Europa per la scuola

Seconda puntata della nostra Rivista dedicata all’Europa, con una panoramica sulle esperienze positive che la progettazione Erasmus sta permettendo alle nostre scuole, ai nostri docenti ma soprattutto ai nostri studenti. Il confronto con la cultura e le tradizioni degli altri popoli, con i colleghi delle scuole coinvolte nei partenariati, sono, per stessa ammissione dei partecipanti, occasioni di crescita professionale, di stimolo a migliorare. Gli studenti che prima e dopo le visite di studio continuano negli anni a mantenere rapporti di amicizia e scambi di inviti sono la dimostrazione di quanto siano stretti alle nuove generazioni tutte le barriere e i muri che gli “adulti” cercano di creare. Muri non fisici e impossibili ed inesistenti nel mondo globale ma “muri”, separatezze culturali per iniettare odio e trovare capri espiatori per sviare dai veri problemi della nostra società che necessita di slanci culturali che solo dai giovani, dalla ricerca, dalle start up possono venire. “Muri” di odio che entrano anche nelle nostre aule e spingono un sedicente maestro di Foligno a sbeffeggiare uno studente per il suo colore della pelle.

Ho partecipato per 17 anni alla progettualità di Socrates, Comenius, LLP, Arion, Erasmus plus, E twinning, Comenius Regio e tutti i meeting e i progetti elaborati sono stati una grande occasione di crescita professionale, culturale ed umana per i miei studenti, docenti e per le comunità coinvolte. L’amicizia e l’affetto nati in brevi ma intensi incontri tra gli studenti partecipanti, tra studenti e famiglie ospitanti dimostrano quanto sia utile e necessario aprirsi all’altro, confrontarsi, non avere “paura”.

La scuola italiana deve essere grata all’Europa per aver offerto questa possibilità, questa opportunità e dobbiamo solo augurarci che possa esserci a breve, anche in occasione del rinnovo del Parlamento Europeo, una “Primavera dell’Europa”, per ripartire e costruire l’Europa dei popoli, l’Europa dei cittadini operosi e studiosi, capaci di ridare slancio all’idea fondante della Costituzione degli Stati Uniti d’Europa. Sarebbe opportuno riprendere la riscrittura della Costituzione dell’Europa proprio in un periodo in cui falsi e illusori sovranismi e cavalcanti populismi rischiano di minare le fondamenta di un progetto nato per crescere “uniti nella diversità”. Leggi tutto “Europa per la scuola”

L’Europa e le buone pratiche

In una società che si evolve in maniera sempre più rapida dal punto di vista tecnologico, è importante coinvolgere i nostri studenti a prendere consapevolezza delle opportunità che l’U.E. offre con i fondi strutturali e d’investimento europei 2014/2020.

Siamo nell’era del 4.0 e stiamo vivendo una condivisione globale in cui l’evoluzione tecnologica ha un impatto diretto sul nostro stile di vita e l’Europa rappresenta un un’enorme opportunità per la realizzazione di un unico linguaggio digitale. Da qui, le scuole hanno attivato il Piano Nazionale della Scuola Digitale per un processo di digitalizzazione dei processi d d’insegnamento.

L’U.E. è un progetto unico al mondo, nasce intorno ad obiettivi mirati e condivisi e la sua sopravvivenza è legata anche ai concetti di identità e cittadinanza, quindi ai sentimenti di appartenenza nazionale ed europea. Le differenze culturali e di lingua, rappresentano spesso un limite alla realizzazione del cittadino europeo che deve invece rafforzarsi attraverso la condivisione di doveri e vantaggi comuni.

Bisogna realizzare una nuova sfera di valori e principi di appartenenza e partecipazione, che parta da progetti legati alla cultura e all’educazione nelle scuole. I Paesi dell’U.E. sono responsabili dei propri sistemi educativi e formativi, mentre la Comunità Europea ha la funzione di fissare obiettivi comuni, di favorire lo scambio di buone pratiche, di supportare e incentivare le sfide comuni, che si esprimono nella mobilità, nell’apprendimento delle lingue, nel riconoscimento di qualifiche d’istruzione e professionali, nella formazione permanente, nella ricerca e nel sostegno all’imprenditorialità

Il programma Erasmus è lo strumento, che per anni ha dato un contributo concreto alla formazione di milioni di giovani, al punto che è ormai di uso corrente l’espressione “generazione Erasmus”, per indicare coloro che attraverso l’opportunità offerta da tale iniziativa, sono entrati in contatto con culture diverse e hanno appreso valori di democrazia, libertà e solidarietà.

Nel 2016 un nuovo accordo, sempre a Ventotene, rafforzava il programma Erasmus per un piano straordinario a livello europeo, con partenariati innovativi tesi a creare sinergie tra il mondo del lavoro e quello dell’istruzione, un maggiore spazio all’apprendimento permanente per l’acquisizione di competenze che offrano la possibilità di crescite lavorative e un incremento dell’occupazione, una formazione personale pensata in funzione dell’Europa digitale 4.0.

Il Parlamento ha anche discusso la possibilità di inserire l’Erasmus + in un accordo che garantisca la mobilità tra U.E. e Regno Unito, anche dopo la Brexit.

Le scuole italiane hanno utilizzato le occasioni offerte dalle risorse finanziarie europee, andando oltre le azioni dei Programmi, organizzandosi autonomamente, investendo in risorse interne e coinvolgendo sia i genitori che gli enti locali.

In questo numero, abbiamo chiesto alle Scuole, di raccontare alcune esperienze che, valorizzando il loro impegno con esiti positivi, hanno colto gli stimoli e gli orientamenti delle politiche educative in dimensione europea.

Si voleva far emergere, attraverso il racconto, alcuni punti generali connessi alle attività di cooperazione e all’introduzione della dimensione europea nella scuola e della loro ricaduta in termini di cambiamenti innovativi.

Tutti i contributi hanno fatto emergere l’impegno del cammino intrapreso, attraverso la passione, le emozioni, la creatività, evidenziando anche la volontà di voler cambiare lo stare a scuola, attraverso la cooperazione europea.

Quando una Scuola promuove il cambiamento, attraverso l’introduzione della dimensione europea, sente anche il bisogno di sviluppare la propria capacità di entrare in rete con altre istituzioni, coinvolgendo Comuni, associazioni e altre realtà territoriali, superando così la propria autoreferenzialità.

In tale scenario la mobilità e la conoscenza delle lingue, diventano uno strumento per diffondere la dimensione europea all’esterno delle scuole, comportando ricadute positive, come la forte motivazione all’apprendimento, la maggiore sicurezza nell’affrontare ambienti estranei al proprio quotidiano e la maggiore volontà di trovare forme comunicative efficaci.

Tutti i risultati conseguiti, portano un cambiamento non solo sul piano soggettivo, ma anche modifiche sostanziali all’organizzazione scolastica. In questo contesto, gli alunni diventano protagonisti del loro apprendimento e il docente diventa mediatore di saperi e stimolatore di nuove sensibilità, emozioni, autostima.

Ogni percorso verso il cambiamento può incontrare ostacoli legati alla gestione e all’organizzazione, il desiderio di cambiare si può scontrare con la paura del nuovo e del diverso. Si teme che il confronto obblighi a rivedere i contenuti della propria professionalità, a impegnarsi in nuove relazioni con colleghi, alunni, genitori e a dover rendere conto del proprio operato anche all’esterno della scuola.

Il panorama delle attività di cooperazione europea avviato dalle scuole è veramente ampio e solo con l’esperienza e il confronto si potrà generare il cambiamento in cui l’apprendimento permanente potrà diventare un’attitudine naturale. Leggi tutto “L’Europa e le buone pratiche”

La “cittadinanza” nello scenario europeo

La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (2ª parte)

Il concetto di cittadinanza è nato in Occidente nelle polis greche. Anche se il termine deriva dal latino civis, le qualità proprie di un cittadino sono tracciate per la prima volta nelle città greche del periodo classico. Nelle polis dell’antica Grecia gli stranieri, ovvero coloro che non parlano greco, sono considerati barbari, mentre gli Elleni, che hanno in comune lingua, costumi e religione sono accettati nella comunità e, anche se per la maggior parte ancora esclusi dalle cariche politiche, essi hanno il diritto di partecipare alla gestione degli affari pubblici.

Nell’antica Roma è considerato cittadino a pieno titolo il maschio adulto, libero, che partecipa a tutte le attività dello Stato e si contrappone non soltanto allo straniero non residente, ma anche agli stranieri residenti, alle donne e agli schiavi. Il popolo formato da soggetti dotati di pienezza di diritti è arbitro della pace e della guerra, delle leggi, dell’amministrazione della giustizia. La “civitas” si fonda sull’utilità comune e sulla dedizione alla res pubblica e, a differenza della polis greca, nel territorio di Roma, essa viene estesa prima ai latini poi agli italici, poi a tutti gli altri abitanti dell’Impero.

La nozione di cittadinanza ha conosciuto un periodo di stallo durante il Medioevo e l’epoca delle monarchie, in quanto il potere assoluto limita ed esclude nella maggior misura possibile il popolo dalla vita politica. Il termine è riapparso in Inghilterra nel XVII secolo grazie all’opera di Thomas Hobbes, quando si riferisce alle tematiche di cittadinanza e dei fondamenti della politica, ampliata grazie alle teorie giusnaturalistiche e alla cultura illuministica. La filosofia del diritto naturale ha modificato radicalmente la rappresentazione del soggetto, che ha acquistato un nuovo status accanto a quello di suddito-cittadino, vale a dire la condizione di uomo, a cui sono state riconosciute nuove caratteristiche inderogabili quali lo stato di natura, i bisogni e i diritti fondamentali.

Il filosofo inglese John Locke, padre del liberalismo moderno, ha introdotto la teoria secondo la quale il soggetto è anteriore e precedente rispetto alla sovranità dello Stato e all’ordine sociale, ma la vera svolta è avvenuta grazie all’opera del filosofo francese Jean Jacques Rousseau, considerato ancora oggi il padre della democrazia moderna. Secondo Rousseau l’appartenenza statale è collegata al principio di libera volontà. Il cittadino è prima di tutto colui nel quale risiede la sovranità ed è lui a delegarla ad un ente superiore. Egli non è più suddito, ma essere razionale capace di creare e scegliere il proprio governo. Nasce così il concetto di popolo come soggetto politico (il demos) inteso come l’insieme dei cittadini che, attraverso la sottoscrizione di un contratto sociale, decidono autonomamente di vivere sotto un ordinamento costituzionale comune.

La maturazione degli ideali democratici introdotti nel corso del XVIII secolo ha portato in tutta Europa un processo di cambiamento sostenuto dalla necessità di nuovi assetti politici e sociali che includessero i popoli nella gestione della vita pubblica della nazione cui appartengono.

Con lo scoppio della Rivoluzione Francese e la conseguente stesura della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” varata dall’Assemblea Nazionale, per la prima volta all’interno di uno Stato europeo, tutti gli uomini di una nazione sono stati considerati come “liberi ed eguali nei diritti”. Indubbiamente questa è stata la svolta che ha introdotto la concezione moderna di cittadinanza come contenitore di una serie di diritti soggettivi, un concetto che si è affermato come eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, in quanto soggetti di diritto, detentori della sovranità e membri della nazione.

Nella Francia rivoluzionaria il cittadino è tale semplicemente perché appartiene al nuovo stato costituito (ius soli), fondato sugli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. La cittadinanza è “generale”, poiché estesa a tutti coloro che si trovano sul territorio francese, e “astratta”, in quanto riconosciuta al di là dell’appartenenza ad un determinato ceto o gruppo sociale. Gli individui sono considerati uguali in quanto cittadini e hanno il diritto di essere rappresentati politicamente in un’Assemblea Nazionale.

Nella fase giacobina della Rivoluzione questa visione del concetto di cittadinanza si è ulteriormente ampliata, venendo a coincidere con l’identità collettiva della comunità politica: tutti possono essere cittadini, ma devono condividere gli scopi e i valori dello Stato. Coloro che non accettano di farlo, vengono identificati come Controrivoluzionari e combattuti come nemici.

Un’ulteriore svolta si è verificata con l’avvento del Romanticismo e con la reazione anti-illuministica: l’uomo non costituisce più il punto di partenza da cui nasce uno Stato, ma lo Stato-nazione diventa un’entità a se stante. Tale punto di vista è stato rafforzato dalla cultura positivistica, che si è affermata in pieno Ottocento e che ha contestato l’individualismo sostenuto dalle teorie illuministe e ha caratterizzato il soggetto in base al vincolo di solidarietà organica che lo lega alla comunità. Ad accomunare le teorie dei secoli XVIII e XIX vi è comunque l’assoluta fiducia nella libertà, vista come connotato irrinunciabile per qualsiasi soggetto.

La fiducia in una società fatta di collaborazione e di crescita progressista si è tuttavia incrinata alla fine del XIX secolo con il diffondersi di nuovi ideali e con l’inizio di un periodo identificato storicamente come imperialismo. Le date che hanno segnato l’inizio della crisi sono state il 1871, che ha visto la repressione nel sangue dell’esperimento democratico della Comune di Parigi, e il 1885, l’anno del Congresso di Berlino, durante il quale le grandi potenze europee si sono divise i territori delle colonie africane.

Il panorama culturale e filosofico in questi anni è cambiato radicalmente e all’ottimismo si è sostituito l’irrazionalismo, una corrente che ha caratterizzato il pensiero del XX secolo, spesso definito come secolo della crisi. La crisi è stata generata dagli eventi storici e politici ed ha interessato ogni aspetto della società, dai valori morali alle istituzioni. Sentimenti come il nazionalismo, il militarismo, il colonialismo, il razzismo e l’avversione per gli ideali democratici e socialisti si sono diffusi rapidamente e hanno portato alla prima guerra mondiale. In un clima di totale sovvertimento, anche il concetto di cittadinanza è entrato in crisi: esso non può più fondarsi sull’idea pacifica di equilibrio tra soggetto e stato.

Il ‘900 apre una nuova epoca, quella della società di massa, la quale, in qualità di nuovo soggetto collettivo, ha iniziato a mettere in discussione i parametri che fino ad allora avevano definito l’appartenenza e il rapporto tra l’uomo e il diritto alla cittadinanza. L’avvento dei regimi totalitari fascisti e nazionalisti ha costituito una vera e propria negazione dell’autonomia e della libertà del soggetto, il quale viene subordinato a entità collettive quali lo Stato-nazione e la razza. Il diritto alla cittadinanza, come ogni altro diritto fondamentale, ha subito in questi anni un attacco senza precedenti: il rapporto tra soggetto e Stato si inverte, non è più l’uomo al centro della comunità ma è lo Stato e ogni discorso comune di solidarietà e collaborazione è abbandonato. In questo malsano rapporto, è lo Stato che ingloba l’individuo, togliendogli ogni libertà. Leggi tutto “La “cittadinanza” nello scenario europeo”

Le fonti del diritto dell’Unione Europea

Natura giuridica dell’Unione Europea

L’Unione Europea è un soggetto politico, con personalità giuridica, a carattere sovranazionale ed intergovernativo, che adotta varie modalità di governo (multilevel governance). Si tratta di un’entità sui generis, che non corrisponde a una semplice organizzazione intergovernativa (come le Nazioni Unite), né ad una Federazione di Stati (come gli Stati Uniti d’America). Gli Stati membri delegano alle Istituzioni dell’U.E. parte della loro sovranità nazionale, accettando – in riferimento a specifiche materie – di non legiferare se non attraverso atti giuridici di ricezione delle norme comunitarie. Tali materie si inquadrano nell’ambito di tre Pilastri fondamentali, individuati dal Trattato di Maastricht e su cui, come si evince dal Trattato dell’U.E. (T.U.E.), l’Unione Europea centra la propria azione. Il primo Pilastro si occupa di Politiche della Comunità Europea (CECA, CEE e Comunità Europea: libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali, immigrazione, politica economica e monetaria, cultura, politica sociale, formazione professionale e gioventù). Il secondo Pilastro si occupa di politica estera e di sicurezza comune (PESC), il terzo di cooperazione in materia penale e di polizia giudiziaria.

Va però considerato che oggi il sistema dei Pilastri è stato formalmente superato dal Trattato di Lisbona (2009), col quale sono stati ridefiniti i Documenti fondamentali dell’U.E. (il T.U.E., il T.F.U.E. e la Carta di Nizza, riqualificata nel 2007 come “Carta dei Diritti fondamentali dell’U.E.” ed equiparata ai Trattati istitutivi sotto il profilo del valore giuridicamente vincolante). La suddivisione in tre Pilastri non rispondeva tanto a logiche di classificazione delle competenze quanto alle diverse procedure decisionali utilizzate e al diverso nomen iuris degli atti normativi adottati nell’ambito di ciascun Pilastro. Infatti, in relazione al primo Pilastro, si usa il metodo decisionale detto “comunitario”, che porta all’adozione di Regolamenti, Direttive, Decisioni. In riferimento al secondo e al terzo Pilastro, invece, il metodo decisionale “intergovernativo” porta alla determinazione di strategie comuni, azioni comuni e posizioni comuni, oltre che di decisioni e di decisioni-quadro (III Pilastro).

Per alcune materie quindi (come ad esempio gli Affari interni), l’U.E. è più somigliante ad una Confederazione, per altre (si veda la politica estera) invece agisce come un’organizzazione internazionale o come una Federazione di Stati (si prendano ad esempio l’euro e le politiche ambientali). Inoltre, l’U.E. rappresenta una zona di libero mercato, con l’adozione di una moneta unica, l’Euro, regolata dalla BCE e utilizzata da 18 paesi sui 28 attualmente facenti parte dell’Unione Europea (va però registrata l’imminente uscita dell’Inghilterra dall’Unione, la cd. “brexit”, per effetto del referendum inglese del 2018). L’U.E. rappresenta anche un’unione doganale per i Paesi che hanno aderito al trattato di Schengen (libertà di circolazione delle merci e di movimento delle persone, compresa la libertà di investire capitali e di lavorare nei paesi U.E.).

Il diritto dell’Unione Europea

Il sistema giuridico dell’Unione europea è costituito dall’insieme di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo dell’Unione europea e i rapporti tra questa e gli Stati membri.

L’Unione europea dispone di personalità giuridica e, in quanto tale, di un proprio ordinamento giuridico a sé stante, distinto dall’ordinamento internazionale e dagli ordinamenti nazionali dei singoli Stati membri. Il diritto dell’U.E. è quindi un sistema giuridico indipendente che prevale sulle disposizioni giuridiche nazionali. Stante l’atipicità del soggetto giuridico cui ha dato luogo l’Unione degli stati europei, il cd. “diritto comunitario” non rientra nell’ambito del diritto internazionale pubblico, ma è piuttosto inquadrabile come diritto sovranazionale, caratterizzato però, a sua volta, da una serie di elementi tipici del diritto interno. E’ previsto, ad esempio, un vero e proprio sistema sanzionatorio per le inadempienze da parte degli Stati membri; alcune norme giuridiche hanno inoltre efficacia diretta non solo nei confronti degli stessi Stati membri, ma anche dei privati, cittadini dell’U.E. In effetti, il Diritto dell’Unione Europea ha una sua collocazione intermedia tra Diritto internazionale e nazionale, rappresentando una sorta di tertium genus in virtù del quale gli Stati membri hanno ceduto, per alcune materie, parte della propria potestà legislativa e della sovranità in materia di produzione normativa ad un soggetto terzo, l’U.E.

Il diritto UE ha quindi un effetto, diretto o indiretto, sulle disposizioni legislative dei suoi Stati membri ed entra a far parte del sistema giuridico di ciascuno Stato membro. L’Unione europea è in sé fonte di diritto. L’ordinamento giuridico è normalmente suddiviso in diritto primario (trattati e principi generali del diritto), diritto derivato (sulla base dei trattati) e diritto complementare.

Fonti di diritto primario

Norme primarie del sistema giuridico dell’Unione europea sono in primo luogo le norme convenzionali contenute nei Trattati istitutivi delle Comunità europee e dell’Unione europea, nei quali si definiscono le funzioni e le responsabilità delle istituzioni e degli organismi dell’U.E. che partecipano ai processi decisionali, nonché le procedure legislative, esecutive e giuridiche che caratterizzano il diritto comunitario e la sua applicazione. Tali trattati contengono le norme formali e sostanziali che costituiscono il quadro in cui le istituzioni attuano le varie politiche delle Comunità europee e dell’Unione europea e fissano le norme formali che sanciscono la ripartizione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri e che fondano il potere delle istituzioni. Assumono lo status di diritto primario anche le norme contemplate in quegli accordi internazionali successivamente stipulati per modificare ed integrare i Trattati istitutivi.

Il nucleo principale dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea è rappresentato dai Trattati che hanno istituito le Comunità europee e l’Unione europea, ossia:

  • il Trattato costitutivo della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrato in vigore il 23 luglio 1952, insieme ai due Protocolli sullo Statuto della Corte di giustizia e sui privilegi e le immunità;
  • Trattati costitutivi della CEE (Comunità economica europea) della CEEA (Comunità europea dell’energia atomica) o Euratom, firmati a Roma il 25 marzo 1957 ed entrati in vigore il 1º gennaio 1958, insieme allo Statuto della Corte di giustizia, nonché alla Convenzione su talune istituzioni comuni;
  • il Trattato istitutivo dell’Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1º novembre 1993.

