Aspetti critici da risolvere in quarant’anni di integrazione scolastica
Degli otto decreti attuativi della Legge “La Buona Scuola”, il D. Lgs. 66/2017, recante “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità” (articolo 1, commi 180 e 181, lettera c, legge 13 luglio 2015, n. 107), è senza dubbio uno dei più controversi. Lo stesso iter di approvazione del provvedimento, dallo “schema” legislativo fino alla stesura definitiva, è stato oggetto di dibattiti anche accesi.
In effetti, se da una parte erano molte le aspettative che hanno portato alla stesura del D. Lgs. 17 aprile 2017, n. 66, dall’altra questo provvedimento è stato letto da alcuni come foriero di una involuzione del processo inclusivo che ha avuto avvio in Italia sin dai primi anni ’70, grazie ad una legislazione all’avanguardia in Europa (basti pensare alla Legge 517/1977 e alla Legge Quadro 104/1992). Non va infatti dimenticato che da almeno quarant’anni la scelta dell’integrazione è stata fatta propria dall’opinione pubblica italiana e la scuola è certamente in prima linea in questa consapevolezza culturale.
Il testo del decreto definitivamente approvato recepisce solo parzialmente i rilievi che sono stati fatti e, nel suo complesso, si rivela di problematica applicazione. L’intervento riformatore varato dalla Legge “La Buona Scuola” risponde, ad ogni modo, al bisogno di ridare nuova linfa a un processo in crisi e all’esigenza di risolvere alcune criticità, inefficienze e “cattive prassi” che hanno caratterizzato nel tempo l’esperienza di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, come la scarsa formazione dei docenti curricolari – e talvolta anche di quelli specializzati per il sostegno – , la loro deresponsabilizzazione e la tendenza a delegare al solo docente di sostegno, vissuto come insegnante “speciale”, la gestione dell’intervento didattico nei confronti degli alunni con disabilità, il più delle volte scarsamente integrati nel contesto del gruppo-classe; per non parlare della prassi dei cd. trattenimenti “maturativi” o delle “bocciature strumentali”.
Tra gli ulteriori aspetti critici, che coinvolgono tutte le fasi del modello di integrazione definito dalla L. 104/1992, vanno annoverati:
- l’approccio, ancora prevalentemente medico e clinico, al fenomeno della disabilità intesa come uno stato di invalidità che necessita di una certificazione per essere meritevole di tutela e riconoscimento da parte delle istituzioni a ciò preposte (in primis la scuola, ma anche l’ASL e l’ente locale di riferimento, ossia il Comune);
- la tendenza a tener distinti e separati il ruolo del soggetto certificatore (in precedenza l’ASL, ora l’INPS) e quello dell’ente (Amministrazione scolastica) responsabile dell’assegnazione delle risorse professionali al sostegno;
- l’eccessiva mobilità degli insegnanti di sostegno, il cui incarico, di anno in anno, dipende dal numero degli studenti con disabilità iscritti a scuola (ed è inoltre connesso alla tipologia di deficit e alla sua gravità);
- la scarsità delle risorse specializzate, dovuta soprattutto all’inadeguatezza della preparazione professionale degli insegnanti curricolari, per lo più totalmente digiuni della formazione di base nella didattica speciale;
- lo scarso coinvolgimento delle famiglie, per la strutturale carenza di informazioni circa le reti di servizi e le risorse disponibili per il sostegno;
- le limitate e insufficienti iniziative di orientamento professionale sino ad ora rivolte agli alunni con disabilità.
Le risposte del nuovo decreto per rilanciare l’inclusione: un passo in avanti o una battuta d’arresto?
Il decreto attuativo della delega potrà cambiare questo complesso stato di fatto? E’ ancora presto per dirlo, tenuto anche conto del fatto che è stata prevista dal Legislatore una gradualità degli interventi, per consentire l’adozione dei necessari provvedimenti attuativi e per assicurare idonee misure di accompagnamento.
