La funzione ispettiva e il ruolo di collaborazione con gli uffici centrali, regionali e provinciali dell’Amministrazione scolastica

Prima del 1974 (dei cosiddetti decreti delegati) esistevano due distinte figure d’ispettore: l’ispettore scolastico e l’ispettore ministeriale. Il primo si occupava della scuola elementare e dirigeva un ufficio intermedio tra il provveditorato agli studi e le direzioni didattiche, per l’appunto denominato ispettorato, aveva compiti di vigilanza sulle scuole elementari ma anche di tipo amministrativo, per esempio nominava i supplenti. Il secondo si occupava dell’istruzione secondaria, svolgeva attività di consulenza per il ministero, comprese le ispezioni, e i ruoli erano assegnati per competenza disciplinare (materie letterarie, scientifiche, ecc.).

Con i decreti delegati l’ispettore scolastico e quello ministeriale confluirono nel nuovo ruolo degli ispettori tecnici. Furono definiti i compiti che possono ricondursi a tre grandi settori:

  • coordinamento dell’aggiornamento e della sperimentazione (promozione in materia di aggiornamento, sperimentazione, ecc.),
  • consulenza e assistenza tecnica alle scuole, agli organi centrali e periferici dell’amministrazione e
  • accertamento (realizzazione delle ispezioni disposte).

Sono questi i compiti tuttora previsti dal D. Lgs. 297/1994 che hanno sancito la duplice natura della funzione ispettiva tecnica: quella promozionale e quella di controllo.

L’accesso al ruolo ispettivo fu regolato per legge da un rigoroso concorso (tre prove scritte e una orale) al quale potevano accedere il personale direttivo della scuola o docenti con almeno 9 anni di servizio. Altri decreti cercarono di garantire un minimo assetto organizzativo nazionale con la creazione di organi collegiali ispettivi centrali e periferici i quali, però, non trovarono quasi mai una realizzazione pratica.

La funzione ispettiva si svolge in collaborazione con gli uffici centrali, regionali dell’amministrazione scolastica ed è diretta alla realizzazione delle finalità d’istruzione e di formazione affidate alle istituzioni scolastiche e educative. Essa è esercitata da ispettori tecnici che, più in particolare, svolgono i seguenti compiti:

  • elaborazione di progetti per attuare gli obiettivi indicati dal ministro in materia di politica scolastica;
  • consulenza in merito a programmi scolastici, sussidi didattici e tecnologie educative;
  • promozione delle attività di aggiornamento del personale direttivo e docente delle scuole di ogni ordine e grado;
  • assistenza tecnico-didattica, studio e ricerca, consulenza sui progetti di sperimentazione;
  • verifiche e ispezioni concernentispecifiche situazioni disposte dal ministro e dagli uffici dell’amministrazione scolastica.

Al termine di ogni anno scolastico, al corpo ispettivo dovrebbe essere richiesta dagli uffici scolastici regionali una relazione sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei relativi servizi, strumento utile all’amministrazione scolastica per pensare e per proporre nuovi indirizzi politici riguardanti l’offerta educativa territoriale delle scuole.

Quali sono i nodi problematici della funzione ispettiva?

I dirigenti con funzioni tecniche sono dirigenti tout court o no? Quali sono i loro compiti? Come conciliare la dirigenza con le funzioni tecniche e con i compiti previsti dal D. Lgs. 297/1994? La struttura organizzativa del Servizio ispettivo ha ancora una sua validità? Come conciliare l’indipendenza e l’autonomia professionale connesse alla funzione ispettiva con la dipendenza gerarchica dai direttori regionali?

Tali interrogativi cui l’amministrazione centrale ha dato risposte del tutto provvisorie, nonché contraddittorie, sollecitano un ripensamento della funzione ispettiva, ma non solo questo. Ci sono ragioni di ordine e di rilievo più generale. L’autonomia delle scuole va inserita in un sistema che sia in grado di assicurare l’esercizio effettivo e non distorto di essa e un servizio ispettivo indipendente è, come del resto raccomandato dall’OCSE, una delle condizioni di tale sistema, tanto più che le scuole rischiano di essere alla mercé di due contrapposte tendenze.

