Giochi in classe per sviluppare l’intelligenza emotiva

giochi-classe-intelligenza-emotiva
Un insegnante assiste alla scena di due alunni di prima elementare che si spintonano per uscire per primi dall’aula al momento della ricreazione. Che fare? Intervenire o no? Se sì, come? Diventando giudice della situazione sulla base della scena vista? Chiedendo spiegazioni a entrambi? Parlando con ciascuno separatamente? Ignorando l’accaduto, perché, in fondo “non è accaduto nulla di grave”? Ecco alcune idee creative, ad uso degli insegnanti, per proporre attività in classe finalizzate al miglioramento delle competenze emotive dei ragazzi, necessarie alle sane relazioni. Leggi tutto “Giochi in classe per sviluppare l’intelligenza emotiva”

Rimini “Meeting 2018”: l’istruzione rende l’uomo felice?

Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca dott. Marco Bussetti dialoga e risponde alle domande di alcuni operatori del mondo della scuola
Il meeting di Rimini ospita da sempre i Ministri della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana e dialoga con loro. Quest’anno sarà un professore di storia e filosofia, il dott. Bonfanti del Liceo “Donatelli – Pascal” di Milano, a introdurre il Ministro che un tempo ricopriva la carica di Provveditore provinciale di Milano ed è entrato spesso in contatto con quelle che sono le reali problematiche del mondo della scuola. Lo descrive come uomo di grande umanità capace di entrare in contatto e farsi provocare dalle realtà che incontrava nel suo cammino professionale.

Una realtà che sin da subito è stata ricordata è Portofranco, un’eccellenza nel panorama milanese di quello che è stato il genio pedagogico che è don Giorgio Pontigia. Per chi non lo conoscesse Portofranco è un’istituzione presente sul territorio milanese da 18 anni e ormai estesa in tutto il panorama italiano; è una realtà libera di aiuto allo studio, di incontro di ragazzi a partire da un supporto educativo e didattico-metodologico fondato e sostenuto dalla gratuità di centinaia di volontari adulti universitari e anche studenti delle scuole medie superiori che restituiscono cosa loro hanno ricevuto. Enzo Iannacci definì Portofranco come “Luogo pieno di luci, giovani e mistero” (2 dicembre 2011).

La prima domanda l’ha rivolta il prof. Bonfanti: cosa lo ha colpito di Portofranco?

Ministro: “Portofranco vuole essere la risposta a quello che è il disagio giovanile; spesso nell’adolescenza si vivono momenti di crisi, talvolta i ragazzi hanno paura di questo disagio e non sanno trovare la giusta chiave di lettura per comprendersi. Ma dalle crisi possono nascere nuove opportunità e quel momento di “caos interiore” può trasformarsi in volano. La crisi può penalizzare le reali capacità di questi ragazzi rispetto alla ricchezza interiore di ognuno, che in quel momento non emergono perché il caos ha predominato. A Portofranco si ha un approdo sicuro e una certezza granitica di trovare persone specializzate e competenti, che dedicano il loro tempo e si prendono cura con amore, passione, attenzione e ricerca del successo e del risultato nei confronti di ragazzi che vengono a chiedere aiuto. Questi ragazzi superano la loro crisi, raggiungono risultati, proseguono i loro studi, si laureano, tornano a Portofranco e vogliono restituire ciò che hanno ricevuto. È una forma di riconoscenza, amore e restituzione nei confronti di quegli adulti che hanno creduto in loro e voler restituire il bene che si è ricevuto.”

Matteo Sama, studente presso ITC di Bologna in quarta, e Presidente della Consulta della provincia di Bologna, ha raccontato la sua esperienza nel mondo delle Scuole superiori dove è emersa una criticità grossa sull’uso degli stupefacenti in ambito scolastico e ha posto la seguente domanda: Come si possono valutare i docenti che insegnando si impegnano con il “cuore” dei propri studenti?

