Accountability condivisa e processi di ridefinizione e strutturazione partecipata di significati


Tra il sensibile incremento della richiesta di accountability condivisa nella pubblica Amministrazione  e i significativi mutamenti economici, sociali e culturali caratterizzanti il nostro Paese, esiste un filo doppio che non si potrà spezzare.

Il termine accountability, di provenienza anglosassone, ha un significato di difficile definizione a causa delle sue molteplici declinazioni.  Ne deriva la difficoltà nella traduzione. Certamente, esso è prioritariamente espressione della responsabilità dei risultati conseguiti in riferimento agli obiettivi prefissati da un’organizzazione nei confronti degli stakeholders (portatori di interessi).

E certo è che l’accountability è espressione del principio di sussidiarietà orizzontale e implica lo sviluppo di una leadership in grado di attivare processi di ridefinizione e strutturazione condivisa e partecipata di significati, i quali guidano i membri della comunità verso scopi comuni (sfida educativa e di ricostruzione di tessuto sociale).

Partendo dall’assioma “Amministrazione pubblica – Servizio”, che costituisce la cifra del processo di cambiamento sistemico della Pubblica Amministrazione, si rende ineludibile l’accertamento dell’effettiva creazione di valore pubblico.

Il nuovo Sistema nazionale di valutazione (SNV), disegnato dal d.P.R. n. 80/2013, impone a tutte le scuole l’introduzione e la gestione di processi formali di valutazione fondati, in primis, sui principi di lealtà e trasparenza e anche di efficacia: attraverso di essi è data la possibilità di rilevare punti di forza e debolezza e dunque di attivare interventi di miglioramento.

Tra i processi formali di valutazione previsti dal d.P.R. n. 80/2013 vi è la rendicontazione sociale, la quale, connaturata al processo di autonomia, in una visione strategica del servizio scolastico, presuppone il concetto di responsabilità e rimanda a valori etici fondanti dell’attività istituzionale. La responsabilità sociale delle istituzioni scolastiche inizia col farsi carico del successo formativo degli alunni.

La rendicontazione sociale è uno strumento di dialogo coerente col principio di trasparenza, ma anche di supporto alla consapevolezza, la cui categoria di riferimento è la condivisione sia interna, sia esterna all’istituzione scolastica. Insieme con il Piano triennale dell’offerta formativa, al Rapporto di autovalutazione e al Piano di miglioramento, essa è ordinata alla gestione capace di una scuola, intesa come spazio aperto, di interazione positiva e di comunicazione sociale.

L’accountability e la rendicontazione hanno, dunque, in comune la responsabilizzazione, la quale però non esaurisce pienamente il significato della prima e della seconda.

Un’analisi compiuta da soggetti qualificati ha consentito di giungere ad una conclusione che accomuna le esperienze di ben 97 Paesi: le nuove forme di accountability contribuiscono a migliorare l’efficacia e l’efficienza delle amministrazioni pubbliche. (…) Il punto fondamentale del concetto di accountability è in realtà posto sulla dimostrazione di come viene esercitata la responsabilità e sulla sua verificabilità.” (cfr. “Principio di Accountability nel Gdpr, significato e applicazione|Agenda Digitale”).

Vi è, dunque, alla base dell’accountability un atteggiamento proattivo nel dimostrare l’efficacia del proprio peculiare apporto nella creazione di valore pubblico.

Tutto ciò scaturisce da un significativo processo di cambiamento innescato dalle riforme dell’Amministrazione pubblica degli anni ’90, le quali scaturiscono da una situazione di crisi e perseguono chiaramente obiettivi di livello macroeconomico. Il d.lgs. n. 29/1993 – che reca la “prima privatizzazione” del lavoro pubblico – affida alla fonte contrattuale regolazioni prima decise per via unilaterale, donde il passaggio dal modello autoritativo al modello pattizio. Le norme cardine della privatizzazione del 1993 concepiscono la privatizzazione come applicazione al lavoro pubblico della strumentazione privatistica, funzionale alla salvaguardia del principio costituzionale del buon andamento (ex art. 97 Cost.).