L’assetto complessivo (con particolare riferimento alle innovazioni introdotte in materia di certificazione e quantificazione delle risorse per il sostegno didattico), entrerà infatti a regime dal 1° gennaio 2019. Senza dubbio, però, sin da una prima lettura dell’articolato è possibile comprendere che il decreto 66/2017, nel presentarsi come un piccolo testo unico che ambisce a regolamentare le politiche dell’integrazione, cerca di dare una soluzione organica ed esaustiva ai numerosi motivi di insoddisfazione per la scarsa qualità delle pratiche inclusive emersi negli ultimi anni.
L’obiettivo principale dell’intervento riformatore avviato con la “Buona Scuola”, nelle intenzioni del MIUR, è infatti quello di rilanciare l’inclusione scolastica e di rafforzare il concetto di “scuola inclusiva”, come emerge nell’enunciazione dei principi e delle finalità del provvedimento enucleati nell’art. 1. Ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. a), “l’inclusione scolastica… si realizza attraverso strategie educative e didattiche finalizzate allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno nel rispetto del diritto all’autodeterminazione e all’accomodamento ragionevole, nella prospettiva della migliore qualità di vita”.
Tale obiettivo va perseguito attraverso il rinnovamento delle politiche per l’inclusione scolastica e la promozione di una più incisiva partecipazione delle famiglie e delle associazioni di riferimento, quali interlocutori principali dei processi di inclusione nel contesto scolastico e sociale (art. 1, co.2).
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione (art. 2), va però osservato che l’intervento del provvedimento è circoscritto alle sole disabilità certificate: esso infatti si applica esclusivamente agli allievi di tutti gli ordini e gradi scolastici (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di 2° grado) con disabilità certificata ai sensi dell’art. 3 della L. 104/1992, al fine di promuovere e garantire loro il diritto all’educazione, all’istruzione e alla formazione.
Il decreto legislativo 66/2017 risponde quindi a una precisa scelta di politica “inclusiva”, volta ad escludere – mi si passi il gioco di parole ma tale scelta, di per sé, potrebbe sembrare paradossale, trattandosi di un provvedimento finalizzato al rilancio dell’inclusione scolastica – dall’ambito di applicazione della riforma le ulteriori categorie degli alunni certificati con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) o con BES (bisogni educativi speciali): vale a dire tutta quell’ampia casistica di alunni che, a causa di deficit, carenze o disturbi di diversa natura, hanno difficoltà a seguire il percorso curricolare di classe senza aiuti supplementari e rischiano di rimanere ai margini dei processi di apprendimento e di partecipazione.
Sarebbe quindi stato auspicabile che la riforma della “Buona Scuola” proponesse una normativa più complessa e articolata, che tenesse conto anche di questi soggetti deboli che, in passato, hanno ottenuto visibilità e tutela giuridica in seguito all’emanazione della legge 8 ottobre 2010, n. 170 e alla pubblicazione delle Linee Guida del 27 dicembre 2012 (direttiva sui BES).
Il provvedimento invece, ponendosi entro i ristretti confini imposti dalla legge delega 107/2015, sembra concentrarsi su alcune garanzie ormai consolidate nella logica del “sostegno” agli studenti disabili in senso tradizionale, mettendo a sistema tutti i principali interventi a sostegno dell’inclusione scolastica, come i servizi di assistenza e l’utilizzazione delle risorse professionali, finanziarie e strumentali disponibili, la certificazione funzionale e la previsione di figure professionali specializzate, di cui si cerca di salvaguardare una continuità di presenza e di intervento.
Nel complesso, dunque, il decreto legislativo 66/2017 parrebbe segnare una battuta d’arresto rispetto alla normativa in materia di DSA e BES e, al tempo stesso, sviluppare e regolamentare aspetti già previsti dalla Legge quadro (L. 104/1992), pur valorizzando la cultura inclusiva relativa ai disabili così come si è andata evolvendo nel tempo (quanto meno a partire dagli anni Novanta) alla luce della normativa sull’autonomia e sul decentramento e armonizzando le politiche per l’inclusione messe in campo da tutti gli attori istituzionali coinvolti.
L’obiettivo complessivo del nuovo decreto è infatti il tentativo di migliorare la qualità dell’integrazione scolastica, attraverso il coordinamento delle numerose norme che si sono succedute – a volte disordinatamente – nel corso degli anni. In effetti, più che puntare sugli elementi di novità, che comunque sono significativi (come l’introduzione dell’ICF e i nuovi percorsi di formazione dei docenti specializzati), prevale l’idea che, con il provvedimento in questione, il Legislatore voglia dare una sistemazione organica a elementi spesso frammentari e scarsamente coordinati tra loro.
