidità è una cicatrice». In altri termini crescere è un processo delicato che come il processo involontario del respirare può essere ostacolato o favorito. In-segnare a riconoscere i lineamenti di un patrimonio che ci accomuna significa offrire ossigeno alla mente e al cuore; concorre a rafforzare nei ragazzi energia e speranza, il gusto di approdare a vivere le vertigini di una profondità e ricchezza che ci danno solo le lettere, i numeri e i colori fin dalla loro comparsa negli esseri umani, una comparsa che è legata a quella che chiamiamo civiltà.

Nel segno della parola handicap

Storia di una parola

Il sostantivo handicap, di origine inglese, dalla locuzione «hand in the cap», ovvero «porre la mano nel cappello» per estrarre le monete, un gioco d’azzardo assai diffuso nel Seicento. Dal significato originale legato al gioco e allo sport la parola handicap è stata poi utilizzata alla fine dell’Ottocento per indicare, in generale, il modo di equilibrare una condizione, uno status compensando le «diversità», divenendo quindi sinonimo di «impedimento». Solo agli inizi del Novecento è stata adoperata in riferimento ai disabili e applicata ai bambini con una menomazione fisica.

L’handicap nella normativa scolastica italiana

L’odierno D. Lgs. n. 66/2017 Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità costituisce una sorta di nuovo Testo unico per l’integrazione scolastica dei soggetti con disabilità. Esso costituisce il punto d’arrivo d’un lungo percorso. Un viaggio, però, che parte dalla nostra Carta costituzionale che volge la sua attenzione, con saggezza ed autorità, alla tutela della «persona» (art. 3, comma 2 «persona umana» letta – come con acume sottolinea il dirigente scolastico Giuseppe Mariani – attraverso le tre culture [cristiana, illuminista, socialista] che sono alla base della nostra civiltà italiana ed europea).

Il termine handicap è stato introdotto nella normativa scolastica con la L. 517/1977.

Il termine handicap è normalmente adottato dalla legislazione italiana, ricordiamo le seguenti norme:

  • Legge 5 febbraio 1992, n. 104 Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (il testo vigente della L. 104/1992, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, ha ricevuto le ultime modifiche introdotte dalla Legge n. 53/2000 e dal D. Lgs. n. 151/2001).
  • Legge 8 marzo 2000, n. 53, art. 1, c. 1, lett. -a): l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori soggetti portatori di handicap
  • D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 42 Riposi e permessi per i figli con handicap grave
  • D. Lgs. 18 luglio 2011, n. 119 Attuazione dell’art. 23 della L. 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi: dall’art. 3 in avanti il termine utilizzato è handicap

La «corretta» definizione di persona handicappata si trova nell’articolo 3 (Soggetti aventi diritto), c 1,  della Legge n. 104/1992

«è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».

Il termine disabilità, invece, è stato introdotto nella normativa scolastica dalle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (MIUR, nota 4 agosto 2009 prot. n. 4274). Tale termine (in inglese disability) proviene dagli accordi internazionali ove è normalmente utilizzato, ad es.:

  • nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (art.1), approvata il 16 dicembre 2006 dall’Assemblea delle Nazioni Unite
  • nella Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) approvata il 22 maggio 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Si noti, infine, che nelle più recenti leggi, quali la n. 128/2013 e la n. 107/2015, viene adottato costantemente il termine disabilità.

In qualche circostanza (L. 244/ 2007, art. 2, c. 413 e 414) è usata la locuzione alunni diversamente abili.

La storia della valutazione scolastica nella scuola italiana

Raccontare in sintesi la storia della valutazione scolastica nella scuola italiana significa ripercorrere l’intera parabola degli eventi sabaudi, risorgimentali e costituzionali del nostro Paese. Una grande storia illuminata dalla riflessione, teorizzazione e coscienza legislativa che attraverso le parole codificate in norme e la loro scrittura stabile e definitiva definiscono – attraverso un inventario d’archetipi pedagogici – il progetto grandioso della valutazione.

Valutazione: la sua natura e variante linguistica

Deriva dal latino vàlitus, participio passato di valére. «Vălĕo» è un verbo che racchiude una ricca polisemia: se generalmente significa «essere forte, gagliardo, vigoroso, avere forza» ed ancora «godere di buona salute, essere sano», in senso figurato indica «avere potere, essere potente; avere influenza, importanza»; tale verbo accompagnato da un infinito riveste il significato di «essere capace di, avere la forza di, essere in grado di, contribuire a …»; infine nella sua variante giuridica designa «essere valido, avere validità».