Da un lato, vi è il pericolo di un nuovo centralismo, già insito nella normativa vigente e che, se realizzato appieno, trasformerebbe gli uffici scolastici regionali in una sorta di super provveditorati con poteri più estesi e pervasivi. Dall’altro, c’è il rischio che un malinteso federalismo porti a pesanti ingerenze localistiche nella vita delle scuole e determini profonde spaccature e ineguaglianze tra aree geografiche del Paese e nel suo tessuto sociale e culturale.

Se si parte dal presupposto che la funzione ispettiva tecnica sia uno tra gli elementi essenziali di un equilibrato sistema di governo dell’istruzione, che s’ispiri ai principi di libertà didattica, democrazia, pluralismo, sussidiarietà e federalismo, allora la questione del rilancio di tale funzione diviene centrale.

La nuova Legge sui servizi educativi per 0-6 anni: D.L. 65/2017

Il paradosso del sentimento dell’infanzia che caratterizza la nostra società ormai è un dato di fatto. Nonostante oggi l’idea di un/a bambino/a da 0-6 anni bisognoso solo di assistenza e affetto sia stata culturalmente e socialmente superata da tempo, grazie anche alla Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989, in molti casi si fa ancora fatica a realizzare un’azione educativa che renda tale bambino/a attivo, partecipe, competente e dunque protagonista e attore/attrice dei propri cambiamenti.

Il D.L. N. 65 del 13 aprile 2017, Sistema integrato di educazione e di istruzione per le bambine e per i bambini in età compresa dalla nascita fino ai sei anni, partendo dalla consapevolezza che l’educazione e la cura della prima infanzia costituiscono la base essenziale per il buon esito dell’apprendimento permanente, dell’integrazione sociale, dello sviluppo personale di tutti i soggetti, ha finalmente recepito tale paradosso e reso operativa e reale una progettualità educativa e formativa nuova.

Tale decreto pertanto, rappresenta la parte più innovativa e qualificante della legge 107/2015, Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione, della cosiddetta Buona Scuola, in quanto per la prima volta tale fascia d’età ne entra a far parte.

Molti i suoi punti qualificanti, ma quelli più significativi sono presenti nell’art. 1 e nell’art. 13.

Dopo aver definito all’art. 1 comma 1 che i servizi educativi per l’infanzia devono essere articolati in

  1. a) nido e micronido; servizi integrativi; sezioni primavera
  2. b) scuole dell’infanzia statali e paritarie

tale decreto sottolinea che alle bambine e ai bambini, dalla nascita fino ai sei anni, per sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento, in un adeguato contesto affettivo, ludico e cognitivo, sono garantite pari opportunità di educazione e di istruzione, di cura, di relazione e di gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali.

Sottolinea cioè che la funzione educativa e sociale di tali istituzioni deve mirare da subito all’inclusione di tutti i soggetti.

Inclusione che all’art.1, comma 2, viene ben declinata attraverso le finalità che esso si pone e cioè:

  • promuovere la continuità del percorso educativo e scolastico, con particolare riferimento al primo ciclo di istruzione, favorendo lo sviluppo delle bambine e dei bambini in un processo unitario, in cui le diverse articolazioni del Sistema integrato di educazione e di istruzione collaborano attraverso attività di progettazione, di coordinamento e di formazione comuni;
  • concorrere a ridurre gli svantaggi culturali, sociali e relazionali e favorire l’inclusione di tutte le bambine e di tutti i bambini attraverso interventi personalizzati e un’adeguata organizzazione degli spazi e delle attività;
  • accogliere e rispettare le diversità;
  • sostenere la primaria funzione educativa delle famiglie, favorendone il coinvolgimento nell’ambito della comunità educativa e scolastica;
  • favorire la conciliazione tra i tempi e le tipologie di lavoro dei genitori e la cura delle bambine e dei bambini, con particolare attenzione alle famiglie monoparentali;
  • promuovere la qualità dell’offerta educativa avvalendosi di personale educativo e docente con qualificazione universitaria e attraverso la formazione continua in servizio, la dimensione collegiale del lavoro e il coordinamento pedagogico territoriale.

Per la prima volta, attraverso tale decreto, viene legittimato che sono proprio le primissime esperienze dei bambini quelle che gettano le basi per ogni forma di apprendimento ulteriore.

Viene deliberato non solo culturalmente ma anche giuridicamente che la formazione, per offrire a tutti la possibilità di partecipare attivamente al mondo sociale, culturale e professionale, deve partire dai primi giorni di vita del bambino e lavorare sia sulle componenti logico-razionali del suo sviluppo che su quelle emotive e affettive, attivando un processo che si svolge in una serie di apprendimenti, progetti e verifiche successive.