I punti di forza e le principali novità introdotte dal decreto.
Senza avere la pretesa di esaminare in modo analitico il provvedimento (non essendo questa la sede più opportuna, per esigenze di brevità), vale però la pena, a questo punto, mettere sinteticamente in luce alcuni contenuti innovativi dell’articolato, per coglierne tutte le possibili opportunità e i futuri sviluppi applicativi.
- Stato, Scuola, Regioni, Enti locali: a chi spetterà cosa?
Il primo aspetto innovativo è dato proprio dalla puntuale definizione dei compiti spettanti a ciascun attore istituzionale (Stato, Regioni, Istituzioni Scolastiche ed Enti locali). A norma dell’art. 3 del D. Lgs. 66/2017 (Prestazioni e competenze), le prestazioni e i servizi necessari per garantire l’inclusione scolastica sono assicurati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti Locali e le competenze in materia di inclusione degli alunni disabili vengono ripartite nel seguente modo.
Lo Stato provvede, per il tramite dell’Amministrazione Scolastica:
- all’assegnazione nella scuola statale dei docenti per il sostegno didattico;
- all’assegnazione dei collaboratori scolastici nella scuola statale, anche per lo svolgimento dei compiti di assistenza previsti dal profilo professionale;
- alla definizione dell’organico del personale ATA, tenendo conto, tra i criteri per il riparto delle risorse professionali, della presenza di alunni e di studenti con disabilità certificata presso ciascuna istituzione scolastica statale;
- all’assegnazione alle istituzioni scolastiche di un contributo economico, parametrato al numero degli alunni e studenti disabili rispetto al numero complessivo degli alunni frequentanti;
- alla costituzione delle sezioni per la scuola dell’infanzia e delle classi prime per ciascun grado di istruzione, in modo da consentire, di norma, la presenza di non più di 22 allievi ove siano presenti studenti con disabilità certificata, fermo restando il numero minimo di alunni o studenti per classe, ai sensi della normativa vigente.
Gli Enti Locali, nei limiti delle risorse disponibili, assicurano:
- l’assegnazione del personale dedicato all’assistenza educativa e all’assistenza per l’autonomia e per la comunicazione personale, in coerenza con le mansioni dei collaboratori scolastici;
- i servizi per il trasporto per l’inclusione scolastica;
- l’accessibilità e la fruibilità degli spazi fisici delle istituzioni scolastiche statali previsti dall’articolo 8, comma 1, lettera c), della legge 104/1992 e dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23/1996.
Lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali garantiscono l’accessibilità e la fruibilità dei sussidi didattici, degli strumenti tecnologici e digitali necessari a supporto dell’inclusione scolastica agli alunni e agli studenti con disabilità.
- Il ruolo determinante dell’INVALSI nell’individuare gli indicatori per la valutazione della qualità del delicato processo relativo all’inclusione scolastica.
Un altro aspetto significativo, che senza dubbio rappresenta una delle principali novità della riforma, è rappresentato dall’introduzione nel processo di valutazione delle istituzioni scolastiche di quello che viene definito il “livello di inclusività” – vale a dire la misurazione della qualità dell’inclusione scolastica – raggiunto da ciascuna istituzione scolastica.
Grazie alla riforma, quindi, la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica diventa parte incisiva del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche. Ogni scuola deve infatti predisporre, nell’ambito del PTOF, un Piano specifico per l’Inclusione (PI), per il quale vengono definiti dalla legge contenuti e modalità attuative (art. 8) e che rappresenta il principale documento programmatico e operativo in materia di inclusione.
Il Piano per l’Inclusione è quindi parte integrante del Piano Triennale dell’Offerta Formativa e definisce l’utilizzo integrato delle risorse (strumentali, professionali, progettuali) per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni disabili: aspetto, questo, che entra così a pieno titolo nei processi di valutazione delle scuole. L’art. 4 del provvedimento, avente ad oggetto la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, stabilisce infatti che la valutazione del “livello di inclusività” è parte integrante del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche previsto dall’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80 (“Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione”).