Il Ministro sorride e sostiene come il tema della valutazione in Italia sia molto delicato sotto tutti i profili; mostrando il suo lato paterno, esordisce dicendo che quando sua figlia arriva a casa con un voto scolastico lui le dice sempre “Il voto non l’hai preso tu ma il tuo compito”, valuta cioè una prestazione circoscritta e non è un giudizio di valore sulla persona.

Sono le persone con le quali la scuola quotidianamente si confronta, ma occorre fare una premessa: il sistema, l’organizzazione prevede tutta una serie di figure che lavorano affinchè la macchina amministrativa funzioni al meglio e permetta che si avvii l’anno scolastico per tempo e nel migliore dei modi. Questi sono il personale amministrativo delle scuole, i dirigenti scolastici, le persone che occupano i posti nei vari uffici provinciali e regionali. Parlare di valutazione rispetto ai docenti è un tema urgente poiché alla fine dello scorso anno scolastico sono arrivati dei fondi che i dirigenti dovevano distribuire ai docenti meritevoli.

Il ministro ritiene che una persona se deve essere valutata, deve sapere su che cosa avviene la sua valutazione e ha chiesto da subito un incontro con i sindacati, che si sono dimostrati collaborativi al massimo e insieme hanno determinato da subito, entro settembre 2018, quali saranno gli indicatori e gli obiettivi per i quali tutti, docenti di ruolo e non, verranno valutati, di modo che ci sia una valutazione vera. È utile suggerire anche gli aspetti che un docente dovrebbe avere innati, ma che comunque si possono anche costruire e che sono legati a una sensibilità, un’attenzione alle persone che permetta di seguire in modo personalizzato ogni singolo alunno/a: una forza esterna che viene da un docente altamente motivato e appassionato della sua professione, rigenera un processo che agisce sulla motivazione intrinseca ed estrinseca del docente e genera una forza propulsiva e ridona motivazione, autostima; dare senso di appartenenza deve esser uno degli obiettivi della scuola insieme a una formazione allargata e più olistica.

Occorre valorizzare di più le attitudini piuttosto che le capacità, spesso si è focalizzati su quello che un individuo sa fare e quindi può esserci una deriva a un giudizio personale alla persona, ecco perché occorre valorizzare di più le attitudini, per evitare una valutazione sulla persona. L’atteggiamento pedagogico deve rifarsi a Rosmini che diceva che “I ragazzi non hanno diritto ma sono il diritto” e quindi vanno “amati”: è questa la parola magica da usare sempre in qualsiasi relazione; empatia, affetto, comunicazione, scambio di opinioni, conoscenza, in tal modo io posso aver forse un po’ di presunzione di giudicare la persona e non solo un compito.

La terza domanda è stata posta da Lidia, una docente di matematica in un Istituto tecnico professionale in una classe composta da 31 alunni, la quale ha descritto la situazione talvolta problematica che si viene a creare, in ambienti di frontiera, nell’attirare l’attenzione di ragazzi, spesso pluriripetenti, che presentano forti criticità in famiglia e che rivelano un forte disagio sociale a cui la scuola è chiamata a farsi carico. Questa la domanda: Osservando le difficoltà che talvolta presentano i ragazzi, la mancanza di strumenti e la presenza di classi numerose, quali possibilità concrete ci sono per gestire in modo adeguato le risorse presenti e incrementarle e nel gestire queste risorse quali realtà e quali aspetti a suo giudizio sono da valorizzare? Da dove partire? In secondo luogo, a carattere più tecnico, riguardo il decreto delegato 61/2017, quali modifiche apporta il nuovo decreto di riforma di istruzione professionale; se da un lato lo scopo è quello di raccordare i percorsi di istruzione professionale e di formazione e insieme preservarne la distinzione, mi chiedo che cosa caratterizza e cosa si vuole preservare dell’istruzione professionale rispetto ai percorsi regionali di formazione?