A questi atti devono aggiungersi quelli che nel corso del tempo hanno modificato o integrato le disposizioni originarie:

  • il Trattato sulla fusione degli esecutivi, firmato a Bruxelles l‘8 aprile 1965 ed entrato in vigore il 1 luglio 1967 (ora abrogato dal Trattato di Amsterdam che ne ha però conservato le disposizioni principali), che ha istituito un Consiglio unico ed un’Assemblea unica per tutte e tre le Comunità, senza per questo procedere ad una fusione giuridica delle stesse;
  • l‘Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 28 febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1º luglio 1987, il cui obiettivo principale è l’instaurazione progressiva del mercato interno;
  • il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1º maggio 1999, che ha ulteriormente modificato i Trattati istitutivi apportando modifiche alle procedure decisionali e “comunitarizzando” alcuni settori che, in precedenza, rientravano nell’ambito della cooperazione intergovernativa;
  • il Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 ed entrato in vigore il 1º febbraio 2003, che apporta soprattutto modifiche di carattere istituzionale;
  • il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1º dicembre 2009.

Il trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati alla Carta di Nizza (2000), riqualificata nel 2007 “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, con l’individuazione del gruppo dei diritti, o eccezionali libertà, di cui godono tutti i cittadini dell’U.E. A seguito del Trattato di Lisbona, i trattati di riferimento sono ora sostanzialmente due: il Trattato sull’Unione europea (T.U.E.) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (T.F.U.E.), sostitutivo del Trattato istitutivo della Comunità europea, che hanno lo stesso valore giuridico. Resta, inoltre, in vigore il Trattato Euratom del 1957. Mentre il Trattato sull’Unione europea si configura come un Trattato “base”, che definisce le norme essenziali e stabilisce i valori, i principi fondamentali, le competenze e l’assetto istituzionale dell’Unione, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è piuttosto un Trattato applicativo, in quanto fissa le regole di funzionamento delle istituzioni e degli organi, e disciplina il mercato interno e le politiche, definendone il quadro di riferimento. I Trattati che regolano l’U.E. (T.U.E. e T.F.U.E.) non hanno carattere costituzionale, hanno a loro volta abrogato definitivamente ogni riferimento alla CE, sostituito dell’U.E. (soggetto con personalità giuridica) e sanciscono il valore giuridicamente vincolante della Carta dei Diritti Fondamentali.

Fonti di diritto derivato

Il diritto dell’Unione europea derivato comprende gli atti giuridici adottati dalle istituzioni europee, nei limiti delle competenze e con gli effetti che il Trattato sancisce. Si tratta di atti che vengono posti in essere attraverso procedimenti deliberativi che si svolgono e si esauriscono in modo del tutto indipendente da quelli legislativi e amministrativi nazionali. Si tratta però di atti destinati a incidere in modo rilevante sugli ordinamenti giuridici nazionali, talvolta senza che occorra un intervento formale del legislatore e/o dell’amministrazione nazionale, talvolta imponendo all’uno e/o all’altra un’attività normativa, allo scopo di armonizzare la normativa nazionale con le fonti del diritto europeo (come è recentissimamente capitato con l’entrata in vigore del GDPR 679/2016 U.E. sulla protezione dei dati personali, che ha sensibilmente inciso sull’ordinamento giuridico dei singoli stati membri, rendendo necessaria in Italia l’adozione di un Decreto Legislativo ad hoc, il D. Lgs. 101/2018, per la revisione del previgente Codice della Privacy), oppure di rendere vincolanti anche per i singoli gli impegni sottoscritti a livello europeo, ovvero di precisare o integrare obbligazioni solo delineate dall’atto ma lasciate alla discrezionalità degli Stati membri quanto alla realizzazione definitiva del suo contenuto.

Nell’ambito di tale sistema va inquadrato l’art. 288 T.F.U.E. che definisce la tipologia degli atti per mezzo dei quali le istituzioni dell’Unione europea esercitano le competenze loro attribuite: si tratta dei regolamenti, delle direttive, delle decisioni (atti dotati di forza vincolante), delle raccomandazioni e dei pareri (atti non vincolanti).

Regolamenti sono atti a portata generale con valore erga omnes: non si rivolgono a specifici destinatari indicati espressamente o comunque individuabili a priori, ma a categorie di soggetti determinate in astratto e nel loro insieme. Sono obbligatori in tutti i loro elementi per le stesse Istituzioni, per gli Stati membri o per i loro cittadini: ciò significa che non è consentita una loro applicazione solo parziale o incompleta né qualsiasi modifica o trasposizione suscettibile di incidere sulla portata o sul contenuto dell’atto. Essi sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati Membri a partire dalla loro entrata in vigore (alla data specificata o, in assenza di indicazione, venti giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Comunità europea – GUCE), senza necessità di recepimento nel diritto nazionale. Si integrano automaticamente nei sistemi giuridici statali e producono effetti immediati nei confronti di tutti i soggetti di diritto interno, senza interposizione di alcuna misura nazionale di recepimento o pubblicazione. Non hanno quindi bisogno di alcun atto di recezione o attuazione da parte degli Stati membri: anzi qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve considerarsi illegittima, poiché potrebbe “nascondere agli amministrati la natura comunitaria di una norma giuridica” e “sminuire la competenza della Corte di Giustizia europea a pronunciarsi su qualsiasi questione di interpretazione del diritto comunitario.” I Regolamenti devono essere pienamente rispettati dai destinatari (singoli individui, Stati membri, istituzioni dell’Unione) e sono volti a garantire l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri. Ne consegue che le norme nazionali incompatibili con le clausole sostanziali contenute nei regolamenti sono rese inapplicabili dagli stessi.

Le Direttive sono indirizzate solo agli Stati membri e vincolano i destinatari solo riguardo al risultato da raggiungere, lasciando alla loro discrezionalità e alla competenza degli organi nazionali la scelta dei mezzi e della forma necessari per conseguire tale risultato. Le Direttive quindi non hanno portata generale (se non nel senso che possono rivolgersi a tutti gli Stati membri) e hanno la funzione di imporre obblighi di risultato nei confronti degli stessi Stati membri, che ne sono unici destinatari. Esse non hanno una applicabilità diretta: il Legislatore nazionale deve a sua volta adottare un atto di recepimento, ossia una «misura nazionale di esecuzione» nel diritto interno, che deve adattare la legislazione nazionale rispetto agli obiettivi definiti nella direttiva. Di conseguenza, solo a seguito dell’adozione dei provvedimenti nazionali di recepimento, possono derivare dalla direttiva obblighi e diritti per i soggetti degli ordinamenti interni. Si tratta di uno strumento di legislazione indiretta, o a due stadi (una sorta di legge-quadro), mediante cui non si vogliono porre regole uniformi, in considerazione anche della difficoltà di conciliare le notevoli diversità esistenti negli ordinamenti giuridici  nazionali, ma si preferisce attivare una collaborazione tra il livello comunitario e quello nazionale, lasciando liberi gli Stati membri di determinare essi stessi le modifiche da apportare alla propria normativa interna per renderla conforme al risultato perseguito dalla direttiva. In sostanza, ai singoli cittadini vengono attribuiti diritti e imposti obblighi solo una volta adottato l’atto di recepimento. Gli Stati membri per il recepimento dispongono di un certo margine di manovra che permette loro di tenere conto di specifiche circostanze nazionali. Il recepimento e l’adozione di tutte le misure necessarie per l’attuazione della direttiva devono avvenire entro il termine stabilito nella direttiva stessa. Nel recepire le direttive gli Stati membri sono tenuti ad assicurare l’efficacia del diritto dell’Unione, in virtù del principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, del T.U.E. Se è vero che, in linea di principio, le direttive non sono direttamente applicabili, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha però statuito che alcune disposizioni di una direttiva possono, in via eccezionale, produrre effetti diretti in uno Stato membro senza che quest’ultimo abbia in precedenza adottato un atto di recepimento se: a) la direttiva non è stata recepita o è stata recepita in modo errato nell’ordinamento nazionale; b) le disposizioni della direttiva sono, da un punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente chiare e precise; c) le disposizioni della direttiva conferiscono diritti ai singoli. Qualora sussistano tali presupposti, i singoli possono invocare le disposizioni della direttiva dinanzi alle autorità pubbliche.

Le Decisioni sono obbligatorie e vincolanti in tutti i loro elementi e in tutte le loro parti. Generalmente designano specifici destinatari (Stati membri, persone fisiche o persone giuridiche) e sono obbligatorie soltanto nei loro confronti, trattando situazioni specifiche e fatti concreti in riferimento a detti Stati membri o a dette persone. Al pari delle Direttive, le Decisioni possono implicare l’obbligo, per uno Stato membro, di concedere a singoli cittadini una posizione giuridica più vantaggiosa. Il privato può quindi far valere diritti attribuiti mediante una Decisione destinata a uno Stato membro solo se quest’ultimo ha adottato un atto di recepimento. Le Decisioni possono essere direttamente applicabili alle stesse condizioni previste per le direttive.

Oltre agli atti dotati di forza vincolante, l’art. 288 T.F.U.E. prevede altri due tipi di atti: le Raccomandazioni ed i Pareri, che non sono vincolanti e non fanno sorgere alcun diritto o obbligo per i rispettivi destinatari, ma possono fornire indicazioni sull’interpretazione e il contenuto del diritto dell’Unione. In base a quanto previsto dall’art. 292 T.F.U.E., il potere generale di adottare raccomandazioni è assegnato al Consiglio. Anche la Commissione e la Banca Centrale Europea possono adottare raccomandazioni, ma soltanto nei casi specifici previsti dai Trattati. Il potere generale di emettere pareri è assegnato al Parlamento europeo; specifiche ipotesi per le quali altre istituzioni emanano pareri sono previste nei Trattati.

Una distinzione tra i due tipi di atti non vincolanti può essere operata in base alle loro diverse finalità. Mentre la raccomandazione ha, infatti, il preciso scopo di sollecitare il destinatario a tenere un determinato comportamento giudicato più rispondente agli interessi comuni, il parere tende piuttosto a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette, in ordine a una specifica questione.

Le istituzioni dell’UE possono adottare atti giuridici di diritto derivato solo se i Trattati conferiscono loro la dovuta competenza. Il principio di attribuzione, su cui si fonda la delimitazione delle competenze dell’Unione, è esplicitamente sancito all’articolo 5, paragrafo 1, del T.U.E. Il T.F.U.E. precisa la portata delle competenze dell’Unione, suddividendole in tre categorie: competenze esclusive (articolo 3), competenze concorrenti (articolo 4) e competenze di sostegno (articolo 6), in base alle quali l’UE adotta misure a sostegno o a complemento delle politiche degli Stati membri. I settori oggetto di questi tre tipi di competenza sono elencati chiaramente agli articoli 3, 4 e 6 del T.F.U.E. In mancanza dei poteri di azione necessari per realizzare uno degli obiettivi previsti dai Trattati, le Istituzioni possono fare ricorso alle disposizioni dell’articolo 352 T.F.U.E. e adottare quindi le disposizioni appropriate. In linea generale, però, le istituzioni adottano esclusivamente gli strumenti giuridici elencati all’articolo 288 TFUE, soprattutto in relazione alle materie rientranti nel cd. “primo Pilastro” (CECA, CEE e Comunità Europea), per le quali prevale il cd. “metodo comunitario”, che marginalizza il ruolo dei governi nazionali. Fanno eccezione le materie inerenti ai Pilastri di politica estera, di sicurezza e di difesa comune (PESC) e di cooperazione giudiziaria e in materia di polizia penale, che continuano a essere soggette al “metodo intergovernativo”. In questi ambiti, le strategie comuni, le azioni comuni e le posizioni comuni sono sostituite dagli «orientamenti generali» e dalle «decisioni» che definiscono le azioni e le posizioni che l’Unione deve adottare, come pure le relative modalità di attuazione (articolo 25 del TUE), con conseguente maggiore potere decisionale lasciato ai singoli Stati membri rispetto all’U.E. Per le materie relative all’istruzione e alla formazione viene invece utilizzato il “metodo aperto del coordinamento”, stante l’autonomia dei singoli Stati membri nel definire e regolamentare i rispettivi sistemi educativi.

Fonti di diritto complementare

Oltre alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, le fonti di diritto complementare comprendono il diritto internazionale e i principi generali del diritto. Tali fonti hanno permesso alla Corte di Giustizia di colmare i vuoti lasciati dal diritto primario o derivato. Nell’elaborare la sua giurisprudenza la Corte di giustizia si ispira al diritto internazionale, cui fa riferimento tramite rinvii al diritto scritto, alla consuetudine e agli usi. Ad esempio, essa si è basata sulle norme di diritto internazionale relative al “treaty making power” (capacità internazionale di concludere accordi con organizzazioni e paesi terzi), derivante dalla personalità giuridica internazionale, per convalidare gli accordi esterni conclusi dalla Comunità europea.

I principi generali del diritto dell’Unione sono menzionati di rado nei trattati. Tali principi sono stati prevalentemente sviluppati attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia europea (certezza del diritto, equilibrio istituzionale, legittimo affidamento, ecc.), che è altresì la base del riconoscimento dei diritti fondamentali quali principi generali del diritto dell’Unione. Tali principi sono ormai sanciti dall’articolo 6, paragrafo 3, del TUE, che fa riferimento ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, come pure dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Sitografia di riferimento:

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Fonti_del_diritto_dell%27Unione_europea

http://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/6/fonti-e-campo-di-applicazione-del-diritto-dell-unione-europea

Si veda anche:

  1. R. Salvi, “Il Dirigente Scolastico. Normativa, organizzazione, processi di gestione, valutazione delle scuole e gestione del personale, organizzazione degli ambienti di apprendimento, elementi di diritto civile ed amministrativo, contabilità delle istituzioni scolastiche, sistemi educativi europei”, Roma, 2018, pagg. 67 sgg.

Leggi tutto “Le fonti del diritto dell’Unione Europea”

Mediterraneo. Confine o ponte?

Proposta progettuale della Direzione Didattica 1° Circolo di Maglie (Lecce) – riflessioni sul pensiero e l’azione a tutela dei Diritti Umani

La Scuola, nel processo di sviluppo sociale e culturale del territorio di riferimento e in un’ottica di governance innovativa, si afferma, oltre che come “servizio”, come “progetto” e, pertanto, si fonda su un sistema condiviso di atteggiamenti, comportamenti e pratiche improntati alla qualità, al miglioramento e all’assunzione di responsabilità. Al contempo, si valorizzano le relazioni di fiducia e fattiva collaborazione con il territorio, mediante fondamentali sinergie.

La funzione sociale della scuola si ricapitalizza.

Un’interessante iniziativa si sviluppa, nell’anno scolastico in corso, nella scuola in cui svolgo la mia attività di docente. Si tratta di una proposta progettuale di Cittadinanza e Costituzione, pensata ed orientata dalla Dirigente Scolastica, Professoressa Maria Stella Colella, e declinata sulla base delle risultanze di un’attenta riflessione collegiale. Il Progetto mira a fornire, agli alunni e alle alunne della Direzione Didattica 1° Circolo di Maglie (Lecce), un percorso interdisciplinare e culturale “volto a favorire la costruzione di un saldo corredo assiologico per la formazione di persone libere e critiche, protagoniste consapevoli della crescita della comunità locale e internazionale nella quale vivono ed operano”.

La tematica, che si articola in verticale dalla Scuola dell’Infanzia alla Scuola Primaria, è quanto mai attuale. Essa esprime un’urgenza e un’esigenza formativa di stringente importanza: la sollecitazione e l’assunzione di atteggiamenti a tutela della libertà di pensiero, dello spirito critico e dei Diritti Umani.

Il titolo del Progetto è un interrogativo coinvolgente, trascinante: “Mediterraneo. Confine o ponte?”; come a voler significare la preminenza di una riflessione (collegiale e degli stakeholders tutti) sul tema. È un interrogativo che non richiede al percorso educativo didattico implementato la consegna di risposte, ma che intende “aprire piuttosto alla scoperta, allo stupore e al dubbio, al bisogno di conoscenza, accendendo fari sulle molteplici problematiche di un’area, quella mediterranea, oggi al centro dell’attenzione internazionale”.

Tra i “personaggi – ponte” ai quali il percorso progettuale affida la funzione di guida alla riflessione e all’analisi delle dinamiche che hanno caratterizzato e caratterizzano le relazioni tra Oriente e Occidente, vi è Aldo Moro, statista, accademico e giurista italiano.

Aldo Romeo Luigi Moro, nato a Maglie, in provincia di Lecce (città in cui ha sede la scuola che sviluppa il Progetto in questione), fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana, nonché suo rappresentante alla Costituente, dove, nel 1946, fu relatore della parte del testo costituzionale relativa ai “diritti dell’uomo e del cittadino”.

Il ricordo di Aldo Moro, nell’immaginario collettivo, è legato al tragico epilogo della sua vita, avvenuto il 16 marzo del 1978, quando un commando delle Brigate Rosse stermina i cinque uomini della scorta e sequestra per poi assassinare lo statista. In realtà, lo sfortunato politico è un insigne protagonista della storia politica del Novecento. Egli fu un fervente ed efficace sostenitore de “l’idea di valore di tutte le persone, del diritto di tutti i popoli, della giustizia sociale nelle nazioni, della eguale dignità delle nazioni, della loro cooperazione sempre più stretta, di una autorità universale, di una pace emergente, sullo sfondo di una inaccettabile guerra distruttiva della civiltà, come un’appassionata richiesta della coscienza morale dell’umanità” (Aldo Moro, Intervento del 3 marzo 1966 alla Camera dei Deputati; cfr. Aldo Moro: <<frammenti della memoria>> Diritti Umani – Accademia Aldo Moro – www.accademiaaldomoro.org > public).

Da qui l’alta rilevanza formativa e culturale della proposta progettuale della Direzione Didattica 1° Circolo di Maglie, che, mediante il processo di attuazione della sua Mission, mira a garantire le conoscenze e le competenze necessarie alla promozione dello sviluppo sostenibile, anche mediante un’educazione volta alla tutela dei Diritti Umani.

Ho chiesto a Giorgio De Giuseppe, Senatore per sei legislature, nel corso delle quali è stato Presidente del gruppo Parlamentare della Democrazia Cristiana (1983 – 1985)  e per tredici anni Vicepresidente Vicario del Senato (1985 al 1994), candidato alla presidenza della Repubblica nelle elezioni del 1992, un’opinione, in riferimento all’iniziativa progettuale in questione, sulla valenza formativa del pensiero di Aldo Moro.

La risposta del Senatore De Giuseppe è stata la seguente: “Moro, da quando aveva venticinque anni, quando assunse l’incarico per l’insegnamento di Filosofia del Diritto nell’Università di Bari, ha sempre svolto il ruolo del formatore delle intelligenze e delle coscienze dei giovani. La tesi intorno alla quale il pensiero di Moro ruota, sia per quanto riguarda la Filosofia del Diritto, sia per quanto riguarda il Diritto Penale, è la centralità dell’Uomo. L’Uomo è al centro dell’Universo e l’Universo deve compiere tutte le azioni e le iniziative che facilitino lo sviluppo della personalità dell’individuo.”

Al politologo Antonio Stango, che si occupa di Diritti Umani, fin dai primi anni Ottanta, anche conducendo missioni sul campo e dirigendo progetti internazionali in diversi Paesi, autore di numerosi saggi e articoli sulla materia, attualmente Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani e docente alla Link Campus University di Roma, ho rivolto la seguente domanda:

qual è la cifra persistente ed efficace del pensiero moroteo che gli alunni dovrebbero cogliere per essere cittadini del mondo, impegnati e attivi a difesa dei Diritti Umani?

Moro fu innanzitutto un giurista; e proprio sulla propria concezione del Diritto impostò anche i rapporti internazionali dell’Italia, da ministro degli esteri o da Presidente del Consiglio. Era convinto che si potessero ridurre le gravi divergenze fra Stati – anche molto distanti per formula politica, come fra i blocchi contrapposti negli anni della ‘guerra fredda’ – attraverso convenzioni o altri accordi, in particolare incentrati sui diritti umani: tanto quelli civili e politici, cari ai sistemi di democrazia liberale, quanto quelli economici, sociali e culturali, richiamati più spesso (seppure in modo incoerente) dai regimi del ‘socialismo reale’. Fu un convinto sostenitore della storica Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, il cui Atto Finale nel 1975 sancì che il rispetto effettivo dei diritti umani è condizione indispensabile per il disarmo e la pace. Volle anche che quel documento includesse un accenno alla cooperazione con gli Stati non europei del Mediterraneo meridionale: una grande intuizione, anche se più difficile da sviluppare e non priva di trappole e pericoli data la forte conflittualità non convenzionale della regione. Per quanto riguarda la scuola, va ricordato che, da ministro della Pubblica Istruzione, provò ad introdurre l’insegnamento dell’Educazione Civica: materia che a mio parere dovrebbe essere pilastro nella formazione di ogni cittadino”.

L’Unione Europea promuove e tutela i Diritti Umani, ai quali attribuisce un’importanza decisiva ai fini delle proprie relazioni con altri Paesi e Regioni del mondo.