In senso etimologico la valutazione è, in breve, il processo mediante il quale si attribuisce valore ad un’azione, ad un evento, ad un oggetto. È un’attività (attraverso la quale singoli e/o gruppi, comunità e/o istituzioni) esprimono un giudizio riguardo ad un fatto rilevante e significativo.

Primo e piccolo sommario della storia della valutazione dal 1848 al 1977

Il percorso che stiamo per intraprendere attraversa una galleria di documenti e leggi (non sempre espliciti); illumina le culture, le mentalità della società (dapprima sabauda, poi risorgimentale ed infine costituzionale) italiana i cui protagonisti (ad es.: Boncompagni, Casati, Coppino, Gentile, F. M. Malfatti et alii) hanno fatto della scuola un’istituzione sociale fondamentale:

«Il mondo della scuola esprime e riproduce le stesse contraddizioni che popolano la società. La scuola è un’istituzione sociale fondamentale»

Il tema della valutazione prende forma, si struttura, attraverso le leggi e i documenti emanati dai vari governi; manifesta e riflette le caratteristiche economico-sociali della società; è manifesto/simbolo dell’impronta filosofico-pedagogica che sta alla base dell’impianto valutativo proponente.

Il nostro excursus parte dalla legge Boncompagni attraversa en plein air il Risorgimento, due guerre mondali, i venti della contestazione per giungere, dapprima, all’epocale e significativa L. 517/1977 ed infine all’odierno D. Lgs. n. 62/2017.

Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto concede lo Statuto Albertino. Il Regno di Sardegna si trasforma da Stato assoluto in Stato costituzionale. Contestualmente c’è l’«intuizione intellettuale»  – frutto della rivoluzione francese, del dominio napoleonico e dello slancio del Romanticismo –  per cui lo Stato inizia ad intraprendere un processo di educazione delle classi popolari e di formazione al lavoro. Il mondo della scuola, i processi dell’istruzione entrano a far parte della linee e competenze politiche dello Stato sabaudo.

Il 4 ottobre 1848 viene promulgata la legge Boncompagni (Legge n. 818), una legge di stampo illuministico, che prende a modello le scuole militari dei più avanzati Paesi europei, fucine della classe dirigente. L’obiettivo del pedagogista ante-litteram Carlo Boncompagni di Mombello (1804-1880) è quello di istituire una scuola di Stato, in grado di sostituire la scuola dei gesuiti. A partire dalla legge Boncompagni, il Regno di Sardegna entra in modo istituzionale nel settore educativo.

Il 30 novembre 1847 il re Carlo Alberto istituisce il Ministero dell’Istruzione pubblica e chiamava a presiederlo Carlo Boncompagni di Mombello.

Nell’arco decennale 1848-1859 nasce il sistema scolastico prima sabaudo e poi dell’Italia unita (17 marzo 1861).

La legge Casati del 13 novembre 1859 (n. 3725) ri-definisce l’assetto scolastico anche perché in quell’anno al regno di Sardegna fu annessa la Lombardia. Sull’impianto amministrativo, organizzativo e legislativo illuministicamente tratteggiato dalla legge Boncompagni si ridefiniscono alcune norme che consentono la nascita, l’affermarsi della scuola italiana così com’è tutt’oggi strutturata.

La(e) competenza(e) dello Stato in materia scolastica comporta un salto di qualità: l’apparato statate adesso si riserva di controllare, verificare, rendicontare i momenti e i tempi del processo di apprendimento e dell’insegnamento. Tali processi – agli occhi della classe liberale sabauda – si trasformano in processi amministrativi, burocratici da definire, appunto, da valutare.

Nei decenni che trascorrono dalla legge Casati – la Magna Charta del nostro sistema di istruzione – alla legge Coppino (1877) il «maestro» diventa un funzionario, un impiegato dello Stato.

L’«istruzione» diventa sempre più una competenza proprio dello Stato, un servizio che lo Stato eroga e che per l’appunto assumendo una valenza burocratica essa va valutata, misurata, rendicontata.