Per realizzare tutto ciò, l’altro aspetto qualificante di tale decreto è l’art. 14, comma 3, in cui viene precisato che a decorrere dall’anno scolastico 2019/2020 l’accesso ai posti di educatore di servizi educativi per l’infanzia è consentito esclusivamente a coloro che sono in possesso della laurea triennale in Scienze dell’educazione nella classe L.19 a indirizzo specifico per educatori dei servizi per l’infanzia.

Con chiara consapevolezza pedagogica, attraverso questo articolo viene deliberato che, la formazione di coloro che, in qualità di care giver e dunque di educatori, devono supportare lo sviluppo di tali soggetti, deve essere acquisita secondo un ben definito percorso universitario. Un corso di laurea che già da anni la pedagogia realizza convinta che solo operatori competenti possono rispondere agli autentici bisogni di sviluppo di tutti i soggetti a partire dai primi giorni di vita.

Questo decreto, oggi in forma già attuativa, anticipa e supporta in parte la proposta di legge Iori 2656 (oggi in senato 2443) che ha nel suo impianto il riconoscimento giuridico di tutti gli educatori sociopedagogici laureati nei corsi di laurea L-19 triennali e tra cui anche quella di educatore per l’infanzia. Un riconoscimento che oggi non può più essere disatteso.

BES e non… includiamo?!?!

Mi permetto di proporre alcune riflessioni in riferimento al dibattito in corso nel mondo della scuola e degli ambienti pedagogici sulla questione dei cosiddetti “bisogni educativi speciali” che ha trovato una sua esplicita formalizzazione nei documenti del Miur di dicembre 2012 e marzo 2013. Considero la questione estremamente delicata e complessa ma anche importante poiché è il riflesso di una concezione della scuola e di una visione della gestione delle differenze in termini di apprendimento, crescita individuale e collettiva. In sostanza ne va del modello di società che vogliamo costruire formando le future generazioni e quindi della nostra idea di democrazia. Faccio rapidamente alcune considerazioni e pongo alcuni quesiti sui quali invito il mondo della scuola ma anche dell’educazione in generale a riflettere seriamente.

I rischi della logica differenzialistica e delle stigmatizzazioni sofisticate.

Ricordo che nel 1977 con la legge sull’integrazione scolastica degli alunni disabili nella scuola di tutti si superava, almeno così si pensava allora, la logica differenzialistica delle classi differenziali , delle scuole speciali e delle sezioni ghetto. Si affermava il principio dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso all’istruzione e all’educazione predisponendo strumenti e risorse (vedi insegnante di sostegno) per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni tramite un’attività pedagogica accogliente, in grado di promuovere l’individualizzazione dei percorsi di apprendimento e l’attività di gruppo (produttrice di esperienze di socialità).

Tutto andava quindi nella direzione di lottare contro l’esclusione, la marginalizzazione e la stigmatizzazione/inferiorizzazione dell’alunno disabile. Negli anni si sono sviluppate esperienze didattiche e pedagogiche ricche di innovazione ma sono anche emersi molti limiti e tante criticità. Con una direttiva del 2010 il ministero pone la questione degli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia); si promuovono corsi di formazione per insegnanti (curriculari e di sostegno).

Comincia a porsi una domanda: se è giusto essere attenti al fenomeno dei DSA non v’è il rischio di una identificazione rapida tra difficoltà di apprendimento e disturbi specifici? Non v’è anche il rischio di accentuare lo sguardo clinico-diagnostico a scapito dello sguardo pedagogico che dovrebbe essere quello dell’insegnante? Abbiamo anche visto gli alunni con ADHD (sindrome da deficit di attenzione e iperattività); anche qui una nozione e categoria ambigua e molto discussa: cosa vuol dire? Chi sono?

Quale attenzione pedagogica da parte dell’insegnante (una volta lo psicopedagogista francese Henri Wallon parlava di “bambino turbolento”; si capisce che dire turbolento e dire iperattivo non è la stessa cosa, non è lo stesso sguardo; il primo colloca la questione nell’ambito educativo, il secondo in quello clinico-sintomatologico).