A tal proposito, ho chiesto all’avvocato Giuseppe Ruscigno, Presidente del Comitato Federazione Italiana Diritti Umani di Bari e cultore della materia giuridica presso l’Università LUM “Jean Monnet”, quali tra gli atti e le iniziative della UE, idonei a ad ispirare le politiche comunitarie sul tema e a conferir loro efficacia e visibilità, possono sollecitare, negli allievi, una proficua riflessione?

“Tra gli atti della UE, merita sicuro cenno la “Carta dei diritti fondamentali”, la quale, rifacendosi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, proclama i diritti fondamentali vincolanti per le istituzioni e gli organi dell’UE e trova applicazione agli Stati membri quando conferiscono declinazione pratica al diritto eurounitario.

L’attenzione dell’UE ai diritti umani non si ferma, però, al mero piano declaratorio. Essa va oltre e si concretizza sul piano esecutivo ed operativo.

Da tempo, infatti, opera la “Agenzia per i diritti fondamentali”, con la funzione di individuare e analizzare le principali tendenze in questo campo.

Nel 2012, inoltre, fu varato il “Quadro strategico per i diritti umani e la democrazia”, avente lo scopo di migliorare l’efficacia e la coerenza della politica condotta dall’UE in questo settore.

Una politica che si estende al di là dello spazio geopolitico unionale.

Infatti, l’UE propugna e conduce “dialoghi sui diritti umani” con più di 40 Paesi e Organizzazioni non europei; attività, questa, poi oggetto di attenta disamina nella “Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia”.

In sostanza, le fonti normative e le politiche europee sono intrise di diritti umani e, per tale ragione, ben possono costituire un punto di riferimento per tutti coloro che volessero impegnarsi nella loro salvaguardia e promozione”.

Per concludere, ho posto ad Alessandro Cannavale, ingegnere, ricercatore presso l’Università di Bari, saggista e coautore di “A me piace il Sud”, la seguente domanda: “qual è la rilevanza formativa (teoria) ed emancipatoria (prassi) di una siffatta iniziativa progettuale, rivolta a piccoli alunni salentini, in ordine alla promozione di atteggiamenti di salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale del territorio di riferimento?”

“Apprezzo moltissimo la citazione di una figura importante come quella dello statista Aldo Moro. I discorsi inaugurali della Fiera del Levante, oggi fortemente declassati nelle agende degli esecutivi, erano ai tempi del premier Moro momenti programmatici rilevanti, per il Sud e il Paese tutto. La campionaria barese/pugliese era una vetrina internazionale, con lo sguardo rivolto al Mediterraneo, per centrare il compasso delle relazioni sulla Puglia, intesa come trampolino logistico e politico di scambi culturali, politici, commerciali. Ciò anche nell’ottica di un intervento di riequilibrio economico dei divari interni al Paese. Nel 1959, a Firenze, Aldo Moro diceva: “Si può ben dire che la soluzione che noi daremo a ogni nostro problema economico rischia di risultare una pseudo soluzione se disoccupazione e Mezzogiorno continueranno a presentarsi come problemi largamente irrisolti”. Anche in questo senso, l’iniziativa della Fiera andava intesa come intenzione di offrire all’economia nazionale spinte propulsive eterogenee, alcune delle quali centrate a Sud. Un Sud che fosse soggetto – e non oggetto – di iniziativa economica.
Moro fece proprio un meridionalismo che non scadeva mai nell’avido regionalismo: fu una rivendicazione di dignità ed eguaglianza, in piena sintonia con lo spirito costituzionale. Moro guardava con dolore al titanico flusso di persone che abbandonavano il Sud come a un impoverimento quasi sempre irreversibile di quel territorio.
Da Bari, dove teneva i suoi corsi universitari, guardava all’Europa, senza puntare mai all’inasprimento strumentale dei conflitti in seno al Paese.

Qui sta il respiro ampio del meridionalismo moroteo.
Forse, l’ampiezza di quella riflessione, di quegli sforzi, la complessità di quella politica dal respiro profondo sarebbero dei punti di partenza per ricucire i legami che paiono allentati. Dal territorio al mare. Dal mare al caleidoscopio di differenze che brulicano sulle sponde del Mediterraneo.” Leggi tutto “Mediterraneo. Confine o ponte?”

PNSD

In linea con le direttive europee, considerata l’evoluzione tecnologica della società odierna, la scuola italiana ha avviato, anche dietro impulso della legge 107/2015, un processo di digitalizzazione dei processi di insegnamento. L’impatto/incrocio delle tecnologie sulla didattica è destinato a giocare un ruolo di primo piano negli anni futuri. Per questa ragione il Piano nazionale della scuola digitale previsto nei commi 56/62 della legge su menzionata, rappresenta un cardine nel nuovo impianto organizzativo e progettuale delle nostre scuole.

Il Pnsd, documento di indirizzo del Miur, presentato il 27 ottobre 2015, ha lo scopo di indirizzare le scuole verso un percorso di digitalizzazione, introducendo le nuove tecnologie nella didattica in coerenza con un apprendimento permanente. Diffondere l’apprendimento oltre l’aula fisica, aprendo a linguaggi virtuali questa è la sfida lanciata alle scuole dal MIUR. Nove le aree interessate, 35 le azioni previste da realizzare coi fondi della buona scuola e coi programmi europei.

Il piano nazionale parte molto prima quando nel 2008 si introducono nelle scuole del territorio italiano lim e aule 2.0 che favoriscono la didattica laboratoriale. Successivamente l’Azione Editoria digitale prosegue il processo con la diffusione di contenuti digitali. L’osservatorio tecnologico istituito nel 2000 raccoglierà tutti i dati legati al processo di digitalizzazione. Il piano intende coprire tutte le scuole da rete wifi, di fornire un accesso diffuso in ogni aula, laboratorio o spazio comune e per questo riconosce alle scuole un contributo per il pagamento della connessione ad internet.

Ogni aula, ogni ambiente deve diventare luogo aperto, realtà aumentate con postazioni individuali e collettive, laboratori dell’innovazione con box mobili tali da poter essere fruiti in maniera spontanea da tutti gli allievi della scuola. Saranno incentivate attività didattiche e progettuali che promuoveranno il Byod, ovvero l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante tutte le attività didattiche. Le scuole del primo ciclo progetteranno atelier creativi, sperimenteranno attività di coding, e storytelling, andrà favorito l’apprendimento in ambito Steam tutti con l’unico scopo di sviluppare il sapere e il saper fare, di potenziare competenze trasversali spendibili.

Anche dal punto di vista architettonico si potrebbe pensare ad un restyling delle scuole, non solo per mettere a norma gli edifici ma per renderli innovativi dal punto di vista dell’efficienza e della sicurezza. I docenti saranno coinvolti in prima persona per diffondere l’innovazione digitale e la didattica attraverso una formazione pensata sul digitale. È auspicabile un coinvolgimento consapevole degli alunni circa l’uso delle tecnologie accompagnato da un’azione di conoscenza dei programmi e della loro applicabilità nello studio, scelte innovative come ad esempio una modalità di assegni a casa diversa da quella routinaria, con una sensibile riduzione di materiale cartaceo a favore di contenuti digitali. A questo va aggiunto doverosamente l’attenzione della scuola verso il contrasto alle accentuazioni derivanti dall’uso e dall’accesso alle nuove tecnologie. Leggi tutto “PNSD”

La Corte europea dei Diritti dell’uomo: report annuale delle attività del 24 gennaio 2019

Alla fine della seconda guerra mondiale nel 1949 viene istituito a Strasburgo il Consiglio d’Europa, con il compito di promuovere la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e di ricercare soluzioni ai problemi sociali emergenti. Uno degli organi principali del Consiglio, è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con sede anch’essa a Strasburgo, ma qualora lo ritenga utile, la Corte può esercitare le sue funzioni in altri luoghi del territorio degli Stati membri del Consiglio d’Europa (art. 19 del Regolamento della Corte).

Dopo un anno di febbrile lavoro viene firmata a Roma nel 1950, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), le cui finalità sono quelle di promuovere il rispetto e la tutela di alcuni diritti costituzionali, quali il diritto alla vita, la proibizione della tortura e dei trattamenti disumani; la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato; il diritto alla libertà e alla sicurezza; il diritto a un equo processo; il diritto al rispetto della vita privata e familiare; la libertà di pensiero, di coscienza e di religione; la libertà di espressione; la libertà di riunione e di associazione; il diritto al matrimonio; il divieto di discriminazione con particolare riferimento alle differenze di trattamento fondate sul sesso, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione e sulle opinioni politiche.

Nel corso degli anni la Convenzione stipulata ha visto continue modifiche nella stesura di protocolli procedurali, rispondenti al cambiamento socio-economico e culturale continuo. Tali protocolli (“16 Protocolli addizionali”) prendono in esame le misure giuridiche messe in atto per prevedere e  contenere le conseguenze di atti discriminatori nei confronti dei diritti umani.

Tante le procedure semplificate di trattazione delle controversie: dalla procedura della “sentenza pilota”, una particolare forma di pronuncia utilizzata quando ci si trova di fronte ad un problema strutturale della legislazione di un determinato Stato, alla riduzione del termine per adire la Corte da sei a quattro mesi (art. 4); alla soppressione del diritto di opposizione delle parti alle proposte di trasferimento della competenza alla Camera allargata (art. 3); alla fissazione a 65 anni del limite d’età per l’esercizio della funzione di giudice della Corte (art. 2).

La magistratura di uno Stato membro europeo, nella risoluzione di controversie,  può richiedere alla Corte Edu un parere consultivo e tale richiesta, oltre ad essere facoltativa, non pregiudica all’autorità giudiziaria istante di poterla ritirare in ogni momento. La richiesta di parere deve vertere su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti nella Convenzione o nei suoi protocolli.

I pareri consultivi che espressi dalla Corte saranno motivati, ma non vincolanti. Infatti le sentenze e le decisioni della Corte sono quasi sempre di natura dichiarativa, in quanto accertano una violazione o meno della Convenzione, che viene interpretata dai giudici di Strasburgo al fine di sviluppare standards omogenei tra Stati membri di rispetto dei diritti fondamentali. Tutti i rapporti con la Corte avvengono in via epistolare e la procedura è totalmente gratuita, anche in caso di rigetto del ricorso.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha il compito di garantire effettività ed efficacia della tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali negli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa. Attraverso la sua opera ermeneutica essa ha notevolmente ampliato il catalogo dei diritti umani fondamentali tutelati dalla Convenzione.

Non ultimo e meno incisivo,  il Trattato di Lisbona, del 1° dicembre 2009, con cui si sono aperti nuovi orizzonti all’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Trattato prevede, infatti, anche l’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione ed apre nuovi spazi al diritto europeo dei diritti della persona umana, istituendo la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.

La Carta raggruppa tutti i diritti della persona in un unico testo, applicando in questo modo il principio di indivisibilità dei diritti fondamentali. Classificati in diritti di libertà, diritti alla dignità, diritti di uguaglianza, diritti di solidarietà, diritti di giustizia, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.

L’Unione europea dispone di altri strumenti per proteggere i diritti fondamentali. Le questioni relative ai diritti fondamentali sono monitorate e possono essere oggetto di raccomandazioni specifiche per paese. I settori interessati comprendono i sistemi giudiziari (sulla base del quadro di valutazione della giustizia), nonché la disabilità, i diritti sociali e i diritti dei cittadini (in relazione alla protezione contro la criminalità organizzata e la corruzione). La Commissione pubblica inoltre una relazione annuale sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali, che è esaminata e discussa dal Consiglio, che adotta le conclusioni in merito, e dal Parlamento, nel quadro della sua relazione annuale sulla situazione dei diritti fondamentali nell’UE.

In riferimento a tale documento, il 24 gennaio 2019 è stato pubblicato il rapporto annuale sull’attività della Corte europea dei diritti dell’uomo (firmato dal Presidente della Corte Guido Raimondi), documento che analizza nel dettaglio l’andamento del numero delle sentenze in Europa nei confronti della violazione dei diritti umani. Dalla lettura del rapporto emerge che, tra i paesi europei che hanno subito il maggior numero di condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, c’è la Russia. Seguono la Turchia, l’Ucraina, la Romania e l’Ungheria. L’Italia si colloca a quota 11, migliorando la posizione anche grazie al massiccio e strategico utilizzo dei regolamenti amichevoli e delle dichiarazioni unilaterali, con cui, di fatto, lo Stato riconosce la violazione e corrisponde un indennizzo ai ricorrenti.

Da sottolineare che il numero elevato dei ricorsi pendenti, indica da un lato la fiducia dei cittadini verso la stessa Corte europea, dall’altro però evidenzia la non realizzazione effettiva dei diritti dell’uomo sul piano interno, con buona pace del principio di sussidiarietà.

Il rapporto sottolinea la lotta alla tortura, al razzismo, alla effettiva parità tra gli uomini e le donne, pone l’accento su alcuni temi delicati come quello dei migranti. La situazione in cui ci troviamo è peggiore di prima. Pensiamo alla Primavera Araba, a quello che è successo in Tunisia, in Siria, in Yemen, in Egitto. La gente è scesa in strada per chiedere pane, libertà e dignità. Le risposte sono state morte e repressione. In Europa vengono messi in discussione concetti fondamentali come il diritto di espressione della propria sessualità, quello riproduttivo, quello di solidarietà e anche il diritto d’asilo.

Nel rapporto occupano un ruolo centrale i “difensori dei diritti umani” (incontratisi a Parigi nel novembre 2018) sostenuti incessantemente dall’Unione europea e non solo. Essenziali al funzionamento delle società democratiche, spesso però sono soggetti a minacce e arresti, per questo il Parlamento europeo richiama di volta in volta l’attenzione sulle difficoltà che incontrano i Difensori dei diritti umani nel mondo, emanando risoluzioni d’urgenza.

“Il rispetto dei diritti umani è condizione preliminare per lo sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune.” (Papa Francesco /Discorso del Santo Padre in occasione dell’Incontro con le Autorità della Repubblica d’Albania – Viaggio Apostolico a Tirana, 21/09/2014)

E’ questo un monito a costruire la pace non con l’affermazione del potere del vincitore sul vinto, ma con il consolidamento del confronto tra le Nazioni in un clima di parità, a favore del benessere di tutti. Leggi tutto “La Corte europea dei Diritti dell’uomo: report annuale delle attività del 24 gennaio 2019”

L’Europa che ci fa crescere

Che l’incontro e il confronto tra culture diverse sia un’opportunità di crescita e non una minaccia, credo sia ormai stato ampiamente dimostrato e, seppure, tale opinione non sia condivisa da tutti, le innumerevoli esperienze di progetti europei avviate da parecchi anni nelle nostre scuole, sembrano avvalorarla. Sia i dirigenti che i docenti, gli studenti e le famiglie coinvolti nei progetti di gemellaggio, di scambi culturali e professionali hanno espresso pareri e commenti decisamente positivi in termini di crescita personale, di formazione ed educazione, di relazione e di integrazione sociale.

L’Istituto Tecnico Commerciale “Edoardo Pantano” di Riposto (antica e prestigiosa scuola della provincia di Catania), che dall’anno scolastico 2016/17 fa parte dell’Istituto Superiore di Riposto, dal 2006 ha aderito a svariate iniziative di respiro europeo, che hanno arricchito ed ampliato l’offerta formativa della scuola permettendo agli utenti, ma anche al territorio, di allargare i propri confini, di esportare e far apprezzare la cultura e le tradizioni mediterranee in tutta l’Unione Europea. Molti i paesi coinvolti: Bulgaria, Polonia, Francia, Spagna, Inghilterra, Austria, Germania, Turchia, Belgio, Lussemburgo, Norvegia.

Responsabile dei progetti Erasmus Plus dell’istituto è la professoressa Pina Valastro (insegnante di lingua francese) che sottolinea: “Nel corso degli anni gli studenti dell’istituto hanno avuto la possibilità di relazionarsi e confrontarsi con coetanei di culture differenti, lavorando insieme su tematiche di interesse comune come:

  • Le riserve naturali;
  • La vita dei migranti nel paese di accoglienza;
  • Conoscersi per comprendersi;
  • L’alimentazione sana;
  • I giovani e gli anziani;
  • L’immigrazione;
  • L’Unione Europea.

Tante le iniziative che l’Istituto Superiore di Riposto negli anni ha organizzato per promuovere la partecipazione ai suddetti progetti di tutta la comunità scolastica, delle autorità locali e della cittadinanza, come la “Festa dell’Europa” che si svolgerà il prossimo nove maggio. Spesso, gli studenti nello svolgimento delle attività previste dai differenti progetti europei hanno intervistato i cittadini e il Sindaco di Riposto, hanno svolto sondaggi fra la popolazione del territorio, visitato associazioni e centri di accoglienza per ascoltare e raccogliere testimonianze dirette, ecc.

Tutto ciò – continua la docente – ha contribuito a sviluppare nei discenti attitudini e competenze essenziali di tipo civico, sociale, organizzativo, linguistico, imprenditoriale, grazie, anche, all’utilizzo di metodologie didattiche e comunicative innovative, basate sulle tecnologie digitali. Attraverso la partecipazione ai progetti europei gli alunni hanno avuto l’opportunità di mettersi in gioco e di crescere sia come studenti sia come cittadini, percependo l’Europa non più come un’organizzazione lontana bensì come una realtà vicina in cui potersi muovere liberamente e dove poter trovare lavoro in futuro.

La prof.ssa Valastro sottolinea ancora: “Un ruolo importante hanno avuto le famiglie degli studenti accogliendo le delegazioni straniere partner di progetto, ospitando gli studenti stranieri, preparando specialità tipiche siciliane da far gustare, accompagnandoli nella visita dei luoghi artistici e paesaggistici più belli del nostro territorio.” Le famiglie, inizialmente titubanti, oggi sollecitano, auspicano e collaborano attivamente con la scuola affinché i loro figli possano partecipare ai programmi europei, riconoscendone a pieno la valenza educativa e formativa.

La responsabile dei progetti Erasmus, poi, evidenzia come attraverso la partecipazione agli stessi gli allievi siano riusciti ad instaurare dei legami di amicizia stabili nel tempo con i loro corrispondenti; infatti diversi studenti, ormai diplomati da anni, continuano a scriversi e/o a vedersi.

Parlando con altri insegnanti della scuola, che negli anni sono stati coinvolti nella progettazione e realizzazione dei progetti europei, sono emersi, inoltre, altri due aspetti importanti: da un lato l’indiscutibile arricchimento in termini di formazione professionale per la comunità docente; dall’altro la grande opportunità che tali iniziative rappresentano per i ragazzi che, pur essendo meritevoli, appartengono a contesti culturalmente ed economicamente svantaggiati. Per questi studenti i progetti Erasmus rappresentano l’unica possibilità di relazionarsi con culture diverse e visitare paesi all’estero, di approfondire le lingue straniere che studiano, nonché di sviluppare nuove competenze legate alle capacità creative, imprenditoriali e di versatilità.

Il dirigente scolastico, la dott.ssa Maria Catena Trovato, consapevole della grande valenza educativa e formativa dei programmi europei, ha promosso i progetti Erasmus + nelle diverse lingue straniere previste nel curricolo d’istituto, veicolando e sottolineando l’importanza della mobilità e dello studio delle lingue straniere per i cittadini dell’odierno mondo globalizzato; offrendo supporto tecnico, organizzativo e formativo ai docenti ed al personale amministrativo, per facilitare lo progettazione e la realizzazione dei progetti suddetti.

Gli studenti intervistati, appartenenti a classi sia del biennio che del triennio, riferiscono di essersi particolarmente entusiasmati nel partecipare ai progetti Erasmus + per svariati motivi: l’approfondimento e la pratica sul “campo” delle lingue straniere; la conoscenza di usi e costumi diversi dai propri; la possibilità di confrontarsi, non solo virtualmente ma anche di presenza, con coetanei di contesti culturali differenti e, quindi, di instaurare rapporti di amicizia duraturi nel tempo; l’acquisizione di nuove competenze sociali, civiche e culturali; l’ampliamento delle future opportunità di studio e di lavoro.

Infine, va sottolineato quanto sia importante per la comunità scolastica imparare ad utilizzare le nuove forme di collegamento con l’esterno, in rete (per es. la community eTwinning, che è una delle azioni del programma Erasmus + e che rappresenta la più grande comunità europea di insegnanti attivi nei gemellaggi elettronici tra scuole per condividere informazioni, opportunità di formazione, ottenere riconoscimenti e certificazioni, migliorare la qualità dell’insegnamento) in modo da innescare pratiche di arricchimento e potenziamento della didattica, e per superare l’autoreferenzialità che tuttora, ahimè, caratterizza parecchie scuole italiane. Leggi tutto “L’Europa che ci fa crescere”

I Pon, un’occasione di valorizzazione delle autonomie e implementazione della progettazione d’istituto

Il progetto di potenziamento dello studio delle lingue dell’Istituto Comprensivo Altipiano di Trieste è nato nell’anno scolastico 2010/2011, come progetto in rete di nove scuole della provincia di Trieste che comprendevano l’istruzione primaria e secondaria di primo grado.

Attraverso vari strumenti di rilevazione, quali questionari, incontri di orientamento in entrata dei docenti referenti e/o dei dirigenti scolastici emergeva dalle famiglie la richiesta di potenziamento dello studio delle lingue, motivata anche dalla particolare posizione geografica della regione e dalla composizione eterogenea dal punto di vista culturale e linguistico della popolazione che caratterizza il bacino di utenza delle scuole.