Nella Legge Boncompagni non si parla espressamente di sistema di valutazione. Però, in nuce, scorgiamo fra le righe dei primi due articoli della legge una prima e significativa definizione d’una incipiente istruzione di chiaro stampo «statale»: lo Stato prende su di sé il controllo di tutte le scuole e tutti i processi di istruzione. Ed ancora notevole è l’esplicito richiamo ai «primi elementi dell’aritmetica, i principii della lingua italiana, […] i primi elementi della     geometria, delle scienze naturali, della storia e della geografia» dichiarati nell’art. 4 che costituisce una pietra miliare nella costruzione del sistema della valutazione italiana.

Costruzione che, solo dopo tre anni circa, si rivela chiaramente, di più, cartesianamente nella Circolare del Consiglio Generale ed Ispettorato Generale delle Scuole Elementari e di Metodo del Regno ai Signori Intendenti, R. Provveditori, ed Ispettori delle Scuole Elementari – Cataloghi per le Scuole Elementari (Torino, febbraio 1851):

Il Consiglio Generale, dopo aver esaminato i quadri proposti da alcuni fra i più periti Ispettori, non che da Maestri distinti, ha deliberato di prescrivere per tutte le scuole elementari l’adozione di un solo catalogo qui unito, il quale, mentre risparmierà al Maestro tempo, fatica, lo metterà in grado di rendere conto giornalmente, settimanalmente, mensilmente dello studio, della disciplina e del profitto degli allievi.

Per la prima volta nella storia della valutazione scolastica italiana sono espresse solennemente iscritte in una Circolare tre caratteristiche «studio, disciplina e […] profitto degli allievi» che resteranno così fino alla L. 517/1977 ma nell’intima sostanza delle cose fino ad oggi.

Straordinariamente in questo Catalogo (quello che oggi chiamiamo «Registro») ogni azione, lavoro, attenzione, osservazione è minuziosamente definita e costruita nell’intelaiatura dei cataloghi:

Questo catalogo è diviso in 22 colonne, in ragione dei giorni di scuola, che possono essere in ciascun mese; ogni colonna è suddivisa in 4 colonnette, di cui le prime due servono ad indicare il voto delle lezioni del mattino e della sera, la terza indica il voto sul lavoro o sui lavori in iscritto della giornata, la quarta il voto sulla disciplina

Il voto sulle lezioni, come quello sui lavori e sulla disciplina, si segna coi numeri progressivi dall’1 al 10:  così 0 esprime niente; 1 pessimamente; 2 assai male; 3 male; 4 assai poco; 5 poco; 6 mediocremente; 7  quasi bene; 8 bene; 9 quasi ottimamente; 10 ottimamente

Nell’esprimere questo voto sui lavori in scritto il Maestro terrà conto del numero e della qualità degli errori, della maggior o minor intelligenza spiegata in essi dagli alunni, come per il voto sulla disciplina terrà conto della loro attenzione, della loro diligenza, del loro contegno in iscuola e della loro condotta fuori di essa

Nel medesimo Catalogo cinque colonnette intermedie conterranno la media dei voti della settimana sul profitto e sulla condotta; la prima da ricavarsi dai voti delle prime 3 colonne; la seconda da quelli della 4a. Un’ultima colonna ugualmente suddivisa contiene il voto mensile che si ricaverà dalla media dei voti settimanali. Per ottenere questa media settimanale e mensile si addizionano i voti delle varie colonnette relative;  se ne divide la somma per il numero delle colonne stesse ed il quoziente sarà la media ricevuta. Questo quoziente non può essere superiore al 10, e così se inferiore a 6 esprimerà un voto sfavorevole, il 6 sufficiente, e il 10 ottimo […]

Gli ispettori dovranno inculcare a tutti i maestri l’obbligo di tenere un simile Catalogo e per dar loro in proposito le occorrenti spiegazioni e direzioni.

Gli intendenti e provveditori principali dovranno invitare le amministrazioni comunali e i maestri elementari a provvedersi i suddetti cataloghi presso la Stamperia Reale, la quale si è incaricata della stampa e della vendita di essi a modicissimo prezzo.

Tra i 380 artt. e 9 tabelle della Legge Casati, manifesto ed espressione delle elités liberali, è nell’art. 326 che si delinea implicitamente il sistema della valutazione mentre con autorità viene ri-definito l’obbligo di istruire i figli da parte dei «padri»:

Sono invece tuttora vigenti, per quanto riguarda la valutazione delle discipline nella scuola secondaria, le norme emanate con Regio Decreto n. 653/1925 Regolamento sugli alunni, gli esami e le tasse negli istituti medi di istruzione integrato e modificato dal R. D. n. 2049/1929 Modificazioni al regolamento sugli esami per gli istituti medi di istruzione, circa la suddivisione dell’anno scolastico.