Adesso abbiamo i BES: chi sono? In parte si riprendono alcune categorie precedenti e si aggiungono:

  • gli alunni con difficoltà di apprendimento (quale alunno non presenta difficoltà di apprendimento?),
  • gli alunni con disagio psico-sociale (la povertà sociale è un problema?),
  • quelli con difficoltà linguistico culturali (l’essere figlio/a d’immigrati è un problema?),
  • gli alunni con un ‘funzionamento intellettivo limite’ (cosa vuol dire esattamente?).

Insomma un’ulteriore categoria insieme ambigua, generica e anche funzionale al paradigma clinico-diagnostico-terapeutico che sta colonizzando culturalmente la scuola e la società. Faccio notare che le categorie usate non sono per niente neutrali e che mentre la logica differenzialistica tende a produrre e riprodurre diseguaglianze (stigmatizzazioni sofisticate), il riconoscimento delle differenze passa tramite un’azione pedagogica basata sul principio di eguaglianza nell’accesso ai saperi e alle conoscenze. Insomma la logica differenzialistica delle categorizzazioni continue non ha nulla a che fare con il riconoscimento delle differenze.

Quale inclusione?

Anche sulla questione dell’inclusione occorre confrontarsi e chiarire meglio di cosa stiamo parlando. Per anni si è parlato di integrazione, in particolare in riferimento all’integrazione scolastica e sociale degli alunni con disabilità (distinguendo la disabilità-prodotta da un deficit sensoriale, motorio, intellettivo dall’handicap prodotto o conseguenza socio-culturale, ostacoli generati dalla società nell’interazione con il soggetto con disabilità); si diceva che fosse importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e formative in grado di rimuovere barriere e ostacoli. Di modificare tramite la mediazione dell’azione educativa pregiudizi e situazioni produttrici di esclusione, autoesclusione e stigmatizzazione/interiorizzazione.

Poi da alcuni anni si è cominciato a parlare d’inclusione, precisando che si voleva sottolineare che il cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco (soggetto e ambiente). Troviamo queste considerazioni già nei lavori dello psicopedagogista sovietico Lev Vygotskij che parla di mediazioni: quello che oggi vengono definite con le espressioni strumenti compensativi e dispensativi (uso di tecniche, ausili e di accompagnamento e supporti). Produrre esperienze di apprendimento mediato per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni, appunto in una prospettiva d’integrazione e/o d’inclusione. Ma sorge un dubbio: se il concetto d’inclusione è strettamente connesso agli indirizzi proposti sui cosiddetti Bes si muove nella direzione del differenzialismo, allora cosa vuol dire includere?

Un concetto chiave rimane quello di adattamento funzionale. Quindi si tratta di adattare, per il bene dell’alunno “Bes”, di “normalizzare”, di “curare”, di “riparare”. Ma a questo punto non si rischia di riprodurre le diseguaglianze che si dichiara di volere combattere? Non si rischia di fornire una giustificazione “scientifica” all’esistenza, purtroppo reale, delle sezioni ghetto nelle scuole, e, quindi, di riprodurre la logica delle classi differenziali? Nei documenti del ministero si parla della valutazione dell’inclusività delle scuole: ma chi si occuperà di questa valutazione? Quale formazione e competenze avranno i valutatori? Quali criteri di valutazione saranno utilizzati? Non vorrei che i criteri (diffusi nei sistemi di valutazione PISA) usati (successo scolastico, abbandono e dispersione scolastica, autofinanziamento, progettualità approvate e realizzate) finissero per penalizzare ulteriormente le scuole delle periferie, le scuole povere dei quartieri emarginati, le scuole collocate nelle zone ad alta presenza di immigrati…

Vorrebbe dire riprodurre e accentuare le diseguaglianze e essere in contraddizione con il detto costituzionale della Repubblica italiana. Sono quesiti posti sia sul piano della riflessione filosofica, pedagogica e sociologica da eminenti studiosi e pensatori come il tedesco Jurgen Habermas (l’inclusione dell’altro) e il francese Charles Gardou (la società inclusiva). Inoltre si pone anche la questione della relazione e del tipo di collaborazione tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno, ma anche quella del rapporto tra scuola, famiglie e territorio: è quello che, nei loro recenti lavori, dei colleghi belgi come J.P. Pourtois, H. Desmett e B. Humbeeck chiamano “processi co-educativi”: come si costruisce l’alleanza co-educativa tra i diversi attori della comunità? Come si può attivare e realizzare insieme dei processi di emancipazione che garantiscono la giustizia nei processi di apprendimento?