Con la l. n. 59/1997 (seconda delega per la riforma del lavoro pubblico) e con i decreti attuativi della “seconda privatizzazione” si perviene a una semplificazione dei procedimenti amministrativi. Si ha una profonda riforma dell’organizzazione centrale dello Stato e degli enti pubblici, connotata da una più ampia autonomia scolastica, dal decentramento di funzioni a regioni ed enti locali, dalla modifica del sistema dei controlli). Questi interventi normativi (si ricordino anche i decreti legislativi n. 396/1997 e n. 387/1998 confluiscono nel testo unico di cui al d.lgs. n. 165/2001, che identifica il Dirigente scolastico quale datore di lavoro. Funzione amministrativa e dimensione educativa si intrecciano e si embricano strettamente. Ne discende l’immagine di un’amministrazione di missione e di risultato, precipuamente attenta alla qualità del servizio.

La qualità del servizio richiede capacità decisionale e si realizza mediante la chiara definizione e la trasparenza dei risultati attesi. Sono proprio queste ultime a garantire l’accountability e a generare le aspettative dei portatori di interesse, i quali valuteranno la responsabilità dei comportamenti e degli specifici percorsi per il raggiungimento dei risultati.

La complessità che oggi investe l’umanità conferisce carattere di necessità all’integrazione di conoscenze, competenze, risorse e prospettive diverse, al fine di identificare e risolvere problemi.

«Nessun soggetto individualmente, nessuna organizzazione da sola e nemmeno un singolo segmento della società globale è in grado, agendo da sé, di identificare ed implementare le soluzioni alle grandi sfide che l’umanità oggi si trova a fronteggiare. (…) tutti viviamo in questo mondo e le conseguenze di molte delle nostre azioni non sono circoscritte alla nostra sfera privata. Esse hanno effetti diretti o indiretti anche sugli altri. Questo spiega perché ci sia bisogno di riconoscere che coloro che subiscono l’effetto delle attività di un’organizzazione hanno il diritto di essere ascoltati.» (cfr. “Dalle parole ai fatti – Il Manuale dello Stakeholder Engagement, volume 2. Il Manuale per il professionista dello Stakeholder Engagement”, AccountAbility, United Nations Environment Programme, Stakeholder Research Associates Canada Inc.).

Posto che a un diritto dovrebbe corrispondere sempre un dovere, posto che le parole creano significati che modificano la realtà e volendo pensare giuridicamente al senso della partecipazione attiva degli stakeholders, essere coinvolti e partecipare per far valere le proprie posizioni all’interno dei processi decisionali di un’organizzazione, è per gli stakeholders un diritto o un dovere?

Ha gentilmente risposto alla domanda il Professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università del Salento, avv. Pier Luigi Portaluri: «Il tema della partecipazione è spesso un problema inautentico. O i detentori di interessi dispongono anche di adeguate forme di pressione (difficili da giuridicizzare) e quindi riescono comunque a orientare la decisione pubblica nel senso a loro favorevole; oppure non dispongono di questi strumenti e allora la partecipazione diventa come la partecipazione nuziale: sei ammesso al rito, ma non devi disturbare. Sei lì, fra i banchi, e quando l’officiante dice “vi dichiaro marito e moglie” batti le mani e te ne vai contento. Il matrimonio è stato già concluso senza minimamente ascoltare il tuo punto di vista. La forza di dire “Questo matrimonio non s’ha da fare” è data solo al Don Rodrigo di turno: che non sempre è il miglior tutore dell’interesse pubblico. I meccanismi di partecipazione devono essere completamente ripensati. È un po’ la stessa differenza che esiste, secondo i linguisti, fra lingua e dialetto. Il dialetto, a differenza della lingua, non ha né un esercito, né una marina. Quando ha la forza per imporsi, il dialetto si nobilita a lingua. Federico Spantigati sosteneva maliziosamente che per i giuristi ingenui la decisione discrezionale è la comparazione oggettiva degli interessi trasparenti; per i giuristi realisti, invece, è il bilanciamento soggettivo delle pressioni inconfessabili».

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