Ogni scuola è quindi tenuta ad inserire nel proprio rapporto di autovalutazione (RAV) una serie di descrittori rispetto ai quali esprimere un posizionamento autovalutativo, nonché ipotesi di miglioramento, in riferimento “livello di inclusività” raggiunto.
Nella valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, come stabilisce l’art. 4, co. 2, un ruolo determinante spetta all’INVALSI che, in fase di predisposizione dei protocolli di valutazione e dei quadri di riferimento dei rapporti di autovalutazione, ha l’importante compito di definire gli specifici indicatori di inclusività sui principali aspetti dell’integrazione, di carattere organizzativo, didattico e professionale, sulla base dei seguenti criteri:
- livello di inclusività del Piano Triennale dell’Offerta Formativa come concretizzato nel Piano per l’inclusione scolastica;
- realizzazione di percorsi per la personalizzazione, individualizzazione e differenziazione dei processi di educazione, istruzione e formazione, definiti ed attivati dalla scuola, in funzione delle caratteristiche specifiche delle bambine e dei bambini, delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti;
- livello di coinvolgimento dei diversi soggetti nell’elaborazione del Piano per l’inclusione e nell’attuazione dei processi di inclusione;
- realizzazione di iniziative finalizzate alla valorizzazione delle competenze professionali del personale della scuola, incluse le specifiche attività formative;
- utilizzo di strumenti e criteri condivisi per la valutazione dei risultati di apprendimento delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, anche attraverso il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione;
- grado di accessibilità e di fruibilità delle risorse, attrezzature, strutture e spazi, in particolare, dei libri di testo adottati e dei programmi gestionali utilizzati dalla scuola.
Di questi criteri le istituzioni scolastiche dovranno tener conto nell’ambito dei processi di autovalutazione e di valutazione di sistema (SNV). Gli indicatori utilizzati per la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica vengono definiti dall’INVALSI in collaborazione con l’Osservatorio Permanente per l’Inclusione Scolastica, istituito presso il MIUR (art. 15), con compiti di analisi, monitoraggio, proposte di sperimentazione, pareri. Presieduto dal Ministro o da un suo delegato, questo nuovo organismo è composto da rappresentanti delle Associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative sul territorio nazionale nel campo dell’inclusione scolastica, da studenti e da altri soggetti pubblici e privati, comprese le istituzioni scolastiche, nominati dal MIUR.
In merito alla misurazione della qualità dell’integrazione scolastica e alla valutazione del “livello di inclusività”, è però necessario sviluppare alcune ulteriori considerazioni. Appare infatti particolarmente degna di nota l’attenzione alle scelte della scuola in materia di inclusione degli alunni con disabilità e alla centralità del progetto inclusivo delle singole istituzioni scolastiche che, grazie alla riforma della “Buona Scuola”, diventa parte integrante nella valutazione di sistema.
Se, come si è già detto, l’obiettivo complessivo del nuovo decreto è il tentativo di migliorare la qualità dell’integrazione scolastica, la chiave di volta dell’impalcatura della “scuola inclusiva”, o meglio la “cartina di tornasole” del raggiungimento di un buon livello di inclusività è senza dubbio rappresentata dal rafforzamento dei sistemi di monitoraggio e valutazione dell’integrazione.
Occorre però considerare che la qualità dell’inclusione è, di per sé, un fenomeno di difficile misurazione quantitativa e che quindi un sistema di indicatori oggettivi che si affidi a benchmark quantitativi, a procedure valutative eccessivamente performative o a graduatorie tra istituzioni scolastiche in senso meramente comparativo, difficilmente potrà rappresentare uno strumento efficace per la misurazione e la valutazione di un sistema inclusivo che, all’opposto, implica la mobilitazione dal basso di risorse professionali e organizzative interne ed esterne, in un clima collaborativo e in un contesto di condivisione di valori basato soprattutto sul senso di appartenenza a una comunità educante ed inclusiva, sull’accoglienza, sulla promozione delle relazioni umane, sull’aiuto reciproco e sul sentimento di solidarietà.