Didattica o didatticismo? La marginalizzazione della pedagogia

La gestione del gruppo classe e l’organizzazione degli apprendimenti sono due aspetti fondamentali dell’attività docente. La tendenza va sempre di più (lo si vede nella formazione stessa del personale docente) nella direzione delle procedure didattiche, della tecnologia didattica, dell’uso degli strumenti; si sostituisce la didattica come processo vivo (che implica la relazione complessa tra docente, alunni, metodi, strumenti, comunità scolastica) con il didatticismo inteso come procedura.

Interessante notare che la figura dell’alunno come soggetto significante del processo d’insegnamento/apprendimento è assente. Se è presente lo è solo come fonte di problemi. Il rischio è di vedere l’insegnante diventare un operatore della diagnosi e della procedura tecnica per valutare la performance dell’alunno in termini stretti d’istruzione (come se istruzione e educazione non fossero interconnesse in modo vivo nell’esperienza in classe). La pedagogia (quindi la formazione pedagogica dell’insegnante che dovrebbe andare a caccia di risorse, capacità, potenzialità e non di “comportamenti problema”) viene marginalizzata nella cultura scolastica e colonizzata dallo sguardo di una certa psicologia clinica. Non a caso i documenti ministeriali non fanno praticamente mai riferimento alla lunga e ricca esperienza delle pedagogie attive e dell’educazione nuova; ancora meno di quelle prodotte dalla pedagogia speciale.

Quale modello organizzativo, quale politica? Logica burocratica o democratica?

Si parla di docenti esperti e preparati sui “BES”, si parla di Centri territoriali per l’inclusione: ma cosa vuol dire in modo preciso? Chi saranno questi docenti esperti dei BES? Quale formazione avranno? Quali compiti e competenze? Che fine faranno gli insegnanti specializzati o di sostegno? Vediamo in tutto questo una risposta tecnocratica-burocratica ad una questione di ordine culturale, pedagogica e sociale; di nuovo vediamo una scuola e un corpo docente deprivato del proprio protagonismo, della possibilità di partecipare all’analisi e anche all’elaborazione di proposte concrete per favorire l’effettiva eguaglianza delle opportunità per tutti gli alunni nell’accesso all’istruzione e all’educazione.

V’è bisogno del contributo degli insegnanti che ogni giorno attivano delle esperienze pedagogiche e didattiche nelle loro classi, che ogni giorno affrontano la complessità e le difficoltà del mestiere dell’insegnante in una società sempre più atomizzata e individualistica. Gli alunni portano a scuola le contraddizioni che vivono nelle loro famiglie e che nascono da una società che fa di ognuno un consumatore-spettatore e non un soggetto responsabile consapevole del legame tra individualità e comunità, tra diritti e doveri, tra desideri personali e bene comune. Gli insegnanti vanno coinvolti non come destinatari di indagini predisposte da pool di esperti, non come meri esecutori di direttive ministeriali o di tecniche specializzate ma come attori/autori in grado di produrre senso e di fornire, tramite la loro pratica, proposte e indicazioni per un rinnovamento della nostra scuola repubblicana.

Mi fermo qui. Sono solo alcuni spunti di riflessione; sono convinto che occorre rimettere al centro l’azione pedagogica e promuovere un autentico confronto dando voce agli operatori della scuola, agli insegnanti, agli educatori, ma anche agli alunni e ai genitori che spesso si trovano a dovere fare delle scelte senza capire di cosa si sta parlando. Ne va del futuro dei nostri figli, della scuola della Repubblica e anche del futuro della democrazia in questo paese.

Valutare i BES… le novità che non ci sono

“… non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”
(Don Milani “Lettera ad una professoressa”)

L’argomento della valutazione degli alunni con disabilità, DSA e altri BES  è uno dei più caldi nelle nostre scuole, spesso occasione di contenzioso con le famiglie.

La recente direttiva sugli alunni con bisogni educativi speciali estende in modo rilevante il diritto alla personalizzazione all’apprendimento, finora tutelato solo per gli alunni con disabilità e per gli alunni con difficoltà specifiche di apprendimento (DSA). Tale estensione apre un insieme di interrogativi in merito alle azioni diagnostiche, progettuali, didattiche e valutative che la scuola è chiamata a mettere in campo, oltretutto in una dimensione collegiale che assume come soggetto chiave il consiglio di classe o i team docenti; più in generale la questione principale riguarda proprio la presa in carico da parte della scuola di bisogni educativi individuali e differenziati, a fronte di un approccio tradizionalmente uniforme e standardizzato.