Alcuni di questi progetti di potenziamento delle lingue straniere hanno proseguito il loro percorso di realizzazione al di fuori della rete, ad esempio attraverso la candidatura dell’Istituto comprensivo Altipiano al PON “Cittadinanza Europea”. L’istituto ha ricevuto per l’esecuzione del progetto ben 29.000 euro provenienti dai fondi strutturali europei, tale cifra ha permesso di considerare nella progettazione altre agenzie educative presenti sul territorio, d’immaginare la scuola come vero centro propulsore di cultura con aperture pomeridiane ed azioni di formazione in campo sociale.

I PON quali strumenti finanziari della politica regionale dell’unione europea rappresentano una grande occasione di supporto alla progettazione delle istituzioni scolastiche; i bandi vengono diffusi dal sistema informativo centrale e periferico del MIUR, vanno presentati ed autorizzati e gestiti solo per mezzo delle piattaforme. Il dirigente scolastico è responsabile dell’attività complessiva e presiede il gruppo operativo del Piano; porta a conoscenza degli O.O.C.C. gli obiettivi formativi raggiunti; monitora la ricaduta sul curricolo ed il superamento delle criticità evidenziate nel Piano di Miglioramento.

Rispetto alla progettazione ordinaria delle scuole i PON si caratterizzano per il superamento della didattica tradizionale e l’implementazione di una didattica attiva, laboratoriale che metta al centro i discenti, il loro spirito d’iniziativa; inoltre sono per natura strutturati per rispondere ai bisogni reali della scuola, in quanto i criteri perché le candidature vengano ammesse e i dati inseriti nel sistema, sono desunti dal RAV e suppongono un percorso di miglioramento della scuola.

Si tratta di strumenti economici finalizzati al raggiungimento degli obiettivi e le priorità della Strategia dell’Europa 2020 per promuovere una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile in una politica di coesione economica, sociale e territoriale che mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni. Insomma un’occasione di investimenti e risorse di cui la scuola oggi ha grande bisogno; un esempio di sviluppo del principio di sussidiarietà che assegna l’iniziativa per l’attivazione di un pubblico servizio ad enti e associazioni vicine al cittadino, valorizzando le autonomie e la loro proattività. Leggi tutto “I Pon, un’occasione di valorizzazione delle autonomie e implementazione della progettazione d’istituto”

Elezioni europee e lotta politica nella UE di oggi: contraddizioni e difficoltà

Il cammino che portò, a partire dal giugno 1979, all’elezione dei membri del Parlamento europeo, in ogni Stato membro, tramite suffragio universale diretto, per un periodo di cinque anni, era già stato in qualche modo indicato al momento della costituzione delle comunità europee. Prima del 1979 i membri del Parlamento europeo erano delegati dai rispettivi Parlamenti nazionali secondo modalità non uniformemente stabilite, ma autonomamente fissate da ogni Stato membro.

L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo era stata prevista dal Trattato di Roma, istitutivo della Comunità, il quale, mostrando un profondo convincimento della necessità di dare una valenza democratica al processo di integrazione europea, oltre ad indicare che il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati era da considerare provvisorio, affermava che il Parlamento europeo avrebbe elaborato progetti volti definire una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri.

Tra il 1958 e il 1976 si sono succeduti numerosi progetti volti all’istituzione della procedura di elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, ma nessuno di essi trova concreta attuazione. Nel 1958 e nel 1962 l’istituzione cambia denominazione, rispettivamente, in Assemblea parlamentare europea, prima, e poi in Parlamento europeo.

Ma gli anni ’60 sono anni di crisi per la costruzione dell’integrazione europea, soprattutto a causa dell’opposizione gollista. E’ solo nel corso degli anni ’70 che si concretizza il progetto dell’elezione diretta grazie alle spinte date dalla conferenza dell’Aja del 1969, dai movimenti del ’68 – che spingevano verso un maggior coinvolgimento dei cittadini – e il vertice di Parigi del 1974 nel corso del quale i nove capi di Stato e di governo dei paesi aderenti alla CEE decidono di riunirsi nel Consiglio Europeo (tre volte all’anno), propongono di eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale e decidono la creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR).

Con l’atto del Consiglio del 1976 la questione della procedura elettorale fu accantonata, lasciando liberi gli Stati membri di adottare la propria procedura; si stabilì in compenso la data della prima elezione a suffragio universale (1978) (le difficoltà di ratifica dell’atto, però, fecero slittare di un anno la data della prima elezione) e si dettarono alcune regole per lo svolgimento delle consultazioni elettorali. In particolare:

  • fu stabilito che le elezioni si svolgessero ogni cinque anni, alla scadenza del mandato del Parlamento quasi contemporaneamente in tutti gli Stati membri, in un giorno, scelto da ciascuno Stato, nell’ambito di un unico periodo che va dal giovedì alla domenica successiva;
  • fu stabilita la ripartizione dei seggi tra gli stati membri con un metodo proporzionale attenuato per tutelare i paesi meno popolosi;
  • si stabilì per il deputato europeo l’assenza del vincolo di mandato e la compatibilità con il mandato di parlamentare nazionale nonché l’incompatibilità con le cariche di: membro del Governo Nazionale, membro della Commissione Europea.

L’atto lasciava agli Stati la possibilità di introdurre altre forme di incompatibilità.             L’armonizzazione delle procedure elettorali è prevista dal Trattato di Amsterdam che affida al Parlamento europeo l’elaborazione di un progetto di elezione comune, ma permettendo al momento che ogni Stato adottasse il proprio sistema. In tutti gli Stati membri le elezioni europee si svolgono ora secondo il sistema proporzionale; per le elezioni del 1999 anche il Regno Unito ha abbandonato il sistema maggioritario. Successivamente, inoltre venne data la possibilità agli Stati di adottare una soglia minima di sbarramento e, dal 2004, è stata introdotta l’incompatibilità tra mandato parlamentare ed europeo.

La legge elettorale per l’elezione dei rappresentanti italiani presso il Parlamento europeo fu deliberata con provvedimento n.8 del 24 gennaio 1979; improntata al principio di proporzionalismo puro, regolamentava l’elezione della rappresentanza al Parlamento europeo recependo le incompatibilità previste dall’Atto del Consiglio e allargandone il campo alla carica di presidente e assessore della giunta regionale (art. 5); venivano inoltre indicate le cinque macro-circoscrizioni territoriali attraverso le quali si sarebbero eletti i rappresentanti italiani (stabilendo numero massimo e minimo di rappresentanti per circoscrizione).

La legge del gennaio 1989, n. 9 diede la possibilità a tutti i cittadini degli stati membri della CEE di candidarsi in Italia: l’Italia guardava all’integrazione europea e alla centralità del Parlamento europeo e ciò fu riconosciuto anche dal Trattato di Maastricht che allargò la legge italiana a tutta la UE istituendo però il vincolo di residenza per l’elettorato attivo (i cittadini Ue potevano votare in Italia se residenti). Con la legge 90/2004 si allargava il campo delle incompatibilità alla carica di consigliere regionale, presidente della Provincia e sindaco (comune con più di 15mila abitanti).

Nonostante le riforme ed i cambiamenti della legge elettorale, permangono tuttavia ad oggi diverse questioni aperte. Una riguarda l’adottato criterio di incompatibilità che, non abbinato a quello di ineleggibilità, consente a candidati politicamente molto noti, di attrarre voti, e poi una volta eletti, di cedere il posto al candidato subito successivo. L’ineleggibilità impedirebbe a tali soggetti di candidarsi.

Inoltre, manca una procedura elettorale comune tra gli Stati; i partiti nazionali e le federazioni transnazionali sfruttano poco le candidature di nazionalità diverse e le macro-circoscrizioni sono poco definite territorialmente. Spesso, inoltre le campagne elettorali europee sono state improntate su tematiche nazionali facendo sì che tali elezioni risultassero una sorta di test degli equilibri politici interni: le recenti campagne, tuttavia, hanno mostrato una maggiore europeizzazione ed una maggiore attenzione alle candidature tale da accrescere la forza di tali elezioni.

Ma quali le relazioni e i raccordi tra i partiti nazionali e quelli europei? L’elezione diretta del Parlamento europeo porta alla nascita delle prime federazioni transnazionali dei partiti europei (la prima fu quella liberale, seguita dalla popolare e dalla confederazione socialista) che, con il trattato di Maastricht, ricevettero il primo riconoscimento ufficiale: essi, si legge nel trattato, contribuiscono “a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”. Tale ruolo si rafforza con la fine della guerra fredda, l’approfondimento del processo d’integrazione e l’allargamento dei poteri del Parlamento europeo.

Le forze politiche europee nascono così nell’ambito delle culture politiche ottocentesche (Liberale, Socialista, Democratico-cristiana) o in quelle aree a vocazione transnazionale (es. Verdi). Per lungo tempo, le tre principali federazioni hanno fornito oltre il 70% degli eurodeputati, mentre di recente la situazione è sensibilmente cambiata. Esiste una dicotomia tra gruppo politico e federazione transnazionale: non tutti i gruppi politici al Parlamento europeo sono espressione di una federazione transnazionale.

Le federazioni transnazionali sono cinque: Popolari (PPE), Socialisti (PSE), Liberali (ALDE), Verdi (Greens) e Sinistra europea, ma nel Parlamento europeo i gruppi politici sono molti di più.   La forza delle federazioni transnazionali dipende molto dall’adesione o dall’allontanamento dei partiti nazionali affiliati e la loro rappresentanza al Parlamento europeo è legata strettamente ai singoli successi degli affiliati. L’aumento dei poteri del Parlamento europeo, unito alla costante prevalenza degli stati nell’architettura istituzionale dell’Ue ha portato a una dicotomia tra gruppo politico al PE e federazione mancando quel rapporto diretto, quasi gerarchico, che caratterizza gli emicicli nazionali. Nella UE il gruppo è più forte e importante della federazione, per cui diversi partiti scelgono di far parte solo del gruppo.

Un altro grosso limite alla lotta politica europea è la mancanza della militanza diretta: si può farne parte solo attraverso l’iscrizione a un partito affiliato, per cui per lungo tempo le federazioni transnazionali sono state alla portata di élite politiche nazionali (leader e segretari di partito, dirigenti, parlamentari). Ad ogni modo le contraddizioni e i limiti evidenziati non devono portare ad una valutazione negativa delle federazioni transnazionali il cui ruolo rimane importante e va rafforzato soprattutto in virtù e per risolvere le difficoltà in cui si dibatte la UE ed imprimere un’accelerazione sullo sviluppo del processo d’integrazione. Leggi tutto “Elezioni europee e lotta politica nella UE di oggi: contraddizioni e difficoltà”

Europa, Europa!!!

Abbiamo voluto dedicare il presente e i prossimi due numeri di #ArtedoUniversoScuola alle tematiche della nostra cara Europa, per l’importanza che essa riveste da decenni nella vita sociale, culturale di tutti noi e far partire dalla scuola un messaggio che riporti alle radici e ai valori fondativi dell’essere “diversi ma uniti” nell’Europa.

L’idea di un’Europa dei Popoli nasce, negli anni tristi che prefiguravano lo scoppio della seconda guerra mondiale, a Ventotene per intuizione di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati nell’isola, e anch’essi così “diversi” politicamente, ma “uniti” nell’idea della necessità di ripensare alla pace, alla convivenza pacifica delle nazioni che si erano dilaniate in guerre fratricide per millenni.

Spinelli e Rossi danno vita al «Manifesto per un’Europa libera e unita» dove viene elaborata «la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali e sovrani» per dar vita e «creare un solido Stato internazionale».

Il risultato più suggestivo di questa idea è diventato vita reale, sociale, culturali della “generazione Erasmus” (acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students) che ha coinvolto, in questi ultimi trenta anni, la partecipazione di ben 12 milioni di giovani, studenti, docenti e volontari e di un milione dei bambini nati dagli “erasmiani”, coppie formatesi tra cittadini di diverse nazioni dell’Europa.

La scuola ha avuto ed ha un ruolo molto importante nella creazione dell’Europa dei Cittadini e i dati sull’attività eTwinning vedono la nostra scuola e il nostro Paese tra i più attivi in Europa in termini di partecipazione, risultati e riconoscimenti all’interno della community per i gemellaggi elettronici tra scuole. L’Italia è il secondo Paese sui 36 aderenti all’azione per numero di insegnanti iscritti, con un totale di circa 70.000 registrati sui circa 650.000 del resto d’Europa. Le statistiche italiane riferite al 2018 fanno segnare un vero e proprio record annuale nei nuovi progetti attivati dai nostri docenti: ben 5.275 facendo segnare il 60% in più rispetto al record del 2017 elevando al totale di 31.000 progetti presentati a partire dal 2005 e posizionandosi quale terzo Paese dopo Turchia e Polonia per il volume dei progetti realizzati.

Progetti ed eventi Socrates, Comenius, Erasmus sono esperienza viva per tante studentesse e studenti, per tanti docenti e anche per alunne ed alunni di scuola primaria, che facendo tesoro delle nuove tecnologie sono riusciti a mantenere vivi contatti ed amicizie con scambi che poi hanno coinvolto anche le famiglie.

Queste grandi e significative esperienze di crescita culturale rischiano di essere strozzate e mortificate dalla cultura “diversi e quindi separati” che sta prevalendo in molti Paesi Europei che stanno distruggendo “ponti” per elevare “muri” dell’indifferenza, dell’odio e dell’incomprensione.

Tocca alla scuola, ai docenti, ai giovani, agli studenti  abbracciare il manifesto di Ventotene e “farlo volare sui cieli d’Europa”.

Europa,Europa! “Unità nella diversità”

Europa

Il 1° novembre del 1993 nasceva l’Unione Europea, un percorso iniziato nell’immediato dopoguerra che ha visto l’adesione di numerosi Stati e che ha raggiunto il suo culmine nell’adozione di una moneta unica, l’euro.

Tuttavia, c’è ancora molta strada da percorrere per raggiungere una vera integrazione politica che accompagni quella economica.

Per fare ciò, occorre rendere consapevoli i cittadini europei, soprattutto i giovani, della portata storica e rivoluzionaria del processo che ha portato alla costituzione dell’Unione Europea e favorire la comprensione della diversità culturale dei vari Stati che la compongono.

In questo numero, dal titolo “Europa,Europa!” sono stati ampiamente trattati argomenti che ci invitano ad una profonda riflessione come quelli racchiusi nei concetti di  cittadinanza responsabile, di apprendimento permanente, di educazione alla sostenibilità.

Il tema della dimensione europea dell’educazione, oggi al centro dei dibattiti nazionali e internazionali, favorisce allo stesso momento sentimenti di incertezza e di speranza futuri. La società attuale profondamente interconnessa, nel travalicare gli ambiti nazionali, richiede al mondo dell’istruzione di assumere una dimensione europea. Oggi, più che mai i giovani devono dare prova di resilienza ed essere in grado di adattarsi alle sfide proposte dalla società del cambiamento.

Negli anni ’90 veniva presentato un documento fondamentale in materia di dimensione europea dell’istruzione, il Libro Verde, che indicava le finalità generali di ogni sistema scolastico e fissava gli obiettivi specifici definiti dall’Unione Europea in:

  • contribuire alla cittadinanza europea favorendo il rispetto delle diverse identità culturali ed etniche;
  • preparare i giovani in vista della loro integrazione nella società  a un più facile inserimento nel mondo del lavoro attraverso partenariati e reti di collaborazione;
  • offrire opportunità per migliorare la qualità dell’educazione attraverso un’attività di informazione e cooperazione transnazionale.

Viene così dato il via ad una serie di Programmi d’Azione Comunitaria come: Gioventù per l’Europa, Leonardo da Vinci, Socrates che hanno cercato di attuare, concretamente, gli obiettivi sopra indicati.

Successivamente veniva istituito un Programma d’Azione per l’Apprendimento Permanente (Lifelong Learning Programme) che includeva e sostituiva i precedenti programmi comunitari per l’istruzione, la formazione professionale e l’e-learning.

Ciò consentiva agli interessati di ricercare opportunità di apprendimento stimolanti in tutta l’Unione Europea e per tutto l’arco della vita.

Nel 2013 il Programma a supporto dell’istruzione, Erasmus +, andrà a sostituire e integrare il Lifelong Learning Programme, a partire dal 2014 per i prossimi sette anni. Erasmus+ ha come obiettivo la mobilità, la cooperazione e le politiche per riformare l’educazione attraverso opportunità di studio e formazione all’estero beneficiando di finanziamenti europei.

Con queste opportunità l’Europa ci invita ad essere “imprenditori” della nostra scuola, valorizzando le competenze professionali interne e sostenendo chi lavora nell’ istruzione e per l’istruzione. E’ importante individuare e promuovere, ad ogni livello d’istruzione, quella “cittadinanza europea” e affiancarla alla “cittadinanza nazionale” senza sostituirla ma ampliandola.

Ogni membro all’interno della Comunità Europea deve sentirsi “cittadino europeo”, conoscere il patrimonio comune che lega i vari Stati, comprendere gli eventi di attualità che vivono, saper comunicare in più lingue e contribuire alla diffusione dei valori europei.

Ecco che, così, l’Europa ci apparirà come un laboratorio di apprendimento, una “grande officina a cielo aperto” dove poter continuare ad investire in modo vantaggioso nell’istruzione, dove tutti sono chiamati ad aggiornare e integrare le proprie conoscenze, competenze e capacità per ridurre l’emarginazione e aumentare la coesione sociali.

La “cittadinanza” nello scenario europeo

La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (1ª parte)

Secondo il dizionario della lingua italiana la cittadinanza è “l’appartenenza del singolo ad una società organizzata a Stato” o, più specificatamente, secondo la giurisprudenza è la condizione della persona fisica alla quale viene riconosciuta la pienezza dei diritti civili e politici dall’ordinamento giuridico di uno Stato. Eppure la definizione del termine cittadinanza è molto più complessa poiché con essa non si definisce soltanto uno status del cittadino o un mero rapporto giuridico.

Se la si considera da un punto di vista sociologico la sua definizione ha avuto da sempre un ruolo importantissimo nella creazione dei rapporti e degli equilibri interni ad uno Stato. Grazie al diritto di cittadinanza una persona fisica non solo sa di essere titolare di diritti e doveri e di partecipare attivamente alla vita pubblica del proprio stato, ma attraverso di esso costruisce la propria identità in quanto membro di una comunità.

Occorre dunque indagare alcuni nodi fondamentali intorno a questo concetto, prendendo le mosse da un problema attuale e più che mai urgente: come poter spiegare ai bambini di oggi il significato non solo di essere cittadini per diritto, ma di agire come tali, allargando l’orizzonte sul piano europeo. Lo scopo di questa ricognizione storica non vuole essere l’analitico racconto delle tappe essenziali, portatrici di uno specifico concetto di cittadinanza, ma quello di cogliere alcuni passaggi rilevanti per una comprensione più vicina alle problematiche attuali.

Il discorso sulla cittadinanza, sull’identità e sull’appartenenza, in Europa e nel mondo, assume una particolare connotazione; si tratta di un processo complesso che mira ad allargare il concetto di “nazionalità” in un panorama in cui le identità storiche delle singole nazioni si sono trovate coinvolte in processi più ampi di globalizzazione e internazionalizzazione. Il dibattito che ne è scaturito ha dato vita ad una molteplicità di definizioni e di analisi, di critiche e suggerimenti.

Il giurista e filosofo Danilo Zolo ha riassunto tali definizioni e le ha ricondotte a due significati distinti. Uno è quello che lui definisce teorico-politico: cittadinanza designa lo status sociale di cittadino e cioè il complesso delle condizioni politiche, economiche e culturali che sono garantite a chi sia, a pieno titolo, membro di un gruppo sociale organizzato. In questo caso il termine cittadino si oppone, prima ancora che a quello di straniero, a quello di suddito (o, più anticamente, di meteco, schiavo, servo, etc). Il cittadino, a differenza del suddito, è titolare di diritti civili e politici (nel nostro secolo anche di diritti sociali) ed è in linea di massima legittimato a farli valere anche nei confronti dell’autorità politica.

Il secondo significato viene definito giuridico: cittadinanza designa uno status normativo, e cioè l’ascrizione di un soggetto, per connessioni territoriali, per legami di parentela, per libera opzione, etc., all’ordinamento giuridico di uno Stato. In questa accezione formale il termine cittadino si oppone oggi, nel diritto interno come in quello internazionale, esclusivamente a quello di straniero o di apolide. Il tema della cittadinanza riguarda in questo caso le situazioni giuridiche o di fatto che ciascun Stato definisce, sotto i profili distinti del diritto privato e del diritto pubblico, come condizioni per il possesso, l’acquisto o la perdita della qualità di cittadino e della titolarità dei diritti e dei doveri connessi a tale qualità.

Pur essendo distinti, questi due significati sono stati costruiti a partire dal medesimo principio di fondo, quello della nazionalità. Il processo di identificazione tra Stato e nazione, pur parendo naturale e radicato già da tempo nella nostra cultura, si è sviluppato invece in tempi piuttosto recenti ed è scaturito dagli eventi del XVIII secolo: la Rivoluzione Francese e quella industriale. Grazie alla diffusione di nuovi principi e al crearsi di nuovi panorami politici, economici e sociali, il concetto di cittadinanza si è affermato come principio universale e si è contrapposto ai rapporti di sudditanza feudali.