Solo se si sarà in grado di coltivare e sviluppare un contesto del genere, la scuola potrà dirsi veramente “inclusiva”, ossia efficace per tutti e mirante al successo formativo degli allievi, nessuno escluso.
- Il nuovo iter dell’inclusione scolastica e la nuova documentazione: il Profilo di Funzionamento.
Importanti novità riguardano anche il percorso dell’inclusione e i documenti di riferimento. Il D. Lgs. 66/2017 infatti incrementa ulteriormente la qualificazione professionale specifica delle commissioni mediche preposte alla certificazione della disabilità, introduce una nuova e più articolata procedura per il sostegno didattico, in vista della redazione del Profilo di Funzionamento (PdF), e definisce una nuova dimensione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), che a sua volta diverrà parte integrante del Progetto Individuale (di competenza del Comune), aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione.
Si ricordi che alcune tra le maggiori novità del decreto – quelle che riguardano, nello specifico, la costituzione delle commissioni mediche per il riconoscimento della disabilità in età evolutiva e l’adozione del Profilo di Funzionamento, e che si intende in questa sede prendere conclusivamente in considerazione – entreranno in vigore dal 1° gennaio 2019.
Con alcune modifiche all’art. 4 della legge n.104 del 1992 (procedure per la certificazione dell’handicap), l’art. 5 del D. Lgs. 66/2017 disciplina un nuovo assetto delle commissioni mediche per il riconoscimento della disabilità in età evolutiva, istituite presso l’INPS, prevedendo che, nei casi di persone in età evolutiva, le stesse siano composte da: un medico specialista in medicina legale, con funzioni di presidente; due medici specialisti (in pediatria, in neuropsichiatria infantile o nella specializzazione inerente la condizione di salute del soggetto); un assistente specialistico o operatore sociale, individuati dall’ente locale; un medico dell’INPS. La commissione medica decide sul diritto al sostegno didattico, sulla base di una richiesta che la famiglia rivolge all’INPS attraverso il proprio medico di base o pediatra. L’INPS è tenuto a dare riscontro entro e non oltre 30 giorni.
Per quanto riguarda il nuovo iter procedurale previsto del decreto, la procedura di certificazione e documentazione per l’inclusione prevede quindi le seguenti tappe:
- Innanzi tutto, i genitori (o chi ne esercita la responsabilità) fanno domanda di accertamento della disabilità in età evolutiva all’INPS.
- La Commissione Medica rilascia la certificazione di disabilità.
- I genitori trasmettono la certificazione di disabilità:
- all’Unità (o équipe) di valutazione multidisciplinare, ai fini della predisposizione del PROFILO DI FUNZIONAMENTO (art. 5, c. 5), ai fini della formulazione del Progetto Individuale e del PEI (Piano Educativo Individualizzato);
- all’ente locale competente (Comune) ai fini della predisposizione del PROGETTO INDIVIDUALE (il quale, per essere attivato, necessita di una formale richiesta da parte dei genitori del disabile);
- all’Istituzione Scolastica, ai fini della predisposizione del PEI.
L’unità di valutazione multidisciplinare è a sua volta composta da: un medico specialista o un esperto della condizione di salute della persona; uno specialista in neuropsichiatria infantile; un terapista della riabilitazione; un assistente sociale o un rappresentante dell’Ente locale di competenza che ha in carico il soggetto.
Se la procedura, di per sé, non è stata innovata ma confermata dal decreto 66/2017 (pur con la modificazione della composizione dell’equipe multidisciplinare), un cambiamento radicale si ha invece in materia di Diagnosi Funzionale.
Il Profilo di Funzionamento (PdF), che deve essere redatto successivamente all’individuazione e alla certificazione della condizione di disabilità ad opera della Commissione medica dell’INPS, a far data dal 1 gennaio 2019 (art. 19, c. 1 e 2), sostituirà e accorperà in un unico documento la Diagnosi funzionale e il Profilo dinamico funzionale (art. 5, c. 2 sgg., del D. Lgs. 66/2017, che modifica il comma 5 dell’art. 12 della legge n. 104/1992): supporti documentali, questi ultimi, che attualmente definiscono la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica di cui lo studente ha bisogno per una piena integrazione e che rappresentano documenti essenziali per l’elaborazione del PEI e del Progetto individuale.