Per quanto riguarda specificamente il momento valutativo si registra un superamento del quadro delineato nel Regolamento del 2009, proprio in ragione dell’estensione del principio di personalizzazione ad un insieme di tipologie molto ampio (i disturbi evolutivi specifici e, ancor più lo svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale.

Anche per la gestione del momento valutativo il passaggio chiave risulta il  Piano Didattico Personalizzato (PDP), nel quale dovrebbe trovare spazio anche l’esplicitazione dei criteri e delle modalità di valutazione, oltre che la definizione di obiettivi formativi calibrati sui bisogni degli allievi. Ciò significa non solo richiamare eventuali misure dispensative o compensative, ma anche precisare ambiti disciplinari o educativi nei quali le modalità valutative saranno diversificate, definire criteri di valutazione personalizzati, prevedere prove e strumenti di rilevazione differenziati.

Rimangono aperti molti interrogativi in merito agli Esami di Stato e alle prove nazionali di rilevazione degli apprendimenti, in quanto richiamano in modo più diretto la funzione certificativa della valutazione; interrogativi che dovranno trovare risposte sul piano normativo e del sistema nazionale di valutazione. Il segnale forte e inequivocabile rimane quello lanciato nei confronti della valutazione quotidianamente svolta in classe dai docenti, che dovrebbe assolvere ad una funzione eminentemente formativa: un segnale che richiede un radicale ripensamento delle modalità valutative, riguardante non solo gli alunni BES ma la totalità degli alunni.

Sono parecchi i punti della normativa esistente sulla valutazione degli alunni con esigenze particolari che vengono spesso equivocati e che andavano pertanto definiti meglio, ma di cui il nuovo decreto non parla. Gravissimo a mio parere è il silenzio sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali individuati autonomamente dalle scuole, per i quali si sono aperte negli ultimi anni alcune modeste possibilità di personalizzazione anche nella valutazione certificativa, definite però tutte da semplici Note od Ordinanze Ministeriali. Avere inserito finalmente queste tutele – per altro molto modeste, come detto -, in una legge ordinaria avrebbe dato un minimo di dignità formale a tali procedure, diffondendo il messaggio che la scuola inclusiva, di cui tanto il Ministero si riempie la bocca, non può valere solo per quelli che portano a scuola un certificato medico redatto nelle dovute maniere. Il fatto che il Decreto non ne parli rende purtroppo ancora più debole la posizione degli alunni senza certificazione di disabilità o DSA.

Ci si aspettava inoltre un serio chiarimento normativo sulla questione della validità del titolo di studio alla secondaria, considerando anche che praticamente tutte le procedure in uso si basano ancora su un’Ordinanza Ministeriale di sedici anni fa, la n. 90 del 2001 per l’esattezza, per vari aspetti superata (pensiamo all’abolizione degli esami di qualifica) e interpretata in modo scandalosamente disomogeneo a livello nazionale, con zone d’Italia in cui tutti gli alunni con disabilità o quasi conseguono il diploma, altre in cui tutti o quasi ricevono l’attestato.

Su questo punto non solo non arrivano chiarimenti, ma, come dicevo, si fa anche nuova confusione, modificando il lessico in modo inutile oltre che arbitrario. Servirebbe quindi con urgenza una nuova Ordinanza su questi argomenti, al posto della vecchia 90 del 2001, ma visti i precedenti, c’è da “toccare ferro” e forse conviene almeno aspettare la nomina del nuovo Osservatorio sull’Inclusione.

Il PNSD in una frase: àncora di salvezza in una scuola che cambia…

La scuola sta cambiando. L’avvento delle tecnologie digitali ha aperto scenari estremamente rilevanti nel mondo dell’apprendimento. A ottobre 2017 il Piano Nazionale Scuola Digitale ha compiuto due anni. Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) è il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale. È un pilastro fondamentale de La Buona Scuola (legge 107/2015), una visione operativa che rispecchia la posizione del Governo rispetto alle più importanti sfide di innovazione del sistema pubblico: al centro di questa visione vi sono l’innovazione del sistema scolastico e le opportunità dell’educazione digitale.