Le maggiori possibilità economiche e sociali dei cittadini hanno permesso inoltre la rottura con i legami e i vincoli, imposti dall’appartenenza ad una determinata classe sociale, e hanno creato le condizioni per far crescere il sentimento di appartenenza, facendo sì che si identificasse con il concetto di nazione. Il diritto di cittadinanza è venuto perciò a rappresentare un vero e proprio patto tra i cittadini e lo Stato democratico moderno e una garanzia di solidarietà interna alla comunità oltre che di identità collettiva. Lo Stato ha così assunto il ruolo di garante dell’identità culturale unitaria, mentre i cittadini hanno interiorizzato questa costruzione fondata sulla condivisione di lingua, memoria storica, razza e religione ed entro le frontiere che racchiudono lo spazio fisico di uno stato, si è venuta a creare l’idea di un “Noi” omogeneo e solidale.

Tuttavia è proprio in questa idea di “Noi” che si nasconde la prima contraddizione insita nella nuova concezione di cittadinanza: il carattere universalistico dei valori su cui si sono fondate la legittimità degli Stati democratici e l’insieme di diritti e di doveri dei soggetti sono venute a scontrarsi con l’esclusività dell’appartenenza nazionale. Se questi valori sono patrimonio di tutta l’umanità, non si dovrebbero tracciare confini al loro interno, eppure la separazione è già implicita nella distinzione tra “cittadini” e “stranieri”.

Il recente fenomeno della globalizzazione e i cambiamenti che si stanno verificando nell’assetto politico e culturale del mondo contemporaneo hanno messo in luce questa contraddizione e il concetto stesso di cittadinanza è stato messo in discussione. Si tratta di trasformazioni talmente radicali da mutare il complesso di coordinate spaziali, temporali, istituzionali e culturali che, sino ad ora, hanno rappresentato un referente stabile per i soggetti nella progettazione della propria esperienza e nella definizione della propria identità, non solo collettiva, ma anche individuale.

Etwinning, una finestra sull’Europa

eTwinning

Non siamo più soli, siamo insieme in Europa. Le nostre classi collaborano con quelle di altri Paesi, mentre noi insegnanti organizziamo attività con colleghi di diverse nazionalità, avvalendoci di piattaforme predisposte per la condivisione come eTwinning e Scientix.

Etwinning è un progetto della Commissione europea, che intende incoraggiare le scuole a creare collaborazioni basate sull’impiego delle nuove tecnologie, fornendo strumenti online e servizi di supporto per la creazione di attività didattiche a distanza.

Gli insegnanti che si registrano sulla piattaforma diventano etwinners e possono iniziare a sviluppare partenariati con altri docenti dei Paesi europei iscritti. Per attivare un progetto sono necessari almeno due fondatori (dello stesso paese o di due nazioni diverse), ma la partecipazione può essere estesa invitando altri membri. Le materie, le aree tematiche e gli argomenti possono variare a seconda delle esigenze di chi vuole realizzare un’idea.

Dal primo lancio dell’azione etwinning nel 2005, lo scopo è di dare l’opportunità concreta agli studenti di apprendere e sviluppare le competenze digitali, considerate chiave nelle nuove raccomandazioni del Consiglio dell’Unione Europea del 2018, in risposta ai cambiamenti della società e dell’economia attuale. L’altro importante obiettivo del programma eTwinning è quello di promuovere la multiculturalità del modello sociale europeo.

I numeri che ne indicano l’adesione sono esponenziali. La Comunità eTwinning annovera oltre 70.000 progetti, 600.000 insegnanti iscritti e 190.000 scuole. Ciò dimostra l’esigenza di nuove prospettive didattiche e l’apertura ad esperienze diverse ed entusiasmanti. Il gemellaggio con scuole straniere consente, inoltre, di praticare altre lingue, di acquisire la conoscenza di culture e tradizioni diverse dalla propria, di incrementare le competenze comunicative.

La durata dei progetti è varia, può andare da qualche settimana ad alcuni mesi, all’intero anno scolastico. Spesso si costituiscono dei sodalizi permanenti tra scuole, anche in condizioni di mobilità degli studenti e dei docenti.

Possono aderire tutti gli istituti di ogni ordine e grado, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. I contatti si sviluppano all’interno della piattaforma virtuale. Gli studenti più giovani partecipano agli scambi attraverso gli account dei docenti, i ragazzi più grandi possono avere dei profili ed entrare direttamente nei progetti inserendo i propri contenuti. Ciò favorisce una partecipazione attiva, lo sviluppo delle soft skill e delle abilità imprenditoriali.

Il Report riepilogativo del 2017 mette in evidenza l’impatto di etwinning sullo sviluppo professionale, raccontato dagli stessi protagonisti, nel rafforzamento delle competenze degli insegnanti, nell’aumento della motivazione degli studenti grazie ad un apprendimento basato sul lavoro cooperativo e nel conseguente risultato positivo sulla qualità della scuola.

Una delle caratteristiche fondamentali del lavoro su eTwinning è l’interdisciplinarità, che consente di lavorare per gruppi (di docenti e studenti), di sviluppare la creatività e il problem solving, di consolidare il processo decisionale. La didattica per progetti offre, inoltre, la possibilità di promuovere la formazione della personalità degli studenti, mentre la figura dell’insegnante assume un ruolo più socratico, di coordinatore del lavoro dei discenti, che costruiscono i loro saperi con l’esperienza pratica.

Con un’idea precisa (ma anche senza), basta cercare nei forum, trovare partner affidabili e fare pazientemente esperienza con attività condivise. Si impara presto a creare la struttura di un progetto e a documentarne ogni fase nel twinspace, lo spazio comune e protetto.

Alla fine dell’anno scolastico, ogni Unità nazionale assegna i quality label per i migliori progetti nazionali che entrano a far parte delle buone pratiche. I progetti premiati da Unità Nazionali di diversi Paesi ottengono anche il certificato di qualità europeo. L’indire è Unità nazionale eTwinning Italia che si occupa anche dell’aggiornamento della piattaforma web e degli strumenti online.

Un altro vantaggio di far parte della Community è la possibilità della formazione gratuita con esperti di livello internazionale, attraverso learning event, webinair e Expert Talk, gestendo i propri interventi ed il lavoro in modo flessibile rispetto alle esigenze personali e del curriculo della classe.

La scelta di una didattica all’avanguardia, con una prospettiva inclusiva attraverso un percorso internazionale si pone prepotentemente all’attenzione delle istituzioni scolastiche e dei propri stakeholders. Il crescente numero di scambi tra studenti e docenti, i nuovi patti d’amicizia e le reti di scuole vanno, indubbiamente, nella direzione della costruzione della civiltà europea per un futuro plurale e pluralista.

Benvenuti a bordo!

mani

La Valutazione in Europa: politiche e approcci

Tutti i sistemi educativi, a partire dagli anni ‘70, di fronte ai problemi della scolarizzazione di massa devono conciliare due esigenze: garantire l’efficienza e l’efficacia dell’istruzione e un accesso equo e sostenibile al servizio scolastico a un numero sempre più alto di cittadini. Ciò significa che l’esercizio dell’autonomia scolastica garantisce sicuramente l’equità dell’offerta, ma  promuove anche una competizione educativa e formativa (libertà delle famiglie di scelta), che induce a una dinamicità, stimolando le scuole a migliorarsi attraverso il confronto delle performance dei singoli e delle istituzioni scolastiche a cui appartengono.

Gli strumenti che rendono trasparente l’operato e la qualità della scuola sono la pubblicazione del rapporto di autovalutazione e il livello di libertà di genitori/alunni nella scelta della scuola. Un rapporto di valutazione (RAV) reso pubblico nell’ambito di un sistema che, conferisce pieni poteri a genitori e alunni nella scelta della scuola, provoca dinamiche di mercato, in cui il rapporto, e quindi il sistema di valutazione esterna che permette la produzione di tale rapporto, diventa una leva strategica che spinge le scuola a migliorare il rendimento.

Un rapporto che non viene reso pubblico, pone l’accountability delle scuole tra compiti dello Stato, che è il responsabile ultimo dell’istruzione dei propri cittadini e del miglioramento del servizio. Per questo motivo a livello europeo alcuni stati membri hanno deciso di usare la valutazione esterna del sistema, come modalità di qualità formativa e orientativa (modalità diverse di accountability della scuola. Responsabilità di governo, responsabilità di mercato).

In Inghilterra, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, i diversi ispettorati con azioni diversificate (Ofsted, Ispettorato, Dipartimenti specializzati) hanno l’obiettivo comune di migliorare le performance degli studenti, la qualità dell’insegnamento attraverso la formazione continua e strutturale dei docenti. Le valutazioni compiute sul sistema tendono a rilevare la corrispondenza dell’insegnamento con i programmi nazionali e con la politica locale e conducono alla formulazione di raccomandazioni, suggerendo le misure per il miglioramento del rendimento delle scuole.

Nonostante le differenze relative al campo di azione e alla gamma di attività valutate, l’implementazione della valutazione esterna delle scuole in Europa si basa su una struttura molto omogenea che consiste in tre fasi: analisi, visita e rapporto (nel rapporto sono evidenziate le misure correttive, le azioni disciplinari, le azioni volte a migliorare il profilo delle scuole).

Tutti i paesi che prevedono la valutazione esterna hanno procedure che riflettono questo schema. Inoltre, in molti sistemi educativi, viene messa a disposizione dei valutatori un’ampia e ricca varietà di strumenti, dando così la possibilità di diversificare le fonti di informazione, aumentando il dialogo con i principali soggetti interessati e arrivando a conclusioni chiare e basate sull’esperienza.

La normativa centrale/di livello superiore stabilisce che la valutazione interna è obbligatoria in 27 sistemi educativi. Laddove la valutazione interna non è obbligatoria, di solito è raccomandata. Gli unici paesi in cui le scuole non sono tenute a svolgere una valutazione interna sono Bulgaria e Francia, quest’ultima limitatamente alle scuole primarie. In generale, pressoché tutte le scuole svolgono la valutazione interna, in molti casi lasciando autonomia alle scuole stesse.

A supporto delle Istituzioni scolastiche vengono messe a disposizione quadri di riferimento per la valutazione esterna e interna, indicatori che consentono il confronto tra scuole, linee guida specifiche e manuali, forum online, consulenza di specialisti esterni e sostegno economico.
La restituzione delle performance degli studenti  dei test collettivi coincide con l’introduzione, nei sistemi educativi e formativi europei, di meccanismi di valutazione nazionale obbligatori, la cui lettura funge da attività metacognitiva sul processo di improvment messo in atto nella propria progettazione.

Questo approccio consente un impegno condiviso per quanto riguarda i miglioramenti da prevedere sulla base dei risultati della valutazione. L’attenzione si focalizza sui processi didattici e organizzativi che la scuola promuove per individuare i punti di forza e di debolezza del processo di insegnamento e apprendimento, su cui intervenire. Obiettivo prioritario istituzionale è garantire a ogni alunno il successo formativo e il pieno sviluppo della persona, promuovere qualità degli apprendimenti.

Improvement ed accountability sono le parole chiave di tale percorso valutativo: l’analisi dei risultati e l’innalzamento dei livelli di apprendimento (priorità strategica indicata nella Legge 107/15) richiedono una didattica per competenze, una condivisione di mission, una attenta analisi degli obiettivi di processo da perseguire in azioni e monitorare costantemente.

Valutare e rendicontare a tutti gli stakeholder territoriali l’azione educativa, rientra nelle scelte strategiche europee che, affida il controllo interno alle istituzioni scolastiche al dirigente ed esternamente ai gruppi NEV (Italia). In entrambi i casi la verifica riguarda la corrispondenza tra rapporto di autovalutazione, piano di miglioramento piano dell’offerta formativa e risultati raggiunti.

Da “Ripensare all’istruzione” la Comunità europea ha confermato l’importanza dei sistemi di valutazione per migliorare lo sviluppo e la crescita dell’insegnante: “Non è sufficiente per i sistemi educativi attrarre e formare buoni insegnanti; essi devono essere trattenuti e nutriti nella loro professione. I sistemi educativi devono identificare, stimare e sostenere gli insegnanti che hanno influenza sull’apprendimento degli studenti. In questo contesto, i sistemi di una efficace valutazione e di feedback possono avere un impatto positivo su ciò che succede in classe, incoraggiando tutto lo staff insegnante a sviluppare i loro punti di forza”.

Una crescita professionale alla quale è legata la formazione di identità forti, di sviluppo di abilità trasversali, quali la capacità di pensare in modo critico, lo spirito di iniziativa, la capacità del problem solving e la capacità di lavorare in gruppo, a consentire di affrontare i percorsi professionali più diversi e imprevedibili per fare un’Europa intelligente, competitiva e in costante crescita.

Generazione Z o Rigenerazione? I bambini e le nuove tecnologie

Internet e le tecnologie digitali hanno trasformato il mondo

Nascosta dietro questa semplice frase si cela un universo di pensieri e di dubbi riguardo all’uso delle nuove tecnologie. Se da un lato esse sono espressione dell’innovazione, del miglioramento e della crescita economica di molti paesi dell’ Ue, dall’ altra parte non possiamo non tener conto degli effetti negativi che spesso le caratterizzano, a causa di un uso eccessivo e non sempre corretto.

Da un punto di vista più strettamente economico, l’idea alla base del mercato unico digitale è passare da 28 mercati nazionali ad un solo grande mercato. Un mercato unico digitale pienamente funzionante che potrebbe apportare 415 miliardi di euro all’anno alla nostra economia, creando centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro. Le TIC dunque, sembrano essere fondamentali per la crescita economica dell’UE, non a caso l’economia digitale sta crescendo ad un ritmo 7 volte più veloce di quello dell’economia reale.

Grazie alla stessa Agenda Digitale Europea sono aumentati gli investimenti in tale settore e sul mercato vi è una continua ed incessante richiesta di strumenti tecnologici, con una conseguente gamma di offerte continue; vi sono più abbonamenti a servizi di telefonia mobile che cittadini.

Il piano d’azione della Commissione europea StartUpEurope ha rafforzato inoltre, negli ultimi anni, il quadro in cui operano gli imprenditori nel settore delle TIC e del web in Europa, aiutandoli ad ottenere le risorse necessarie nel campo della crescita, dell’innovazione e creazione di nuovi posti di lavoro. Computer, cellulari e tecnologie digitali in genere  hanno migliorato il nostro vivere quotidiano e nella città intelligente così come nelle abitazioni di tutti noi non manca mai una connessione wi-fi. Ma cosa succederebbe se andassimo a vivere in un luogo non in rete con le nuove tecnologie? Come reagirebbe la iGeneration o Google Generation?

Tale generazione conosciuta anche col nome di Generazione Z accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010 i cosiddetti “ nativi digitali”, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato del world wide web. In Europa, i più grandi fruitori delle tecnologie digitali sono infatti gli appartenenti a tale generazione. Marc Prensky, scrittore statunitense, inventore dei termini “nativo digitale” e “immigrato digitale”, li descrive come individui abili a elaborare le informazioni, con una preferenza per le nozioni che possono ottenere rapidamente ed apprendere attraverso modalità attive e non-lineari, multitasking, poco tolleranti verso le lunghe letture e che sperimentano lo sviluppo delle abilità sociali e professionali all’interno della realtà digitale.

Secondo recenti studi, 9 su 10 ragazzi tra i 9 e i 16 anni possiede infatti un profilo Facebook e il 49% fa uso di sistemi di messaggistica istantanea. Essi utilizzano gli strumenti on-line soprattutto a casa, mentre l’accesso da scuola è  più raro.

Effetti positivi e negativi si alternano dunque sull’ altalena dell’uso del digitale.

Per lungo tempo, in passato, si è pensato però che, una volta raggiunta l’età adulta, il cervello non potesse più essere soggetto a nessun tipo di cambiamento. A partire dal 1980 le evidenze sulla plasticità neurale sono diventate sempre più consistenti, fino a culminare con l’affermarsi di teorie che sostengono l’esistenza di un rapporto multidirezionale tra ambiente, mente, corpo, cervello e comportamento. Le nuove tecnologie, come qualsiasi altro trigger o segnale esterno, determina così anche nell’adulto l’attivazione di specifici pattern neurali e quindi può condurre ad altrettanti specifici fenomeni di plasticità neurale.

Tradotto in altre parole, quando i ragazzi della iGeneration chattano, navigano, giocano e si ritrovano in rete per scambiarsi opinioni all’interno di forum virtuali, reagiscono spesso precipitosamente e senza riflettere sulle conseguenze, buone o meno, delle loro azioni. Inoltre l’ambiente nel quale agiscono, che oggi, a differenza di ieri, è potenzialmente senza confini  può contenere qualsiasi forma di stimolo; ciò sembrerebbe spiegare, almeno in parte, l’elevato numero di diagnosi di  dipendenza, disturbi della personalità, ossessioni o comportamenti anomali.

Se da un lato quindi le nuove tecnologie possono fornire una immensa gamma di opportunità e di sperimentazione di se stessi e lo sviluppo di nuove abilità a partire dai primi anni di vita; proprio l’assenza di confini concreti rischia di essere il maggior ostacolo all’individuazione di un’identità stabile.

Ma siamo sicuri che il pericolo riguarda solo i giovani?

L’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze in quanto causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito cerebrale della ricompensa: in altre parole, incoraggia le persone a svolgere attività che credono gli daranno piacere. Ogni like ricevuto sui social network attiva il circuito del rewards o ricompensa, cioè quell’area del cervello legata al piacere e questo comporterebbe una spinta verso un uso eccessivo di questi strumenti.

Ad Amburgo qualche tempo fa, si è tenuta una manifestazione molto significativa, 100 bambini sono scesi in piazza manifestando contro l’uso degli smartphone da parte dei genitori.  Il paradosso è quindi che talvolta anche gli adulti che dovrebbero vigilare ed educare, ad un uso corretto del digitale, trascorrono invece troppo tempo on line e capita spesso che i bambini sia essi consumatori che non consumatori, siano in entrambi i casi le vittime di un uso poco consapevole e corretto delle nuove tecnologie.

L’uso del telefono cellulare, come amico e compagno di giochi va di pari passo con internet e con l’educazione che viene impartita in ogni famiglia. Splendido strumento, usato per consentire di essere simultaneamente sempre soli e mai soli viene regalato ai bambini troppo presto. È evidente in recenti studi che l’accesso dei bambini più piccoli ai media digitali è più ampio rispetto a due anni prima, passando dal 52% al 75%. Il tempo dedicato a questi strumenti in una giornata tipo è triplicato. Collegato a questo dato ve ne è un altro, altrettanto interessante, che riguarda il tempo trascorso dai bambini in compagnia dei media più tradizionali come tv, dvd, videogames e computer, che è diminuito, mentre è aumentato quello dedicato a smartphone e tablet.

Importanti raccomandazioni e spunti di riflessione vengono offerti  dal rapporto L’Enfant et les écrans (Bach et al., 2013) pubblicato dall’Accademia delle Scienze francese, nel quale viene proposta a insegnanti, educatori e genitori una serie di suggerimenti che possano essere loro di aiuto nei differenti contesti in cui si trovano a operare con il supporto delle TIC. Dal rapporto emerge un quadro in generale positivo rispetto all’uso dei dispositivi touch dal punto di vista dello sviluppo cognitivo e sensoriale.

Gli autori, tuttavia, non nascondono i pericoli che i bambini possono correre nel caso in cui abusino di tablet e smartphone (isolamento, ridotta attività fisica, crisi del ragionamento di tipo induttivo, ecc.) e sottolineano il fatto che i nuovi oggetti tecnologici non dovrebbero diventare alternative ai giochi e ai giocattoli tradizionali, ma aggiungersi ad essi. Ma dinanzi a questo quadro generalizzato a livello europeo cosa direbbe oggi sulla questione Maria Montessori?

C’è un testo di Maria Montessori del 1947 intitolato “Introduction on the Use of Mechanical Aids” che probabilmente scrisse come prefazione a un libro  sulle tecnologie nella scuola. È riportato in un numero speciale dell’AMI Journal del 2015. L’introduzione ci dà un’idea di come Montessori considerasse la tecnologia. La studiosa ne era affascinata, le considerava delle “opportunità, un mezzo attraverso il quale una società mondiale interconnessa avrebbe potuto dare sostegno agli altri, e così far avanzare il genere umano”. Nel testo rimarcava l’importanza che la tecnologia potesse avere nelle scuole, ma riaffermava con forza che il primato, senza eccezioni, doveva essere dato allo sviluppo del bambino completo e osservava come i mezzi tecnologici non sempre erano all’altezza del compito.

Questa prematura “competenza digitale” dei bambini è quindi certamente un’abilità nuova che ha un effetto sulla formazione di abilità intellettive e quindi può rappresentare una risorsa per l’apprendimento, ma  come in tutte le cose non sempre si è all’ altezza del compito. L’uso e l’abuso può determinare un rischio. Nello schermo di uno smartphone o di un tablet vengono stimolati prevalentemente due sensi (vista e udito), la multidimensionalità del mondo reale viene meno.