Per il Ministro le strategie didattiche, educative e metodologiche devono essere patrimonio di un consiglio di classe, di un dipartimento. Le statistiche ci dicono che le nostre classi hanno una media di 21, 2 alunni per classe nelle scuole statali, la classe numerosa è un tema che spesso emerge e che deve essere affrontato.

I percorsi di formazione nascono negli anni ’50 insieme agli Istituti tecnici, nell’immediato dopoguerra, dove le nostre industrie stavano ripartendo e avevano necessità di manodopera maggiormente specializzata. Erano funzionali a un processo di crescita e di industrializzazione, oggi abbiamo un potenziale umano pronto a esprimersi nelle attività STEM, abbiamo  ragazzi SMART pronti a reagire, e quindi gli istituti  professionali possono avere un ruolo fondamentale nella crescita del percorso.

Valorizziamo  le attitudini dei ragazzi, le loro potenzialità e soprattutto è importante che le scuole, in questo momento storico particolare, debbano tornare a esser fulcro della formazione dei ragazzi, dandosi una vera identità e senso di appartenenza forte; mai come in questo momento storico c’è bisogno di questo.

Le scuole professionali sono importanti e ancora più importanti sono la ricerca e le buone pratiche didattiche, non da custodire gelosamente, ma da divulgare. Gli indirizzi professionali sono passati da 6 a 11 per cui occorre che la collegialità intervenga in maniera forte e che un approccio didattico di tipo laboratoriale, incentrato sulle nuove pratiche didattiche, possa essere il leitmotiv per questi ragazzi.

Il passaggio dalle scuole regionali a quelle professionali è previsto dal nostro sistema di formazione come una prosecuzione verso il futuro e non deve mancare un aggancio vero con il mondo dell’imprenditoria delle aziende, delle industrie di modo che i ragazzi vedano davanti a loro un futuro concreto, reale, un aggancio tra il mondo della formazione didattica, che diventa sinergica con il mondo dell’impresa: è un legame che diventa vincente, che può produrre sicuramente dei risultati che vedremo fra qualche anno ma andranno a soddisfare i bisogni dei nostri studenti e la loro piena realizzazione.

La quarta domanda è posta dal presidente di una scuola paritaria di Modena il dott. Silvio Vitella, il quale dopo aver introdotto la situazione della scuola in cui è presidente ha posto le seguenti domande: Quali prospettive si possono immaginare per le scuole paritarie nel sistema nazionale di istruzione? E la seconda di carattere più tecnico riguarda il reclutamento e l’assunzione di docenti abilitati: quando si attiveranno i percorsi perché i giovani laureati possano ottenere la specializzazione all’insegnamento o altro titolo utile per insegnare nella scuola secondaria?

Il Ministro sostiene che le scuole paritarie sono parte integrante del sistema di istruzione nazionale poiché è a conoscenza della situazione delle scuole paritarie, essendo stato per anni responsabile di tutte le scuole paritarie della Lombardia. Queste sono regolate dalla legge 62 del 2000 che prevede tutta una serie di adempimenti, caratteristiche particolari, e soprattutto raccomandazioni di tipo organizzativo e legislativo, per ottenere e mantenere la parità e tra queste c’è il fatto che ci devono essere docenti abilitati.

Negli ultimi anni la Buona Scuola ha creato un reclutamento nuovo che ha condizionato la vita di migliaia di persone sradicandole dal proprio territorio, creando molti disagi in persone e famiglie, con un contenzioso che ancora oggi occupa parte del tempo dei funzionari del nostro ministero e che non è ancora risolto, ha prosciugato queste graduatorie ad esaurimento.

Le scuole paritarie si trovano a perdere docenti che vengono messi in ruolo nello Stato e a doverne ricercare altri e non trovarli; è un tema che, come quello dei rapporti e del sistema di istruzione, ha ben chiaro, come Ministro e dovrà sicuramente affrontarlo con serietà e ri-normarlo. È evidente però che le scuole paritarie devono avvicinarsi sempre più agli standard di qualità delle scuole statali. La scuola paritaria è una ricchezza e il ministero cercherà di tutelarla e valorizzarla in tutti i modi.