Va ricordato che la Diagnosi Funzionale è una certificazione di esclusiva competenza clinica: costituisce infatti una descrizione del funzionamento dell’alunno con disabilità nei diversi settori di sviluppo, con indicazioni rispetto alle potenzialità e ai deficit, all’evoluzione attesa, all’eventuale esigenza di attribuire un educatore ad personam (per le autonomie, la comunicazione, le relazioni sociali…).
Il Profilo Dinamico Funzionale è invece un documento la cui redazione coinvolge diverse ed eterogenee competenze professionali, dato che è elaborato da servizi clinici e dai docenti del Team/Consiglio di classe, in sinergia con i genitori, e ha lo scopo di sintetizzare i dati raccolti – a partire dalla Diagnosi Funzionale, dalle osservazioni sistematiche dei docenti, dalle informazioni dei genitori – facendoli confluire in un “profilo” complessivo dell’alunno, da cui partire per elaborare la progettazione didattico-educativa (P.E.I.).
Il Profilo Dinamico Funzionare era disciplinato dalla Legge Quadro N.104/92 e dal DPR 24 febbraio 1994 (atto di indirizzo), che così recitava: “Il profilo dinamico funzionale indica le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell’alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona”.
Rispetto alla previgente documentazione, la previsione normativa relativa al nuovo Profilo di Funzionamento rappresenta una vera e propria “rivoluzione copernicana” in materia di inclusione degli studenti con disabilità, non tanto e non solo per l’organismo legittimato a redigerlo, quanto, se non soprattutto, per i criteri che ne informano la redazione e per il nuovo modello bio-psico-sociale che ne rappresenta il punto di riferimento fondamentale.
Il nuovo documento è redatto a cura dell’Unità di valutazione multidisciplinare (già prevista dall’art. 3, c. 2, dell’Atto di indirizzo, emanato con D.P.R. 24 febbraio 1994), a forte componente medico-sanitaria, con la collaborazione della famiglia dell’alunno disabile, e vede la partecipazione di un rappresentante dell’amministrazione scolastica, individuato preferibilmente tra i docenti della scuola frequentata.
Propedeutico per la predisposizione del Progetto Individuale e del PEI, tale documento definisce le competenze professionali e la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica ed è aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione, a partire dalla scuola dell’infanzia, nonché in presenza di nuove e sopravvenute condizioni di funzionamento della persona.
In estrema sintesi, il Profilo di Funzionamento contiene la descrizione funzionale dell’alunno in relazione alle difficoltà che dimostra di incontrare e l’analisi dello sviluppo potenziale a breve e medio termine, desunto dall’esame di una serie di criteri e parametri di funzionamento, così come definiti dal modello I.C.F. (International Classification of Functioning) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
A tale riguardo, l’aspetto senza dubbio più innovativo e significativo del progetto di inclusione introdotto dal D. Lgs. 66/2017 consiste proprio nella scelta di adottare come riferimento per la redazione del Profilo di Funzionamento dell’alunno disabile il modello bio-psico-sociale della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della salute (ICF), adottata dall’OMS. Tale classificazione, che fa riferimento agli standard internazionali dell’ICD (International Classification of Diseases), è stata introdotta dall’OMS sin dal 2001, ma in Italia è stata applicata in modo generalizzato solo a partire dal 2006.
In effetti, sia a livello clinico che sotto il profilo didattico, questo modello di classificazione del funzionamento della disabilità e della salute è tuttora poco conosciuto: esso si basa su un criterio di analisi che prende in considerazione un “continuum” di riferimento, senza soluzioni di continuità tra “normalità” e “patologia”, in relazione al quale ogni persona ha un suo “funzionamento” che dipende sia dalle sue condizioni personali (il suo stato di salute, la sua condizione di benessere, gli effetti della sua malattia) sia dai contesti di vita e di relazione (sociale, familiare, lavorativo) in cui si trova a vivere e a operare.
Ed è proprio la combinazione, che varia da soggetto a soggetto, tra le condizioni personali e il contesto ambientale ed esistenziale a determinare il cd. “profilo di funzionamento”. Dato che ogni persona ha un suo specifico e peculiare “funzionamento”, non è quindi più possibile – se mai lo è stato – determinare un confine netto e rigido tra la “normalità” e la “patologia”.