Maria Montessori dunque sarebbe stata d’accordo con  Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta nel sostenere che: Il mondo va toccato, sentito con tutti i cinque sensi e le relazioni vanno vissute nella dimensione concreta e reale, guardandosi negli occhi, ascoltandosi e “sentendosi” non solo con le orecchie, ma anche con il cuore e con la mente. – 

Tuttavia, la scuola non è stata estranea alla rivoluzione  tecnologica, tra le competenze chiave per l’apprendimento permanente un ruolo non marginale viene dato appunto alla competenza digitale. Scuola e didattica sono oggi infatti oggetto di profondi cambiamenti legati all’uso consapevole ed intelligente dei nuovi strumenti tecnologici  “Le tecnologie digitali fanno parte delle nostre vite e dovrebbero far parte anche dei nostri sistemi educativi”. Ne è convinto il commissario europeo all’istruzione e alla cultura Tibor Navracsics, che intervenuto alla seconda edizione del Digital Festival a Bruxelles ha sottolineato il ruolo chiave di un’educazione digitale a scuola, da sviluppare con una strategia “inclusiva, ambiziosa e di lungo termine”, per formare i giovani europei, trasformandoli da semplici “consumatori di nuove tecnologie a veri nativi digitali”.

NOTA

Un altro  aspetto critico che emerge da numerosi studi di carattere internazionale è inoltre l’“analfabetismo emotivo”. Con questa espressione Goleman (2011) intende: la mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti a esse associati; la mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione e l’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui (non riconosciute e comprese) e con i comportamenti che da esse scaturiscono. Ad esempio, lasciare il proprio ragazzo semplicemente cambiando il proprio status su Facebook da “impegnata” a “single” è molto diverso che dirgli “ti voglio lasciare” guardandolo negli occhi; così come  denigrare una persona attraverso una chat e l’uso di un cellulare.

La dipendenza da internet, i fenomeni di cyberbullismo, i messaggi a volte violenti che si celano all’interno di giochi virtuali, sono diventati un problema in molti paesi europei e stanno coinvolgendo anche i bambini non soltanto gli adolescenti con ripercussioni sulla vita personale e scolastica.

Le istituzioni e gli organismi della UE

L’Unione Europea fa risalire le sue origini nel 1957 con l’istituzione della CEE (Comunità Economica Europea): l’Italia insieme a Belgio, Francia, Germania Occidentale, Lussemburgo, Paesi Bassi – è tra i paesi firmatari di un accordo che prevedeva la libera circolazione di persone, beni e servizi, superando le barriere poste dai confini nazionali.

Dopo 16 anni il numero degli Stati Membri sale a nove: nel 1973 è la volta della Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito, segue la Grecia nel 1981, Spagna e Portogallo cinque anni dopo.

In tutto dodici Stati che il 1° febbraio del 1992 decidono di sottoscrivere il trattato di Maastricht: si passa dalla CEE all’Unione Europea e si stabiliscono le regole politiche e i criteri economici e sociali necessari per l’ingresso degli Stati aderenti, a partire dal gennaio 1993.

L’Unione europea inizia il suo percorso, molto spesso in salita a causa delle turbolente vicende politiche e della crisi economica. Attualmente conta 28 Stati Membri, (con il Regno Unito in uscita nel marzo 2019), ultimo ingresso quello della Croazia nel 2013. Di 28 soltanto 19 paesi utilizzano l’euro, la moneta comune.

Questa – in sintesi – la genesi dell’Unione Europea: un’organizzazione sovranazionale che funziona grazie ad istituzioni ed organismi di cui tanto si sente parlare attraverso i media, dei quali però spesso si conoscono poco il ruolo effettivo e i compiti che sono tenuti a svolgere all’interno dell’organizzazione. Conosciamoli in dettaglio.

  • Il Parlamento europeo: è l’organo legislativo dell’U.E., ha sede a Strasburgo, composto da 751 deputati eletti ogni 5 anni a suffragio universale, su base proporzionale al numero degli abitanti di ogni Stato. A capo in qualità di Presidente vi è ora l’italiano Antonio Tajani. Compito principale del Parlamento è definire la legislazione dell’U.E. insieme al Consiglio dell’U.E., sulla base delle proposte avanzate dalla Commissione Europea. Si occupa inoltre di decidere in merito agli accordi internazionali e agli allargamenti, svolgendo un ruolo di monitoraggio e controllo delle istituzioni. Altro aspetto importante: elabora ed approva il bilancio dell’Unione europea.
  • Il Consiglio Europeo: riunisce a Bruxelles tutti i capi di stato e di governo dei paesi dell’U.E., a capo vi è un Presidente permanente che eletto dallo stesso Consiglio ogni due anni. Assolve il ruolo strategico di definire la politica estera, gli orientamenti e le priorità politiche dell’U.E.
  • Consiglio dell’Unione Europea: ha sede a Bruxelles, dove si incontrano i ministri dei governi di ciascun paese membro per discutere e adottare le leggi promosse dal Parlamento, con il quale approva anche il bilancio annuale. Il Consiglio dell’U.E. non è costituito da membri permanenti che non si riuniscono in seduta plenaria, ma suddivisi in dieci sotto-commissioni, a seconda dell’argomento trattato. Per esempio, del Consiglio “Affari economici e finanziari” fanno parte i ministri delle Finanze di ciascun paese.
  • Commissione Europea: rappresenta l’organo esecutivo dell’U.E., in quanto presenta al Parlamento e al Consiglio Europeo le leggi da adottare, nonché le priorità di spesa e il programma di bilancio annuale. Controlla inoltre le modalità di utilizzo dei fondi, sotto la supervisione della Corte dei Conti. Insieme alla Corte di Giustizia ha il compito di verificare il rispetto della legislazione dell’U.E. e di rappresentare l’Europa sulla scena internazionale, in particolare dal punto di vista economico e per gli aiuti umanitari.

È costituita da 28 commissari (uno per ogni paese membro) sotto la direzione di un Presidente, che definisce l’indirizzo politico della Commissione. Prima di passare al vaglio del Parlamento e del Consiglio Europeo, le decisioni vengono assunte in maniera collettiva: tutti i commissari hanno lo stesso peso nel processo decisionale e sono ugualmente responsabili di quanto stabilito, avvalendosi, per alcuni aspetti tecnici, anche di esperti e dell’opinione pubblica.

  • Corte di Giustizia Europea: garantisce che il diritto europeo venga rispettato e applicato in modo corretto ed uniforme in ciascun stato. Ha sede in Lussemburgo ed è composta da giudici ed avvocati.
  • La Banca Centrale Europea (BCE): la “cassaforte”dell’U.E., ha il compito di gestire l’euro, mantenere la stabilità dei prezzi e di orientare la politica economica e monetaria dell’Unione, al fine di favorire la crescita e l’occupazione; collabora con le banche nazionali, fissa i tassi di interesse dell’eurozona, autorizza le emissioni di euro in banconote. È presieduta dall’italiano Mario Draghi e ha sede a Francoforte.

Questi rappresentano gli ingranaggi principali della complessa macchina U.E., che si muove anche grazie ad altre istituzioni e organismi – forse poco noti – che ci limitiamo a menzionare:

  • Servizio europeo per l’azione esterna
  • Comitato economico e sociale europeo
  • Comitato europeo delle regioni
  • Banca europea per gli investimenti
  • Mediatore europeo
  • Garante europeo della protezione dei dati
  • Organismi interistituzionali

Per concludere si evince chiaramente che la macchina U.E. risulta sì complessa – in quanto tiene insieme paesi con tradizioni, usi e costumi molto differenti tra loro – ma anche completa, in quanto ogni istituzione, ogni organismo di cui è composta, sin dal lontano 1957, è chiamato a contribuire al raggiungimento di un traguardo:  far sì che ogni cittadino possa acquisire un’identità europea, al di là dei confini della propria nazione affinché possa davvero sentirsi parte di un’entità più solida e ampia, l’Unione Europea.

Le competenze: verso un modello europeo di scuola

I modelli educativi presenti nella comunità europea possono essere classificati per alcune particolarità comuni in quattro tipologie, il modello dei paesi scandinavi, l’anglosassone, il germanico ed il modello latino.

Si tratta di una classificazione sicuramente riduttiva ma che tenta di rintracciare percorsi comuni all’interno di sistemi educativi diversi che variano dalla piena autonomia, concessa alle scuole del tipo anglosassone, al centralismo del modello francese. Attualmente in ognuno di questi sistemi si tenta di apportare correttivi per migliorare le prestazioni della scuola, il cui valore risulta fondamentale per il progresso di ciascun paese e per la costruzione di un progetto educativo comunitario, determinato da scelte politiche capaci di sostenerne i sistemi educativi e valorizzarne le singole peculiarità.

Il modello anglosassone che vede coinvolti l’Inghilterra, il Galles, l’Irlanda del nord e la Scozia, pur puntando sulla piena autonomia delle scuole e sulla libertà di scelta da parte delle famiglie in base all’offerta formativa, ha tentato con l’introduzione del National Curriculum, di creare vincoli (anche se di fatto la Scozia non lo ha adottato), pur sempre nel decentramento. In tale modello educativo non sono previste le ripetenze, gli studenti sono sostenuti da forme di tutoraggio che garantiscono la personalizzazione del servizio.

Il modello scandinavo considerato il più progressista anche in rapporto ai risultati nelle comparazioni nazionali, comprende con diverse sfumature la Danimarca, la Finlandia, l’Islanda, la Norvegia, la Svezia, la Croazia e i Paesi Baltici. Punta sulla continuità didattica e la verticalizzazione del curricolo, non contempla valutazioni intermedie e mira a fornire a tutti gli studenti le medesime competenze di base; manca in buona sostanza l’insuccesso scolastico.

Il modello “tedesco” in cui rientrano con alcune differenze sostanziali per il Belgio, l’Austria, il Lussemburgo, l’Olanda e la Svizzera,  è di tipo selettivo: introduce la scelta dell’indirizzo scolastico precocemente (ad appena dieci anni); in Germania ad esempio, il sistema stesso serve a selezionare gli studenti da destinare a tre diversi percorsi: Hauptschule (Professionale), Realschule (Tecnico), Gymnasium (Liceo). Le scuole sono dotate di autonomia ma controllate di fatto dai Lander.

Il sistema latino risulta piuttosto eterogeneo, in questo modello possiamo riconoscere l’Italia, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Belgio, la Polonia, la Bulgaria e la Romania, chi più chi meno questi paesi, pur avendo alle spalle una tradizionale struttura centralistica, hanno sviluppato l’autonomia delle scuole e una didattica basata sulle competenze.

La politica europea fautrice della mobilità, con il riconoscimento delle qualifiche sostiene e incentiva la circolazione delle risorse umane all’interno dell’unione, pertanto occorre trovare raccordi tra i vari sistemi, garantendo competenze riconoscibili, certificabili ma soprattutto spendibili nel campo del lavoro.

In questo scenario le Raccomandazioni del 2018 dell’UE  rappresentano la via alla costruzione di un modello europeo di scuola quanto più omogeneo nei risultati di apprendimento degli studenti ed eterogeneo per le soluzioni esperite che traducono l’identità dei popoli da cui è formata la comunità.

Il documento affronta la necessità di dare risposte comuni a fenomeni globali attraverso il riconoscimento di competenze di cittadinanza che presuppongano oltre alle competenze di base, la capacità di “stare al mondo”, sviluppando atteggiamenti di resilienza ed adattamento; suggerisce soluzioni comuni, quali lo sviluppo nella scuola di ambienti di apprendimento che contemplino l’importanza della tecnologia e delle comunità di pratiche; la necessità di convalidare le competenze acquisite in ambienti informali e non formali; il riconoscimento delle eccellenze ed il sostegno allo sviluppo delle competenze in ambito STEM.

Disegna un percorso ben definito, quasi un “curricolo europeo” per una scuola autonoma e democratica all’interno di quella che Morin definirebbe una “comunità di destino” in cui è necessario “cogliere le mutue relazioni e le reciproche influenze” di un mondo complesso.

Il valore dello spirito critico contro il dogmatismo autoritario

Le otto competenze chiave delineate nella Raccomandazione del Consiglio Europeo, 22 maggio 2018 (rinnovamento e sostituzione dispositivo del 2006), sono tra loro interconnesse (unitarietà del sapere) e sono una combinazione vincente di conoscenze, abilità e (novità importante) atteggiamenti, ossia, la disposizione e la mentalità per agire o reagire con spirito critico e pensiero antidogmatico a idee, persone o situazioni.

Spirito critico e pensiero antidogmatico si delineano chiaramente e fortemente come la cifra dell’atteggiamento democratico. Una minaccia sottende al continuo e potente richiamo (quasi un’invocazione, una preghiera) ad essi: la perdita della libertà (di pensiero, di parola, di azione), dell’autonomia di giudizio, della capacità di valutazione. Vi sottende la minaccia di un progetto distopico, ubbidiente alle logiche della crescita economica, del profitto e dell’accumulo per l’accumulo.

Le democrazie sono agite da cittadini che pensano criticamente. Le Nazioni che preservano la democrazia, “composto chimico instabile” (Dialoghi – Democrazia e potere – Biennale Democrazia 2011), formano cittadini dotati di spirito critico e strumenti di empowerment, (auspicabilmente) verso l’Uguaglianza, come massimo valore.

La filosofa statunitense Martha Nussbaum sostiene che “la democrazia non sopravvive quando le persone delegano le loro decisioni alle autorità oppure si lasciano influenzare dalla pressione del gruppo sociale al quale appartengono”.

Il filologo classico e storico Luciano Canfora individua, tra gli scopi dell’insegnamento, quello di fornire agli allievi, “attraverso contenuti” e “stili di pensiero” che li preservino dal “rumore esterno”, gli “anticorpi” alle “mode”, in modo da poter cogliere la realtà con spirito critico. Secondo lo storico, al termine di un corso di studi, uno studente dovrebbe entrare “in una realtà di cui dovrebbe poter comprendere la dinamica fondamentale, e cioè la costante tensione tra “vecchio” e “nuovo”, tra autorità e libertà”.

Certamente c’è qualcosa che unisce spirito critico e libertà, che, probabilmente, passa (senza fermarsi) dalla mera comprensione e interpretazione di idee, fatti e situazioni (una sorta di funzione protettiva) per divenire qualcosa di creativo, di inedito. Dunque, non solo ricerca di senso (ovvio), ma anche di ciò “che accade in eccesso, come un di più che la mia intelligenza non giunge ad assorbire del tutto e sfugge” (Roland Barthes).

Si pensi al valore dello spirito critico nella conquista della “libertà dal conosciuto” (sostenuta da Jiddu Krishnamurti), libertà dagli schemi, dalla mera collocazione (attiva o passiva) di idee, fatti, situazioni e condizioni. “Per secoli siamo stati nutriti da maestri, dalle autorità, dai libri, dai santi (…) Siamo persone di seconda mano (…) Siamo il risultato di ogni forma di influenza, e non c’è niente di nuovo in noi, niente che sia stato scoperto da noi stessi; niente di originale, intatto, chiaro” (Libertà dal conosciuto, Jiddu Krishnamurti).

A che cosa serve avere migliaia di persone che non capiscono, imbalsamate nei loro pregiudizi, che non desiderano il nuovo, ma che traducono il nuovo per adattarlo ai loro sterili, stagnanti io? (…) Abbiamo fatto l’abitudine all’autorità e alla sua atmosfera (…) Crediamo e speriamo che un altro, attraverso i suoi straordinari poteri, ci possa condurre (per miracolo!) nel regno dell’eterna libertà che è Felicità.” (La verità è una terra priva di sentieri, Jiddu Krishnamurti, 1929).

Volendo sottolineare il forte rischio determinato dallo sviluppo del social media, Lamberto Maffei, della Scuola Normale di Pisa, insigne esperto di Neuroscienze a livello internazionale, sostiene che, a causa dei continui e ripetitivi messaggi (Facebook, Twitter, televisione), il senso critico è sostituito da una sorta di “protesi del pensiero”. Messaggi uguali, diffusi ad enormi moltitudini di persone, innescano la tendenza a “fare aumentare il cervello collettivo, oltre il grado richiesto per la socialità all’interno della specie”. Il “cervello collettivo” genera omologazione e annichilimento del pensiero personale, originale, critico. Lo sosteneva Euripide, tragediografo ed intellettuale, che, per sopravvivere, occorre praticare, celatamente ed intelligentemente, una certa dissidenza.

L’ordine imposto dall’esterno produce necessariamente disordine. Forse ne capirete la verità intellettivamente, ma riuscite nella realtà ad attuarlo in modo che la vostra mente non rappresenti autorità alcuna, quella di un libro, di un insegnante, di una moglie o di un marito, di genitori, di amici o della società?” (Libertà dal conosciuto, Jiddu Krishnamurti).

Se si pensa, poi, che situazioni di stress ed emozioni esercitano un’influenza determinante (condizionandolo negativamente) sul pensiero critico, si percepisce come potente il rischio di influenze e manipolazioni psicologiche in peculiari periodi di crisi (come quella economica), in cui si struttura un “comune sentire” e una comune necessità di guida e di “identitarismo”.

Voi volete avere i vostri dèi, nuovi dèi al posto dei vecchi, nuove religioni al posto delle vecchie, nuove forme in sostituzione delle vecchie, tutte ugualmente prive di valore, tutte barriere, tutte limitazioni, tutte stampelle” (Jiddu Krishnamurti).

Il pensiero critico efficace si realizza a un basso livello di emotività (le scelte altamente emotive non sono giustificabili), partendo dalla coscienza della propria fallibilità e basandosi sulla prerogativa dell’“impossibilità di giungere a una conclusione definitiva”. Secondo la zetetica, a cui, in filosofia, il senso critico è collegato nella sua interpretazione più positiva, “il dubbio è un mezzo e non un fine” (Spirito critico – Albanesi.it).

Renato Treves, filosofo e sociologo italiano, paladino di una concezione critica della scienza, riteneva la “libertà di coscienza, di pensiero, di ricerca, di azione” la conditio sine qua non di una politica volta all’uguaglianza e al progresso sociale. Per lui la libertà era “libertà di dubbio critico e, per questo, insofferenza verso ogni pretesa di verità assoluta”. (Il centenario della nascita di Renato Treves, Vincenzo Ferrari).

Non avere spirito critico significa esporsi al rischio di essere ingannati, in ogni aspetto della vita, dalla professione agli affetti, significa credere a sciamani dalle capacità divinatorie e ai detentori di verità incontrovertibili.

Il Pensiero critico costituisce, dunque, una delle principali life skills il cui riferimento  rappresenta la cifra di una scuola pienamente investita di funzione sociale, verso la costruzione di una “società critica”, forte e contraria al processo di sgretolamento del sistema dei diritti e alla sublimazione di autoritarismi. Il pensiero critico muove nella direzione contraria a “legge ed ordine”, quella della “democrazia partecipata”, il cui principio (costituzionale) fondante è il “pluralismo democratico ed istituzionale”.

La democrazia è il suo contenuto sociale” (Norberto Bobbio).

Manuele De Conti e Matteo Giangrande, pedagogisti e formatori, nel libro “Debate”, descrivono il metodo per l’introduzione della metodologia d’avanguardia del dibattito, finalizzato alla trasformazione della scuola italiana. Essi, tra le ricadute positive del metodo “acquisizione, sviluppo e organizzazione delle conoscenze, delle abilità critiche e logiche, delle abilità argomentative, delle abilità di ascolto, di lettura e scrittura, di abilità comunicative verbali e non verbali o di abilità di ricerca”, rinvengono anche “la formazione di una disposizione mentale aperta, flessibile, autocritica, dialogica e tollerante, fondamentale per la società e per formare generazioni meno autoritarie”. Il Debate, dunque, è finalizzato allo sviluppo della “competenza epistemica” e alimenta la democrazia.

Certo è che la costruzione di una mente critica richiede un approccio basato sull’unitarietà dei saperi e, dunque sull’integrazione delle diverse discipline scientifiche ed umanistiche. Il pensiero critico, così come la costruzione di una epistemologia personale si strutturano mediante approcci multidisciplinari e interdisciplinari.

Analizzate ciò che vi dico, sottoponetelo a critica per poterlo comprendere pienamente e a fondo”. (Jiddu Krishnamurti).

Il diritto alla privacy alla luce della nuova normativa europea: il regolamento europeo 2016/679 e il principio di accountability

Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali – più precisamente: sulla tutela delle persone fisiche con riferimento al trattamento dei dati personali e alla loro libera circolazione  (Regolamento UE  679/ 2016 – RGDP, in inglese “General data protection regulation”, GDPR) –  è un atto normativo, composto da 99 articoli, con il quale la Commissione Europea intende rafforzare e rendere più omogenea la protezione dei dati personali dei cittadini, sia all’interno sia all’esterno dei confini dell’Unione europea. Il testo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 4 maggio 2016, è diventato definitivamente applicabile, in via diretta e uniforme, in tutti i paesi UE a partire dal 25 maggio 2018. Infatti, la normativa all’interno dell’Unione Europea prevede che “il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile In ciascuno degli Stati membri” (art.  288, par. 2 TFUE). Si tratta quindi di un atto giuridico vincolante, diretto non solo agli Stati membri, ma anche ai singoli.