Art. 79 – Il voto di profitto nei primi due trimestri si assegna separatamente per ogni prova nelle materie a più prove e per ogni singolo insegnamento nelle materie comprendenti più insegnamenti.
Nello scrutinio dell’ultimo periodo delle lezioni il voto è unico per ciascuna delle materie […]. I voti si assegnano, su proposta dei singoli professori, in base ad un giudizio brevemente motivato desunto da un congruo numero di interrogazioni e di esercizi scritti, grafici o pratici fatti in casa o a scuola, corretti e classificati durante il trimestre o durante l’ultimo periodo delle lezioni.
Se non siavi dissenso, i voti in tal modo proposti s’intendono approvati; altrimenti le deliberazioni sono adottate a maggioranza, e, in caso di parità, prevale il voto del presidente. (*)(*) Nota: modificato dall’art.2, cc. 3 e 4, del RD 21 novembre 1929, n. 2049, Modificazioni al regolamento sugli esami per gli istituti medi di istruzione, circa la suddivisione dell’anno scolastico

Come saggiamente – evidenzia il dirigente scolastico Giuseppe Mariani – già nel 1925 il legislatore rimarca l’obbligo della collegialità nell’attribuzione dei voti.

Con gli articoli 33 e 34 della Costituzione si mette in discussione, in modo indiretto, il modello di valutazione scolastica tradizionale. Con l’enunciazione di tali norme si assiste ad una svolta attraverso la quale si ridisegna il nuovo ruolo e volto della scuola italiana nella società democratica: esempio di ri-costruzione seguita all’orrore delle Leggi razziali (1938), ai genocidi e alle distruzioni.

Con la stagione del Sessantotto il tema dell’istruzione divampa nel dibattito politico. In Italia, così come in altre nazioni europee e negli Stati Uniti d’America, le agitazioni studentesche esprimono il disagio della prima generazione frutto della scuola di massa facendo emergere i suoi limiti, le sue contraddizioni. Nella Lettera a una professoressa (1967) don Lorenzo Milani matura il potere delle parole e del principio dell’uguaglianza sancito dalla Costituzione, lo fa proprio e lo attua sovversivamente in prima persona nella Scuola di Barbiana ove propone un’educazione linguistica democratica rivolta a tutti i cittadini.

Il 4 agosto di quarant’anni fa nel 1977 veniva emanata la Legge 517: una Legge che non solo modificava l’assetto organizzativo della scuola italiana (abolendo, ad es. le classi speciali e inserendo nelle classi comuni gli alunni disabili), ma modificava significativamente (attraverso l’art. 7) le norme sulla valutazione degli alunni ed eliminava, ad es., gli esami di riparazione. Introduceva, inoltre, la legge 517 l’avvio della programmazione didattica  collegiale e  indicazioni specifiche per il funzionamento del Collegio  docenti, dei consigli di classe, prevedendo la scansione bimestrale della verifica, la compilazione della scheda personale dell’alunno, le osservazioni sistematiche, la valutazione trimestrale, da comunicare ai genitori, (art. 4).

Il dirigente scolastico: un timoniere sotto gli occhiali della storia

Quest’articolo-saggio vuol essere un sommario (ovvero un riassunto ed una sistemazione diacronica) del profilo storico, giuridico, contrattuale del direttore didattico -preside- dirigente scolastico dalla sua istituzione (novembre 1903) alla L. 107/2015 (la cd. riforma della «Buona Scuola»).

Un sommario, breve ma completo, «a puntate», teso a raccontare, illustrare e fissare la «parabola» della figura sopra descritta nel suo arco storico cronologico.

Sul senso etimologico di questi sostantivi

Le ricerche e gli studi sull’orientamento biologico della linguistica chomskiana analizzzati, nel nostro Paese, con acume da Tullio De Mauro, Andrea Moro et alii de-scrivono il «linguaggio umano come un universo …. Le parole non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa […] Analizzare il linguaggio è come analizzare la luce, ci si trova nella stessa direzione». Il dirigente scolastico, nel realismo ontologico del pensiero e della parola, non può non soffermarsi su questo stesso lemma che trova come un tesoro, un dono. Leggi tutto “Il dirigente scolastico: un timoniere sotto gli occhiali della storia”