Tutto nasce con le Avanguardie Educative, un movimento di innovazione che sta portando a sistema le esperienze più significative di trasformazione del modello organizzativo e didattico della scuola che è stato uno degli stimoli di partenza per il lavoro fatto con le 22 scuole fondatrici e le 250 le scuole adottanti. I temi che da anni fanno parte delle sue sperimentazioni:

  • la trasformazione  del modello trasmissivo della scuola,
  • l’attenzione per i nuovi spazi per l’apprendimento e
  • la valorizzazione dei rapporti con il territorio li ritroviamo nel PNSD.

Inutile negarlo, la prima difficoltà che si è riscontrata e si riscontra a tutt’oggi in molte scuole è l’accesso; i dati parlano chiaro: delle 326.000 aule il 70% è connessa in rete, ma la connessione è generalmente inadatta alla didattica digitale; inoltre il 36% dei docenti (il 62% ha più di 50 anni, rispetto ad una media OCSE del 32%) dichiara di non essere sufficientemente preparato per la didattica digitale. Pensando alla scuola reale i dati credo siano anche peggiori. Al secondo posto metterei gli spazi, che sono fondamentali per un recupero della didattica attiva e della scuola delle competenze e devono diventare i luoghi di incontro della comunità.

Nel PNSD, la tecnologia non è al centro, come si potrebbe pensare parlando di un piano digitale, lo sono invece i nuovi modelli di didattica che utilizzano la tecnologia e lo sono i grandi maestri della scuola italiana. Come si fa a non pensare a Maria Montessori quando si parla di ambienti di apprendimento o di “sedute informali”? Era davvero necessario riportare al centro la didattica laboratoriale  e i laboratori come punto di incontro tra sapere e saper fare. Al paese serve sicuramente una cittadinanza digitale. Le competenze chiave del 21° secolo (azione #16 del PNSD) sono le competenze trasversali: problem solving, pensiero laterale, capacità di apprendere; materie scientifiche che valorizzino la creatività.

Il pensiero logico computazionale (azione # 17) lo si può sviluppare usando qualunque strumento: i bambini devono diventare gli attori protagonisti. I piccoli innovatori crescono. Qualche dubbio sul PNSD? Più che dubbio un timore, il BYOD (Bring Your Own Device). Giusto che si parlasse di BYOD in un piano quinquennale, ma in questo momento è davvero molto complicato pensare a docenti che riescano a gestire e “far scuola” con più di due sistemi operativi, vista la scarsa coscienza digitale del nostro corpo docente come emerge dai dati OCSE. E’ necessaria quindi la formazione del personale! La formazione dei docenti :  quando si parla di innovazione della didattica è una priorità assoluta. Dopo anni di ritardo la formazione è finalmente diventata obbligatoria e in più gli è stata data un’organizzazione molto precisa e definita. I poli formativi territoriali sono già una realtà che però andava portata a sistema: la costituzione di 250/300 poli permetterà la diffusione delle competenze con un approccio di formazione continua.

Nel PNSD ci sono altre azioni rilevanti a supporto. L’animatore digitale è una figura nuova, un “evangelista” che deve diffondere competenze, esperienza e soprattutto entusiasmo!  Accanto all’animatore si è pensato di portare a sistema l’assistenza tecnica alle scuole, per le scuole del primo ciclo un help importante per garantire il funzionamento delle tecnologie. I 250 poli formativi accanto ai 120/150 poli bibliotecari e ai 100 centri territoriali per la disabilità (C.T.S.) formeranno una vera “ragnatela” di servizi su tutto il territorio. Il PNSD vuole attivare un processo di “emersione” delle reti, delle scuole e anche degli attori extrascolastici che hanno avviato processi di innovazione digitale attraverso esperienze che hanno animato in questi anni un vero e proprio movimento di innovazione “dal basso”. C’è una ricchezza enorme di esperienze concrete nelle scuole italiane, ma ancora troppo frammentate, che vanno diffuse in modo strutturale su tutto il territorio. Il piano spinge alla collaborazione con gli enti locali, le famiglie e gli stakeholders per una co-progettazione con il territorio dell’idea di scuola.

PNSD: …Àncora di salvezza in una scuola che cambia, porto sicuro per la scuola del futuro!!!