Il Regolamento europeo si applica alle persone fisiche, a prescindere dalla nazionalità o dal luogo di residenza, in relazione al trattamento dei loro dati personali (art. 2 GDPR, ambito di applicazione materiale). Il GDPR si applica inoltre (art. 3, ambito di applicazione territoriale) al trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito delle attività di uno stabilimento da parte del titolare del trattamento o di un responsabile del trattamento nell’Unione, indipendentemente dal fatto che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione, se relativi all’offerta di beni o servizi a cittadini UE o tali da comportare il monitoraggio dei comportamenti di cittadini UE (attrattività del Regolamento nei confronti dei cittadini UE).

Il RGDP è parte del cosiddetto “pacchetto protezione dati personali”, l’insieme normativo che definisce un nuovo quadro comune in materia di tutela dei dati personali per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, e comprende anche la “Direttiva in materia di trattamento dati personali nei settori di prevenzione, contrasto e repressione dei crimini”. Dal 25 maggio 2018, dunque, anche per le Istituzioni scolastiche, riconosciute pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D. Lgs. 165/ 2001, il RGPD ha sostituito la Direttiva sulla protezione dei dati (ufficialmente Direttiva 95/ 46 /EC) emanata nel 1995, ridefinendo la disciplina europea in materia di “Data Protection” e introducendo numerosi importanti cambiamenti.

Nell’ambito del nuovo quadro normativo che la Commissione Europea ha voluto delineare e al quale gli Stati membri devono conformarsi, l’Italia ha recepito i nuovi principi attraverso l’articolo 13 della legge 25 ottobre 2017, n. 163 (“Delega al governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione Europea –  legge di delegazione europea 2016- 2017”). Tale legge, entrata in vigore il 21 novembre 2017, ha attribuito al Governo la delega ad adottare (entro sei mesi) uno o più provvedimenti volti ad abrogare espressamente le disposizioni del Decreto Legislativo n. 196/2003 (l’attuale “Codice privacy”) che siano in contrasto o comunque incompatibili con la nuova disciplina europea in tema di trattamento di dati personali e a modificare le norme codicistiche in relazione a disposizioni del Regolamento Europeo non direttamente applicabili, in modo da coordinare e armonizzare le disposizioni vigenti in materia di protezione dei dati personali con la normativa europea. Il Decreto di adeguamento avrebbe avuto inoltre lo scopo di allineare l’attuale regime sanzionatorio, a livello penale e amministrativo, alle disposizioni del RGPD, al fine di garantire la corretta osservanza della nuova normativa. Il 4 settembre 2018 è stato quindi pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, Decreto Legislativo di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento UE 2016/679, entrato in vigore il 19 settembre 2018.

Tra le principali novità introdotte dal GDPR possiamo sinteticamente menzionare il principio di responsabilizzazione (accountability, artt. 7 e 24 GDPR), la ridefinizione diritti dell’interessato nell’informativa e in relazione alla manifestazione del consenso al trattamento dei dati personali (artt. 13 e 14 GDPR), il cd. “diritto all’oblio” (art. 17 GDPR), il diritto alla portabilità (art. 20 GDPR) e la figura del Responsabile della Protezione Dati (RPD, artt. 37-38-39 GDPR), che affianca quelle preesistenti del Titolare del Trattamento e del Responsabile del Trattamento.

Va però osservato che, sin dalla sua pubblicazione nella gazzetta Ufficiale della UE, nel 2016, il GDPR ha posto questioni interpretative, alcune delle quali ancora da risolvere da parte principalmente del Garante Privacy (non solo italiano, ma di qualunque Stato membro) e di coordinamento con la disciplina nazionale già in vigore.  Il Codice della Privacy (D. Lgs. n. 196/2003) e il Regolamento Europeo sono infatti il prodotto normativo di due approcci giuridici e, si potrebbe dire, di due filosofie di pensiero completamente diversi: mentre il Codice è prescrittivo, il Regolamento si basa sul principio di accountability o di responsabilizzazione (artt. 7 e 24 GDPR), che integra una presunzione legale di conformità e consiste nell’obbligo per il Titolare del Trattamento di adottare misure tecniche e organizzative adeguate, appropriate ed efficaci per garantire che il trattamento è effettuato in conformità al Regolamento e in attuazione dei principi di protezione dei dati da esso previsti (art. 5 GDPR); la responsabilizzazione inoltre comporta la necessità di dimostrare, su richiesta dell’interessato, che sono state adottate misure appropriate ed efficaci.

Più precisamente, il Regolamento UE parte da un approccio fondato sul principio di cautela, basato sul rischio del trattamento e su misure di accountability obbligatorie per titolari e responsabili (come la valutazione di impatto, il registro dei trattamenti, le misure di sicurezza, la nomina di un RDP-DPO). Come ha evidenziato il Garante Privacy nella guida all’applicazione del Regolamento, la nuova disciplina europea pone con forza l’accento sulla “responsabilizzazione” (accountability) di titolari e responsabili, ossia sull’adozione di comportamenti proattivi e tali da dimostrare la concreta messa in atto di misure finalizzate ad assicurare l’applicazione del regolamento. La responsabilizzazione (accountability) dei titolari e dei responsabili del trattamento è quindi il cardine del regolamento ed ha a sua volta, come corollario, il principio di rendicontazione: l’interessato ha diritto di essere informato in modo trasparente e dinamico sui trattamenti effettuati sui suoi dati personali.

Il cambio di prospettiva e la vera novità introdotta dalla normativa europea stanno però nel fatto che l’accento ora non è più tanto posto sulla responsabilità inerente alle attività svolte per raggiungere un determinato risultato, quanto sulla definizione specifica e trasparente dei risultati attesi – che formano le aspettative dell’interessato –, sui quali la responsabilità stessa si basa e sarà valutata. La definizione degli obiettivi costituisce, dunque, un mezzo per assicurare l’accountability. Inoltre, insieme al concetto di responsabilità, l’accountability presuppone quelli di trasparenza e di compliance. La prima è intesa come la possibilità di accesso alle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, accesso a sua volta finalizzato a rendere visibili all’esterno decisioni, attività e risultati. La seconda si riferisce al rispetto delle norme ed è intesa sia come garanzia della legittimità dell’azione sia come adeguamento dell’azione stessa agli standard stabiliti da leggi, regolamenti, linee guida etiche o codici di condotta. Sotto questi aspetti, l’accountability può anche essere definita come l’obbligo di spiegare e giustificare il proprio comportamento.

Il Regolamento, quindi, ponendo alla base del sistema la responsabilizzazione dei titolari/responsabili del trattamento, sostiene l’adozione da parte loro di approcci e politiche che mantengano costantemente alta l’attenzione riguardo al rischio che un determinato trattamento di dati personali possa comportare per i diritti e le libertà degli interessati. Questo aspetto è sottolineato già nel “Considerando 74”, posto in premessa al testo del GDPR: “E’ opportuno stabilire la responsabilità generale del titolare del trattamento per qualsiasi trattamento di dati personali che quest’ultimo abbia effettuato direttamente o che altri abbiano effettuato per suo conto …”. Il titolare del trattamento dei dati deve di conseguenza poter dimostrare non solo di aver adottato processi di conservazione e trattamento conosciuti dall’organizzazione (Garante), ma anche di avere messo in atto una strategia complessiva di misure giuridiche, organizzative e tecniche, per la protezione dei dati personali, anche attraverso l’elaborazione di specifici modelli organizzativi; deve inoltre dimostrare, in modo positivo e proattivo, che i trattamenti di dati effettuati sono adeguati e conformi al Regolamento europeo in materia di privacy.

Oltre al principio di accountability, il Regolamento europeo fissa, all’art. 5, altri principi fondamentali di portata generale:

  • liceità, correttezza e trasparenza: i dati personali sono trattati in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato;
  • limitazione delle finalità: i dati personali sono raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali finalità oppure comunque a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici;
  • minimizzazione dei dati: i dati personali sono adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati;
  • esattezza dei dati: i dati personali sono esatti e, se necessario, aggiornati;
  • limitazione della conservazione dei dati: i dati personali devono essere conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; i dati personali possono essere conservati per periodi più lunghi se trattati esclusivamente ai fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici;
  • integrità e riservatezza: i dati personali devono essere trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza, compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, dai trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali.

Non cambiano invece i presupposti di liceità del trattamento, delineati dall’art. 6 del GDPR. Essi, in linea di massima, coincidono con quelli del D. Lgs. n. 196/2003 (consenso, adempimento di obblighi contrattuali, interesse vitale della persona interessata o di terzi, obbligo di legge, interesse pubblico o esercizio di pubblici poteri, interesse legittimo prevalente del titolare o di terzi cui i dati sono comunicati), però con alcuni cambiamenti:

    • consenso: (i) deve essere esplicito per i dati sensibili e in caso di trattamenti automatizzati, compresa la profilazione. “Esplicito” non è sinonimo di forma scritta, benché questa sia la modalità idonea per configurare l’inequivocabilità del consenso e, in ogni caso, il titolare deve essere in grado di dimostrare che l’interessato ha prestato il consenso a uno specifico trattamento; (ii) il consenso dei minori è valido a partire dai 16 anni;
    • interesse vitale di un terzo: è invocabile a condizione che, nella fattispecie concreta, nessuna delle altre condizioni di liceità possa trovare applicazione;
    • interesse legittimo prevalente di un titolare o di un terzo: il bilanciamento tra tale interesse e i diritti e la libertà dell’interessato spetta allo stesso titolare (estensione del principio di “responsabilizzazione”, uno dei cardini del GDPR);
    • informativa: i contenuti dell’informativa sono tassativamente indicati negli artt. 13, par. 1, e 14, par. 1, del GDPR. In parte essi sono più ampi rispetto al D. Lgs. 196/2003. In particolare, l’informativa deve contenere: (i) i dati di contatto del RDP-DPO (Responsabile della protezione dati – Data Protection Officer), ove esistente; (ii) la base giuridica del trattamento; (iii) l’interesse legittimo, se costituisce la base legittima del trattamento; (iv) se i dati sono trasferiti in Paesi terzi e, in caso affermativo, attraverso quali strumenti; (v) periodo di conservazione dei dati o i criteri per stabilire tale periodo; (vi) diritto di presentare un reclamo all’autorità di controllo; (vi) in caso di processi decisionali automatizzati, compresa la profilazione, indicazione della logica di tali processi e delle conseguenze previste per l’interessato. Per i minori occorre prevedere informative idonee (scritte in un linguaggio semplice e chiaro che un minore possa facilmente capire). Nell’ipotesi di dati personali non raccolti direttamente presso l’interessato, l’informativa deve essere fornita entro un tempo non superiore a un mese dalla raccolta, oppure al momento della comunicazione dei dati.

Va altresì tenuto conto del fatto che, in linea di principio, il consenso non è idoneo fondamento del trattamento dei dati da parte della Pubblica Amministrazione, perché essa (e quindi anche le Istituzioni scolastiche autonome) dovrebbe operare sulla base di altri presupposti, consistenti essenzialmente in norme di legge o in un interesse pubblico riconosciuto in specifiche disposizioni. L’istituzione scolastica, quando pone in essere attività di tipo istituzionale, non ha quindi bisogno di ottenere il consenso dell’interessato. Di conseguenza il consenso non è un presupposto necessario per la liceità della stragrande maggioranza dei trattamenti da parte della PA, perché sono le norme che individuano gli ambiti dei trattamenti stessi. Inoltre, se è vero che il Regolamento europeo prevede il diritto di opposizione, è però altrettanto vero che la PA può neutralizzarlo con adeguata motivazione. A tale riguardo, come messo in luce dal “Considerando 43”, ogni volta che il “controller” (ossia il “titolare del trattamento”) è un’Autorità pubblica, c’è spesso un evidente squilibrio di potere nella relazione tra il “responsabile del trattamento” e l’interessato. E’ del resto chiaro che, nella maggior parte dei casi, l’interessato non avrà alcuna alternativa rispetto all’accettazione del trattamento da parte dell’Autorità pubblica. Il consenso deve essere, ad ogni modo, espresso mediante un atto con il quale l’interessato manifesta l’intenzione libera, specifica, informata e inequivocabile di accettare il trattamento dei dati personali (mediante dichiarazione scritta). I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali. Il trattamento dei dati personali deve essere lecito e corretto.

Nella sintesi richiesta dal presente contributo, sono stati messi in evidenza, in linea generale, solo alcuni dei principali elementi caratterizzanti il GDPR. Va ad ogni modo considerato che si tratta di un diritto in fieri, da tenere costantemente sotto controllo alla luce di Linee Guida e di strumenti interpretativi che verranno sicuramente resi noti dal Garante della Privacy nel corso dei prossimi mesi.

Dall’esame della materia emerge come sia, oramai, imprescindibile un cambiamento di mentalità che porti alla piena tutela della privacy, da considerare non tanto come un oneroso rispetto di adempimenti burocratici, quanto piuttosto come garanzia, per il cittadino che si rivolge alle pubbliche amministrazioni, di una riservatezza totale dal punto di vista reale e sostanziale.

Il diritto alla privacy è un diritto inviolabile della persona che non si limita alla tutela della riservatezza o alla protezione dei dati, ma implica il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona. Per questi motivi la cultura della privacy necessita di crescere e rafforzarsi, principalmente fra gli operatori delle pubbliche amministrazioni, perché solo con la conoscenza consapevole dei principi fondamentali che stanno alla base della vigente normativa potranno essere adottati correttamente tutti gli adempimenti di legge, nel trattamento di dati di competenza, con la consapevolezza di non affrontare un inutile gravame, bensì di contribuire concretamente al miglioramento della qualità del rapporto con l’utenza.

L’istruzione nell’Unione Europea

Nel corso del Novecento gli stati europei portano a compimento l’aspirazione illuminista di un livello di istruzione sempre più generalizzato tra la popolazione attraverso una democratizzazione dell’istruzione e formazione permanente, realizzando sistemi istituzionali di insegnamento organizzati e programmati.

Nel secondo dopoguerra, nell’Europa occidentale, assistiamo ad un impressionante aumento della popolazione scolastica.

Tra gli anni Sessanta e Settanta gli studenti dei corsi secondari raddoppiano, anzi, triplicano in tutti i Paesi europei.

Negli ultimi decenni del «secolo breve», in tutta Europa si assiste ad un innalzamento medio della qualità dell’istruzione, che produce una parziale mobilità sociale.

In Europa, ogni Paese ha la responsabilità di elaborare proprie politiche in materia di istruzione e formazione, decidere i contenuti dell’insegnamento e organizzare il sistema scolastico nazionale.

Il Trattato di Roma (1957) non disciplina la materia di istruzione e formazione. Solamente l’art. 128 prevedeva una politica comune di «formazione professionale» avente come unico fine la risoluzione dei problemi occupazionali.

Nel 1976, il Consiglio Europeo, nella consapevolezza di intervenire nel settore dell’istruzione indica le seguenti priorità d’azione:

  • l’istruzione dei figli dei lavoratori immigrati
  • l’integrazione di sistemi europei di istruzione
  • l’insegnamento delle lingue straniere

È con il Trattato di Maastricht (1992) che l’istruzione viene formalmente riconosciuta come area di competenza dell’Unione Europea (cfr. l’art. 126, paragrafo 1).

Per ogni Stato membro la qualità dell’istruzione costituisce una priorità politica perseguita a livello nazionale al cui sviluppo la Comunità europea può contribuire.

Il 1996 è l’anno della pubblicazione del Libro verde sull’innovazione, ma è anche l’anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita. Il messaggio chiave è che: «non bisogna mai smettere di formarsi». Il progetto di apprendimento permanente (lifelong learning) costituirà uno dei pilastri attorno ai quali si sviluppa a partire dall’anno 2000 il processo di Lisbona considerato a ragione il punto nodale per lo sviluppo delle politiche di istruzione e formazione in Europa.

Il 19 giugno 1999, i Ministri dei Paesi membri si riuniscono per sottoscrivere un importante documento: la Dichiarazione di Bologna con lo scopo di armonizzare i sistemi di istruzione superiore in Europa.

Il Trattato di Amsterdam (1997) apporta modifiche e integrazioni al Trattato di Maastricht. Il 10 gennaio 2003 entra in vigore il Trattato di Nizza che costituisce parte integrante del trattato di Lisbona (particolarmente importante per noi l’art. 9), che dal 10 gennaio 2009 rappresenta la base costituzionale dell’UE.

Inoltre, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che lo stesso valore giuridico dei Trattati, stabilisce all’art. 14 che «ogni persona ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua» e l’art. 15 che «ogni persona ha il diritto di lavorare ed esercitare una professione liberamente scelta o accettata».

Gli stati membri dell’UE sono quindi responsabili dei contenuti e dell’organizzazione dei sistemi di istruzione e formazione professionale. L’UE rispetta la diversità delle norme legislative nazionali e non ha la competenza per armonizzarle ma contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra i Paesi sostenendone ed integrandone la loro azione.

Per una lettura esauriente, scientifica ed integrale dei diversi sistemi educativi europei invito alla lettura del Quaderno di Eurydice Italia sulle diverse strutture dei Paesi membri dell’UE.

Con l’agenda 2030 la scuola fa goal

Il programma d’azione l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile firmata da 193 paesi dell’ONU nel settembre 2015 ingloba 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile in un grande programma d’azione per un totale di 169 target o traguardi intende assicurare a tutti coloro che vivono sulla terra la soddisfazione di bisogni essenziali attraverso uno sviluppo economico che salvaguardi l’ambiente. In questo programma sono condensati le questioni importanti per lo sviluppo: lotta alla povertà, eliminazione della fame, contrasto al cambiamento climatico. Tutti sono coinvolti, nessuno è escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il cammino per andare il mondo sulla strada della sostenibilità.

Il quarto obiettivo riguarda la scuola “Assicurare un’istruzione di qualità equa ed inclusiva e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti”. Un futuro migliore per tutti è possibile attraverso stili di vita sostenibili, con una riduzione drastica della violenza e della mortalità, attraverso la promozione della cultura della pace, la valorizzazione della diversità, dell’uguaglianza di genere. In questo l’istruzione può fare molto assicurando ai giovani un futuro migliore. Un grande passo avanti è fare in modo che tutti siano in grado di leggere e scrivere attraverso un accesso paritario ai livelli di educazione ed istruzione, “elementi trasversali del cambiamento” che abbracciano tutte le età dall’infanzia all’età adulta.

In questo programma ambizioso il richiamo alle tecnologia diventa necessario canale per supportare l’intero sviluppo economico ed il benessere divenendo sostenibili ed affidabili di pari passo con essa e la ricerca. Il MIUR ha recepito l’agenda 2030 con un Piano di educazione alla sostenibilità in 20 azioni raggruppate in 4 macroaree: struttura ed edilizia, didattica e formazione, università e ricerca, informazione e comunicazione.

Alle scuole è demandato il compito di rinforzare i significati dell’Agenda 2030 e rivitalizzare le collaborazioni con tutte le componenti scolastiche, della società civile, delle imprese, del settore pubblico inserendo nei piani triennali dell’offerta formativa. Sarà predisposto un protocollo per l’alternanza scuola lavoro con ENEA per percorsi durante i quali studenti e studentesse possono partecipare a progetti di valutazione energetica.

In più per le scuole superiori sarà organizzato un hackathon per costruire l’agenda della loro scuola con azioni e progetti. Una parte importante del Piano è per progetti di efficientismo energetico delle scuole progettati dalle ragazze e dai ragazzi durante i percorsi di ASL o di educazione ambientale. Sarà predisposto un piano di formazione per docenti e dirigenti. All’interno dei 4 laboratori di formazione per docenti neoassunti sarà riconosciuto un modulo formativo sull’Educazione.

Le azioni possibili del DS sono molteplici e vanno dal perseguimento di una INCLUSIONE piena sicuramente già PATRIMONIO DELLA NOSTRA SCUOLA (L. 170 del 8 ott. 2010 •DM n. 5669 12 lug. 2011 •Linee guida allegate al DM n. 5669 •DIRETTIVA – 27 dic. 2012 Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’Inclusione Scolastica, C.M. n. 8 – 6 marzo 2013). IL DIRITTO ALLO STUDIO già contemplato dalla nostra costituzione trova nell’atto di indirizzo propedeutico al PTOF che il ds emana in coerenza anche con l’agenda 2030 la sua massima declinazione. Insomma con l’agenda 2030 ci sarà tanto da fare nella scuola.

Maastricht e il principio di sussidiarietà

La fondazione della città olandese di Maastricht si fa risalire al 333 d.C., presumibilmente per volontà di San Servazio, vescovo di Tongres e Maastricht, al quale viene attribuita la costruzione di un “castellum”, una fortificazione romana.

La città, medievale nell’architettura e dall’intensa vivacità culturale, viene ricordata oggi per il Trattato dell’Unione Europea, che segnò il 7 febbraio 1992 l’avvio di una stretta collaborazione, di una forte intesa e di una importante condivisione tra i rappresentanti di 12 Paesi Europei: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna.

Il Trattato di Maastricht entrò in vigore il primo Novembre 1993, ufficializzando la nascita dell’Unione Europea (UE), la quale inglobò in sé le tre preesistenti Comunità europee: la Comunità economica, la Ceca e l’Euratom.