Tutte le condizioni biologiche e psicologiche che caratterizzano il “funzionamento” degli individui sono quindi ricomprese in uno spettro molto ampio e diversificato, in un “continuum” dove la condizione di ciascun soggetto trova una sua collocazione a seconda delle sue caratteristiche personali e di quelle del contesto in cui si trova a vivere. Il Profilo di Funzionamento rappresenta quindi una sorta di screening delle condizioni della persona (di qualsivoglia persona, non solo del soggetto disabile) e del suo modo di “funzionare”.
Considerando la disabilità come un fenomeno che non solo va analizzato sotto un profilo eziologico-medicale ma anche, se non soprattutto, inserito in un contesto biologico, esistenziale e sociale in cui entrano in gioco molteplici fattori inerenti le caratteristiche del soggetto, le sue capacità residue, il suo benessere, ma anche il suo ambiente di vita, le sue relazioni, le sue potenzialità di crescita, il profilo di funzionamento diventa dunque il nuovo documento “dinamico” da cui prende avvio non solo la progettazione dell’intervento educativo che sfocerà nell’elaborazione e condivisione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), ma anche un “progetto individuale” in cui far confluire i diversi momenti della vita di una persona disabile (i trattamenti terapeutici e riabilitativi, il tempo libero, l’inserimento lavorativo, la vita sociale, ecc.).
Sotto questo profilo, la riforma voluta della “Buona Scuola” rappresenta senza dubbio una sfida alla piena realizzazione di una scuola inclusiva: l’adozione del nuovo Profilo di Funzionamento non potrà infatti risolversi in un mero adempimento burocratico e amministrativo ma, per essere coerente con l’idea di piena inclusione e con il riconoscimento in positivo della diversità auspicati dalla L. 107/2015, dovrà tradursi in uno strumento operativo che concorra ad attuare un intervento educativo efficace, di tipo olistico e proattivo, in grado di incidere concretamente e positivamente sul livello di human functioning dell’alunno disabile, sostenendolo nel suo personale percorso di crescita esistenziale e di sviluppo cognitivo e favorendone in concreto la libertà di espressione nel contesto esistenziale e sociale in cui vive, a partire da un ambiente scolastico accogliente e inclusivo a tutti gli effetti.
Questo nuovo percorso richiederà, ovviamente, anche adeguati interventi di formazione e di preparazione delle diverse professionalità chiamate a elaborare il Profilo di Funzionamento e del personale scolastico (docenti curricolari e di sostegno) che lo dovrà rendere operativo trasfondendolo nel P.E.I. A tale proposito, in conclusione, sembrano particolarmente significative e illuminanti le seguenti osservazioni: «Non si può delegare la Diagnosi funzionale esclusivamente ai tecnici specialisti, con l’aspettativa illusoria che essi forniscano agli insegnanti un “distillato” prodigioso di conoscenze e di linee operative, miracolosamente capace di metterli in condizione di lavorare adeguatamente risolvendo ogni dubbio e difficoltà.
La conoscenza approfondita della situazione dell’alunno, l’esplorazione delle sue capacità, dei suoi deficit e delle varie cause che portano a questa situazione devono coinvolgere una gamma molto ampia di persone e professionalità che, naturalmente, si pongono da prospettive e con metodologie di valutazione diverse, necessariamente da integrare e completare a vicenda».
Laureata in Lettere Classiche e in Giurisprudenza, docente di ruolo dal 1992, ho insegnato inizialmente Italiano e Latino e poi Latino e Greco al Liceo Classico. Attualmente insegno Italiano e Storia presso l’ITT “G. Fauser” di Novara, città in cui risiedo. Ho conseguito due Dottorati di ricerca, il primo in Diritto Romano e Diritti Antichi, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, il secondo in Storia Antica presso l’Università di Torino. Ho esercitato la professione di avvocato fino al 2015. Nella scuola ho rivestito diversi incarichi di collaborazione, come Funzione Strumentale per le attività culturali e come membro del GLI e del gruppo di lavoro sull’Alternanza Scuola Lavoro.