La “cittadinanza” nello scenario europeo


La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (2ª parte)

Il concetto di cittadinanza è nato in Occidente nelle polis greche. Anche se il termine deriva dal latino civis, le qualità proprie di un cittadino sono tracciate per la prima volta nelle città greche del periodo classico. Nelle polis dell’antica Grecia gli stranieri, ovvero coloro che non parlano greco, sono considerati barbari, mentre gli Elleni, che hanno in comune lingua, costumi e religione sono accettati nella comunità e, anche se per la maggior parte ancora esclusi dalle cariche politiche, essi hanno il diritto di partecipare alla gestione degli affari pubblici.

Nell’antica Roma è considerato cittadino a pieno titolo il maschio adulto, libero, che partecipa a tutte le attività dello Stato e si contrappone non soltanto allo straniero non residente, ma anche agli stranieri residenti, alle donne e agli schiavi. Il popolo formato da soggetti dotati di pienezza di diritti è arbitro della pace e della guerra, delle leggi, dell’amministrazione della giustizia. La “civitas” si fonda sull’utilità comune e sulla dedizione alla res pubblica e, a differenza della polis greca, nel territorio di Roma, essa viene estesa prima ai latini poi agli italici, poi a tutti gli altri abitanti dell’Impero.

La nozione di cittadinanza ha conosciuto un periodo di stallo durante il Medioevo e l’epoca delle monarchie, in quanto il potere assoluto limita ed esclude nella maggior misura possibile il popolo dalla vita politica. Il termine è riapparso in Inghilterra nel XVII secolo grazie all’opera di Thomas Hobbes, quando si riferisce alle tematiche di cittadinanza e dei fondamenti della politica, ampliata grazie alle teorie giusnaturalistiche e alla cultura illuministica. La filosofia del diritto naturale ha modificato radicalmente la rappresentazione del soggetto, che ha acquistato un nuovo status accanto a quello di suddito-cittadino, vale a dire la condizione di uomo, a cui sono state riconosciute nuove caratteristiche inderogabili quali lo stato di natura, i bisogni e i diritti fondamentali.

Il filosofo inglese John Locke, padre del liberalismo moderno, ha introdotto la teoria secondo la quale il soggetto è anteriore e precedente rispetto alla sovranità dello Stato e all’ordine sociale, ma la vera svolta è avvenuta grazie all’opera del filosofo francese Jean Jacques Rousseau, considerato ancora oggi il padre della democrazia moderna. Secondo Rousseau l’appartenenza statale è collegata al principio di libera volontà. Il cittadino è prima di tutto colui nel quale risiede la sovranità ed è lui a delegarla ad un ente superiore. Egli non è più suddito, ma essere razionale capace di creare e scegliere il proprio governo. Nasce così il concetto di popolo come soggetto politico (il demos) inteso come l’insieme dei cittadini che, attraverso la sottoscrizione di un contratto sociale, decidono autonomamente di vivere sotto un ordinamento costituzionale comune.

La maturazione degli ideali democratici introdotti nel corso del XVIII secolo ha portato in tutta Europa un processo di cambiamento sostenuto dalla necessità di nuovi assetti politici e sociali che includessero i popoli nella gestione della vita pubblica della nazione cui appartengono.

Con lo scoppio della Rivoluzione Francese e la conseguente stesura della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” varata dall’Assemblea Nazionale, per la prima volta all’interno di uno Stato europeo, tutti gli uomini di una nazione sono stati considerati come “liberi ed eguali nei diritti”. Indubbiamente questa è stata la svolta che ha introdotto la concezione moderna di cittadinanza come contenitore di una serie di diritti soggettivi, un concetto che si è affermato come eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, in quanto soggetti di diritto, detentori della sovranità e membri della nazione.

Nella Francia rivoluzionaria il cittadino è tale semplicemente perché appartiene al nuovo stato costituito (ius soli), fondato sugli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. La cittadinanza è “generale”, poiché estesa a tutti coloro che si trovano sul territorio francese, e “astratta”, in quanto riconosciuta al di là dell’appartenenza ad un determinato ceto o gruppo sociale. Gli individui sono considerati uguali in quanto cittadini e hanno il diritto di essere rappresentati politicamente in un’Assemblea Nazionale.

Nella fase giacobina della Rivoluzione questa visione del concetto di cittadinanza si è ulteriormente ampliata, venendo a coincidere con l’identità collettiva della comunità politica: tutti possono essere cittadini, ma devono condividere gli scopi e i valori dello Stato. Coloro che non accettano di farlo, vengono identificati come Controrivoluzionari e combattuti come nemici.

Un’ulteriore svolta si è verificata con l’avvento del Romanticismo e con la reazione anti-illuministica: l’uomo non costituisce più il punto di partenza da cui nasce uno Stato, ma lo Stato-nazione diventa un’entità a se stante. Tale punto di vista è stato rafforzato dalla cultura positivistica, che si è affermata in pieno Ottocento e che ha contestato l’individualismo sostenuto dalle teorie illuministe e ha caratterizzato il soggetto in base al vincolo di solidarietà organica che lo lega alla comunità. Ad accomunare le teorie dei secoli XVIII e XIX vi è comunque l’assoluta fiducia nella libertà, vista come connotato irrinunciabile per qualsiasi soggetto.

La fiducia in una società fatta di collaborazione e di crescita progressista si è tuttavia incrinata alla fine del XIX secolo con il diffondersi di nuovi ideali e con l’inizio di un periodo identificato storicamente come imperialismo. Le date che hanno segnato l’inizio della crisi sono state il 1871, che ha visto la repressione nel sangue dell’esperimento democratico della Comune di Parigi, e il 1885, l’anno del Congresso di Berlino, durante il quale le grandi potenze europee si sono divise i territori delle colonie africane.

Il panorama culturale e filosofico in questi anni è cambiato radicalmente e all’ottimismo si è sostituito l’irrazionalismo, una corrente che ha caratterizzato il pensiero del XX secolo, spesso definito come secolo della crisi. La crisi è stata generata dagli eventi storici e politici ed ha interessato ogni aspetto della società, dai valori morali alle istituzioni. Sentimenti come il nazionalismo, il militarismo, il colonialismo, il razzismo e l’avversione per gli ideali democratici e socialisti si sono diffusi rapidamente e hanno portato alla prima guerra mondiale. In un clima di totale sovvertimento, anche il concetto di cittadinanza è entrato in crisi: esso non può più fondarsi sull’idea pacifica di equilibrio tra soggetto e stato.

Il ‘900 apre una nuova epoca, quella della società di massa, la quale, in qualità di nuovo soggetto collettivo, ha iniziato a mettere in discussione i parametri che fino ad allora avevano definito l’appartenenza e il rapporto tra l’uomo e il diritto alla cittadinanza. L’avvento dei regimi totalitari fascisti e nazionalisti ha costituito una vera e propria negazione dell’autonomia e della libertà del soggetto, il quale viene subordinato a entità collettive quali lo Stato-nazione e la razza. Il diritto alla cittadinanza, come ogni altro diritto fondamentale, ha subito in questi anni un attacco senza precedenti: il rapporto tra soggetto e Stato si inverte, non è più l’uomo al centro della comunità ma è lo Stato e ogni discorso comune di solidarietà e collaborazione è abbandonato. In questo malsano rapporto, è lo Stato che ingloba l’individuo, togliendogli ogni libertà.

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