Erano state necessità prevalentemente economiche sovranazionali a spingere i sei Paesi già riuniti nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, a fondare il 25 marzo 1957, con la firma sui Trattati di Roma, la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom).

Negli anni ’60, i Paesi dell’Unione Europea, non avendo più applicato dazi doganali per i loro reciproci scambi, determinarono un periodo economico molto produttivo e ciò comportò un interesse da parte di altri Paesi, come la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito, verso la CEE, con conseguente allargamento della stessa e la promozione di nuove politiche estere comuni. Nel 1975 fu creato perfino un Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR).

Gli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i 28 Paesi dell’Unione Europea furono significativamente rappresentati in dodici stelle dorate sulla bandiera blu, che, adottata inizialmente quale bandiera del Consiglio d’Europa il 25 ottobre 1955, attualmente rappresenta lo stendardo sia del Consiglio d’Europa sia dell’Unione Europea: 12 è numero ideale, indice e simbolo di perfezione e unità, 12 come le fatiche di Ercole, 12 come  le tavole della Legge Romana, 12 come i mesi dell’anno, 12 come i figli di Giacobbe.

La disposizione delle 12 stelle dorate a corona rappresenta l’unione dei popoli europei.

Ciascuna stella è disposta verticalmente, cioè una punta è rivolta verso l’alto e due punte sono disposte direttamente su una linea retta immaginaria perpendicolare all’asta, come le ore di un quadrante di un orologio.

La bandiera, intenzionale espressione del senso di unità, collaborazione, reciproco aiuto, è emblema della sussidiarietà dei 28 Paesi, di “…quello che a molti pare qualcosa di inconciliabile: l’emergere dell’Europa unita e la fedeltà alla nostra nazione, alla nostra patria; la necessità di un potere europeo, all’altezza del nostro tempo, e l’imperativo vitale di conservare le nostre nazioni e le nostre regioni come luogo di radicamento” (J. Delors, Riconciliare l’ideale e la necessità, in Il nuovo concerto europeo, Milano, 1993).

Il Trattato di Maastricht, che, come definito dall’accademico americano Andrew Moravcsik, fu il frutto di “un illustre negoziato intergovernativo”, a culmine di una lunga storia di intese, collaborazioni, reciproco sostegno fra gli stati europei, è sicuramente la consacrazione del principio di sussidiarietà e proporzionalità.

Nell’Unione Europea, la sussidiarietà si verifica sia orizzontalmente sia verticalmente.

In effetti, nell’art.11 del TUE, le istituzioni dell’Unione Europea sono tenute a riconoscere ai cittadini e alle associazioni la possibilità di far diffondere e scambiare pubblicamente le proprie opinioni nei vari ambiti dell’Unione Europea: è la sussidiarietà orizzontale, connessa ai rapporti tra autorità pubblica e sfera privata.

Diversamente, il tentativo di avvicinare il cittadino alle istituzione, facendo recuperare una sorta di fiducia nei confronti della Pubblica Amministrazione, spinse gli Stati Europei a riconoscere la necessità di intervento sovranazionale (sussidiarietà verticale). L’Unione Europea si ritrova oggi ad intervenire, in alternativa ad un’azione da parte dei singoli Paesi membri, in particolar modo se si presume un’incapacità individuale dell’efficacia dell’azione o qualora, grazie all’intervento dell’Unione Europea, sia possibile la risoluzione di un problema con una maggiore efficienza. In tal modo, il principio di sussidiarietà non presuppone l’esclusività: l’UE può agire solo se, e nella misura in cui, l’obiettivo di un’azione proposta non può essere raggiunto in maniera soddisfacente da parte dei Paesi, ma potrebbe essere realizzato in modo migliore a livello comunitario.

Ovviamente, la sussidiarietà interviene in quei settori non di “competenza esclusiva” dell’Unione Europea e precisamente: l’unione doganale; la concorrenza intesa quale definizione delle regole necessarie al funzionamento del mercato interno; la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta unica è l’euro; la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; la politica commerciale comune.

La Comunità applica la sussidiarietà nei campi dove sia necessaria la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, per completarne l’operato. Termini come “appoggio” e “azione complementare”, presenti nel Trattato, connotano l’intervento comunitario di suppletività nei vari settori dell’istruzione, della formazione professionale, della cultura, della sanità pubblica, della protezione dei consumatori, delle reti transeuropee e dell’industria.

Nella disciplina di tali materie, la Comunità Europea, non potendosi sostituire ai singoli Paesi, deve incoraggiarne la collaborazione, ripartendo le competenze tra Comunità e Stati membri e  stabilendo la competenza in una certa materia dallo Stato alla Comunità, qualora “gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e passano dunque a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”. Una volta che la competenza è passata alla Comunità viene anche precisato che la sua azione non deve andare “al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato” (principio di sussidiarietà nel Trattato sull’Unione Europea).

Si realizzano, così, le competenze precipue dell’UE, soggette a due ideali fondamentali: la proporzionalità e la sussidiarietà, così come recita l’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea al Titolo I delle Disposizioni Comuni (ex articolo 5 del TCE):

  1.  La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità.
  2. In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.
  3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.

Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo.

  1. In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati.

Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

E’ in tal modo che la cooperazione tra gli Stati, il reciproco sostegno nella garanzia della propria autonomia e il confronto per il conseguimento di obiettivi comuni in grado di promuovere quel clima di condivisa responsabilità pongono le basi perché l’antico continente possa “…diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. (Strategia di Lisbona, 2000)

Parità di genere in UE: una strada ancora lastricata di sassi

La violenza di genere e la femminilizzazione della povertà sono problematiche centrali nelle politiche di pari opportunità portate avanti dall’UE, nel generale processo di integrazione europea nato con il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Europea nel 1957 che, nell’art. 119, ha sancito la parità salariale tra uomini e donne, a parità di mansioni lavorative, gettando le basi di quel processo, non ancora completato, del riconoscimento della parità di genere.

L’argomento viene ripreso nel Trattato di Amsterdam del 1997 che ha decretato il principio di parità tra generi come obiettivo dell’Unione (art. 2) e compito della Comunità nel perseguire tale goal tramite l’attuazione di politiche e azioni comuni (artt. 2 e 3). Nell’art. 13 si afferma che il Consiglio, su proposta della Commissione e dopo aver sentito il Parlamento, può prendere provvedimenti per contrastare discriminazioni fondate su sesso, razza, lingua, religione, convinzioni personali, età, ecc, mentre nell’art. 141 viene estesa l’area di applicazione della parità di retribuzione dei lavoratori di genere non solo ai lavori di pari mansioni ma anche a quelli di pari valore.

Un passo in avanti compie il Trattato di Lisbona (2007) che fa della parità di genere un valore del processo di integrazione e dà forza alla Carta dei Diritti Fondamentali, proclamata nel 2000 a Nizza, che così assume lo stesso valore giuridico dei trattati. Gli artt. 21 e 23 citano espressamente la non discriminazione e la parità tra uomini e donne, rafforzando così l’impegno dell’Unione in materia di pari opportunità.

La parità salariale era stata codificata per la prima volta nel 1919 nel trattato di Versailles che riporta, nella terza parte ove vengono elencate le norme per la costituzione dell’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, un articolo sulla parità salariale tra uomini e donne che ancor oggi non è ancora stata raggiunta attestandosi su una media del +16% a favore degli uomini, tra i diversi paesi dell’UE.

A partire dagli anni ‘70 sono state approvate una serie di direttive, poi recepite dagli Stati membri, riguardo a parità di trattamento tra uomini e donne in termini di accesso al lavoro, parità salariale, condizioni di lavoro, formazione professionale, ancor oggi pilastri importanti di quella che è la politica sociale europea.

Un momento importante nello sviluppo della politica di integrazione europea furono sicuramente le elezioni del Parlamento europeo del 1979 che registrano un deciso aumento della presenza femminile in Parlamento; fu considerata, però, da molti, una sorta di vittoria di Pirro dal momento che il Parlamento non era certo considerato l’organo più importante e le sue elezioni erano perciò dette di “secondo ordine”.

In tal modo le donne hanno comunque potuto dare un importante contributo allo sviluppo della politica di pari opportunità. Nella prima legislazione, infatti, del Parlamento eletto a suffragio, dal 1979 al 1984 fu costituita la prima Commissione per i diritti della donna e una Commissione di inchiesta sulla situazione della donna in Europa, preludio alla nascita della permanente Commissione per i diritti della donna del Parlamento europeo, e al dibattito sul Gender main streaming, cioè il rispetto e l’applicazione del principio di pari opportunità in tutte le politiche pubbliche, che si affermerà negli anni ’90.

A partire dagli anni ’80, su indicazione anche del Parlamento, l’intervento della Comunità è andato ben oltre il tema della condizione femminile nel mercato del lavoro e attraverso i programmi d’azione positiva ha cercato di migliorare in toto la condizione femminile nella Comunità Europea, mediante quattro programmi miranti a:

  • garantire alle donne la più ampia scelta tra le diverse opzioni lavorative senza essere condizionate nella scelta dalla maggiore conciliazione tra lavoro e famiglia (work life balance);
  • garantire alle donne il raggiungimento di posizioni lavorative anche apicali (empowerment femminile);
  • garantire il miglioramento delle condizioni delle donne nella società, obiettivo ampiamente ribadito in occasione della quarta Conferenza mondiale di Pechino nel 1995;
  • contrastare la violenza di genere economica, psicologica, fisica, tramite anche la valorizzazione della professionalità e della imprenditorialità femminile (self employment).

Dal 2000 ad oggi la politica di pari opportunità dell’UE si è sviluppata su cinque obiettivi chiave: accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, garantire la parità salariale, ridurre il divario di genere in termini di retribuzioni, introiti e pensioni e combattere la povertà delle donne. Ciò perché la disparità salariale, la mancata integrazione nel mercato del lavoro, l’entrata e l’uscita più volte e a volte forzata per poter garantire attenzione e cura alla prole e alla famiglia, fa sì che al termine del periodo lavorativo, le pensioni risultino alquanto esigue. Attualmente in Europa si contano 120 milioni di poveri, rappresentati principalmente da donne e bambini per cui è chiaro che per combattere oggi la povertà bisogna innanzitutto rafforzare le politiche di pari opportunità e garantire maggiori risorse per le donne.

Il fenomeno della femminilizzazione della povertà sta emergendo con forza negli ultimi anni in Europa. L’europarlamentare esponente dei socialisti democratici Maria Rena, di recente ha sottolineato come la povertà femminile in Europa non è altro che il risultato del permanere di varie discriminazioni nel mondo del lavoro e della recrudescenza della violenza di genere.

Quest’ultima problematica è fortemente intrecciata proprio con il tema dell’indipendenza economica femminile in quanto elemento importante per contrastare la violenza sulle donne e in grado sicuramente di dare a queste ultime una maggiore forza per opporsi, denunciare, rendersi interpreti della propria salvezza.

Secondo il Report on equality between women and man 2015 la condizione economica di uomini e donne nel mercato europeo del lavoro mostra un divario sostanziale. Il gender pay gap è ancora alto, circa del 16%; il tasso di occupazione è ancora molto basso: tra il full time e il part time, tra i tassi di inactive e di unemployed si registrano gap che superano anche il 20%. Non c’è dunque una piena integrazione nel mercato del lavoro e siamo lontani da quelli che sono gli obiettivi programmatici del documento strategico Europa 2020 che, insieme al Trattato di Lisbona rappresenta il documento di riferimento nella politica di integrazione femminile europea: sviluppare e promuovere un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale, un tasso di occupati in età compresa tra i 20 e 64 anni del 75%, una diminuzione di 20 milioni di unità tra le persone a rischio di povertà.

Nonostante la percentuale delle donne laureate e con ottimi voti sia molto alta, una media di circa il 60% del totale dei laureati, le donne abbandonano in massa le carriere accademiche, in particolare modo quelle scientifiche ed ingegneristiche. La percentuale di donne presenti nei consigli di amministrazione si attestano intorno ad una media di valori del 20% in UE, con scostamenti dalla media del 12,4% in positivo in Francia e del 17,3% in negativo a Malta, mentre la percentuale di donne che rivestono il ruolo di amministratore delegato è del 3%, ben al di sotto di quella democrazia paritaria che la politica di integrazione europea aveva prospettato.

Quello che mostra con molta chiarezza l’ultima relazione della Commissione europea in termini di pari opportunità è che il cosiddetto Breadwinner model non è ancora tramontato: all’uomo che “porta il pane a casa” spetta il lavoro meglio retribuito mentre alla donna il lavoro non retribuito, di cura della casa e della famiglia e le statistiche dimostrano chiaramente come la presenza di uno o più figli in una famiglia influenza verso il basso le statistiche sull’accesso al lavoro retribuito fuori casa da parte femminile.

Eppure una accreditata ed importante testata giornalistica economica, l’Economist già dal 2006, afferma che la crescita economica deve essere guidata dalle donne e che se più donne potessero accedere ad un lavoro retribuito, il mondo sarebbe più ricco!

Maurizio Ferrera nel libro “Il fattore D – perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia”, sottolinea come la women economy messa in atto dal Giappone ha consentito un aumento del PIL dovuto ad un ovvio aumento del reddito familiare, una maggiore capacità di consumo ed investimenti, una diminuzione della povertà e della vulnerabilità nei confronti di avvenimenti imprevisti e una maggiore crescita sociale per l’aumentata rete di rapporti.

Il lavoro delle donne, inoltre, genera altro lavoro, più servizi, legati alla cura della casa, della famiglia, nonché un aumento delle nascite dal momento che con il lavoro non viene meno il desiderio di maternità che nelle donne, anzi, viene in un certo senso soffocato, in presenza di condizioni economiche precarie o addirittura insufficienti: lavoro alle donne, quindi, anche come rimedio al calo demografico che caratterizza la maggior parte dei Paesi europei. Ferrera, quindi, auspica uno sviluppo delle strutture di assistenza all’infanzia, non semplicemente come luoghi di custodia dell’infanzia ma come luoghi ove coltivare e sviluppare talenti.

Essendo la presenza femminile nei differenti Parlamenti d’Europa intorno al 30%, al di sotto quindi di quel rapporto equo tra presenza femminile e maschile che una democrazia paritaria – per chiamarsi tale – dovrebbe registrare, si può affermare che la democrazia paritaria non è propria della nostra Comunità pur essa lottando e lavorando con forza per contrastare il terribile fenomeno della violenza di genere. Essa ha, infatti, sollecitato la firma da parte del Consiglio d’Europa della Convenzione di Istanbul, l’11 maggio 2011 ma entrata in vigore il 1° agosto 2014, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

La violenza di genere è sicuramente oggi un problema mondiale, che si manifesta con dati allarmanti, che interessa trasversalmente ormai tutte le società, da est a ovest, da nord a sud, dalle società ricche a quelle povere, senza distinzione di culture o credo religioso. La lotta alla violenza di genere e la costruzione di una società più democratica e più equa passa sicuramente attraverso la lotta e l’abbattimento di stereotipi, programmi e progetti da sviluppare a tutti livelli della società civile come scuole, ambienti di lavoro, associazioni, mass media, l’inasprimento e la certezza delle pene, firme di accordi e convenzioni a livello nazionale ed internazionale.

L’ONU ha lanciato da alcuni anni un programma di solidarietà HE FOR SHE, movimento che sottolinea l’importanza del coinvolgimento degli uomini nei progetti di contrasto e lotta alla violenza di genere. Anche l’UE ha sottolineato l’importanza di tale progetto essendo la risoluzione del problema della violenza di genere una sfida non solo al femminile ma da condurre insieme, uomini e donne.

L’Unione Europea: opportunità di studio, lavoro e ricerca

L’Unione Europea attraverso svariati programmi che incentivano gli scambi di esperienze, sia in piattaforma che in presenza, favorisce e sostiene la formazione degli studenti attraverso la condivisione di un’offerta formativa di ampio respiro; occasione unica anche per i ragazzi che sono nati in luoghi culturalmente ed economicamente svantaggiati.

Da alcuni anni l’UE, vive un periodo di evidente crisi di consensi. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la grande difficoltà a gestire il flusso dei migranti provenienti soprattutto dai paesi dell’Africa e del Medio Oriente, la minaccia sempre pressante del terrorismo di matrice islamica, il perdurare della recessione economica in quasi tutti i paesi europei, del conflitto siriano e dell’instabilità in Libia, sono senza dubbio elementi di grave destabilizzazione dei valori che portarono alla costituzione dell’UE e, quindi, di indebolimento di una visione condivisa che dalle origini aveva consentito di raggiungere importanti e significativi risultati.

Per la prima volta, la capacità di attrazione dell’UE viene messa in discussione dall’interno. Nonostante ciò, dal punto di vista dell’istruzione/formazione, del lavoro e della ricerca essa rimane indubbiamente una risorsa ancora non appieno sfruttata, soprattutto da docenti e studenti italiani.

Com’è noto, pur essendo i singoli stati membri sovrani e responsabili dei propri sistemi educativi e formativi, nel rispetto delle tradizioni educative, culturali, economiche e sociali di ogni nazione, ormai da decenni, vengono emanate delle Raccomandazioni dal Parlamento europeo per accordare i differenti sistemi scolastici e uniformare i titoli di studio e le qualifiche secondo quadri comuni di riferimento, in modo da permettere una reale mobilità dei cittadini europei all’interno dell’Unione, sia per motivi di studio e di ricerca sia per lavoro. L’UE ha, perciò, una funzione di supporto fissando obiettivi comuni e favorendo lo scambio di buone pratiche.

Analizzando tutti i sistemi scolastici dei paesi membri dell’Unione si rileva inequivocabilmente e in modo generalizzato la promozione dell’educazione alla “cittadinanza responsabile” per sviluppare nei giovani il pensiero critico, la cultura politica e la partecipazione attiva alla vita sociale. Due obiettivi principali delle strategie di collaborazione per il periodo 2010-2020: offrire ai giovani nuove e pari opportunità di studio e lavoro; incoraggiarli a partecipare attivamente alla società.

Emerge la finalità di creare maggiori opportunità lavorative e una vita “migliore” e, di conseguenza, dimostrare che l’Europa è in grado di promuovere una crescita sostenibile, inclusiva e intelligente. Per cui, a seguito del non completo raggiungimento degli obiettivi della strategia “UE 2010”, è stato concepito il Programma Erasmus + (2014/2020) che accorpa in un unico segmento di finanziamento, tutti i programmi a sostegno dell’istruzione, formazione, gioventù e sport, con lo scopo di sostenere, anche, gli obiettivi relativi all’istruzione della Strategia “UE 2020” (crescita intelligente, inclusiva e sostenibile, occupazione, equità sociale e integrazione) e i traguardi nel campo dell’istruzione e formazione per la cooperazione europea del programma Education and Training 2020, “ET 2020” (forum per scambi di informazioni, buone pratiche didattiche e formative, apprendimento cooperativo, metodi di lavoro comuni, strategie e soluzioni vincenti, ecc.)

Il programma Erasmus +, coinvolge numerose organizzazioni (università, istituti d’istruzione e formazione, centri di ricerca, imprese private, ecc.) e offre la possibilità alle persone di tutte le età (studenti, docenti, personale amministrativo, dirigenti, cittadini in genere) di usufruire della mobilità per condividere e sviluppare conoscenze e competenze presso istituti e organizzazioni di differenti paesi dell’UE o, anche, di creare e gestire in modo innovativo progetti comuni attraverso gemellaggi elettronici, come ad esempio “e-Twinning”, che è la community europea più grande di insegnanti attivi nel settore.

Fra le attività possibili: studiare e insegnare all’estero, svolgere servizio di volontariato o di tirocinio formativo europeo, o esperienze sportive di livello comunitario per gli studenti-atleti (promuovendo le carriere duplici), azioni per sostenere lo sport e l’attività fisica in generale, per affrontare le minacce relative all’integrità dei valori insiti nello sport (quindi favorire la tolleranza, il rispetto delle regole e dell’avversario, l’integrazione) e, non da ultimo, contribuire ad organizzare la settimana europea dello sport.

Altra iniziativa fondamentale nel settore dell’istruzione è il programma “Youth on the move”, il cui scopo è di aiutare le nuove generazioni ad acquisire conoscenze, abilità, competenze ed esperienze adeguate alle richieste dall’odierno mercato del lavoro e, quindi, facilitarne l’inserimento. L’UE punta ad una scuola basata sulla personalizzazione degli apprendimenti, su un’azione formativa che tenga conto del diritto di ognuno di apprendere secondo le proprie attitudini e capacità. Ogni paese ha sviluppato un proprio modello di istruzione e formazione che sebbene ancorato alle tradizioni e al contesto nazionale, tiene conto delle raccomandazioni dell’Unione, in un processo di armonizzazione dei diversi sistemi educativi, che devono confrontarsi con una domanda formativa e lavorativa caratterizzata da una grande mutevolezza e da una dimensione sempre più globale.

La partecipazione alle iniziative europee, perciò, è un modo efficace per sviluppare nuove competenze legate all’apprendimento sul campo delle lingue straniere e alle capacità creative, imprenditoriali e di versatilità, che consentiranno ai cittadini del domani non solo di inserirsi più facilmente e attivamente nel mondo del lavoro, ma, anche, laddove fosse necessario, di cambiare lavoro, perché in grado di continuare a formarsi e ri-immettersi continuamente nel circuito in perpetuo divenire delle attività produttive.