L’ultima domanda è posta dal Dirigente scolastico di un IC di Busto Arstizio il dott. Paolo Maino il quale dopo aver definito la scuola come “Comunità educante”, dove ciascun individuo apporta il suo contributo, ha posto la seguente domanda: “Cosa intende fare oggi il ministero e che indicazioni intende dare per avviare un processo di reale e concreta realizzazione di quell’autonomia della comunità educativa che è indicata nel DPR 275 del regolamento dell’autonomia?”

Il Ministro risponde dicendo che la parola autonomia non significa autodeterminazione ma avere un’istituzione o soggetto in grado di negoziare con e per il territorio. Questo dovrebbe essere il vero scopo dell’autonomia scolastica che in questi anni si è realizzato; si sono fatti passi avanti, c’è un regolamento del ’99, letto con una certa propensione verso il futuro, ancora per certi aspetti molto attuale.

È evidente che una revisione del Testo Unico è essenziale, poiché è ancora più antico e al suo interno occorre rivedere tutta quella che è la gestione degli organi collegiali, ma alla base dell’autonomia deve esserci il principio dell’identità: la scuola deve tornare a essere il fulcro della formazione degli individui e l’autonomia, da questo punto di vista, la può favorire dando senso di appartenenza, presupponendo un’ampiezza di sguardo verso il futuro, grande sinergia con il territorio e con gli attori che vivono la scuola.

Il DS è vero che è diventato un po’ un burocrate, basti considerare la legge 165 art. 25. Ha anche il compito di diventare l’elemento trainante e necessario per fare sintesi tra quello che è un bisogno di un territorio e quelle che sono le sue potenzialità.

Il lavoro di tanti DS, dal punto di vista dell’autonomia, si è visto in questi anni e tutti hanno fatto un ottimo lavoro. Il DS ha bisogno di avere qualcuno intorno che lo sostenga, è una figura sola al comando e ha necessità di uffici amministrativi che lo sostengano, degli enti e delle istituzioni che gli siano vicini, e di trasmettere la sua visione di impostazione di un Piano dell’offerta formativa che ha condiviso con gli organi collegiali di riferimento. Sono materie che andranno sicuramente affrontate e riviste, dico questo forte dell’esperienza che ho vissuto in prima persona.

La figura del DS per quanto riguarda l’autonomia è il cardine, è fondamentale, il suo ruolo è una responsabilità diretta su tutti: in futuro occorrerà un controllo degli obiettivi che dovranno essere condivisi all’inizio, trasparenti e valutati alla fine.

Si confondono molto le competenze con gli obiettivi oggi; ciò che deve partire è un piano della performance vera dall’amministrazione centrale poi declinato nelle singole realtà per poter offrire un punto di riferimento importante alle istituzioni scolastiche da mantenere un giusto taglio all’autonomia che è un valore che va conservato e preservato poiché contenuto nella nostra carta costituzionale e visto che il prossimo anno saranno 20 anni dalla legge del ’99 apriremo una proficua riflessione e daremo una rinfrescata a questa legge tenendo ben presente il valore che racchiude l’autonomia, custodita anche nella nostra Carta Costituzionale.

“Promozione della cultura umanistica e valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività”: D. Lgs. 60/2017

Arte - Albert Einstein

L’Arte è l’espressione del pensiero più profondo nel modo più semplice (Albert Einstein)

Il D. Lgs. 60/2017 ha come finalità la promozione e la conoscenza della cultura umanistica, attraverso la pratica delle Arti e lo sviluppo della creatività. La musica, la pittura, il teatro, l’arte decorativa, la scrittura creativa rientrano di diritto nel Piano Triennale dell’offerta formativa delle scuole di ogni ordine e grado. Le Istituzioni scolastiche possono prevedere sinergie collaborative tra linguaggi artistici e nuove tecnologie, nella progettazione di percorsi curricolari, anche in verticale, in alternanza scuola-lavoro, in rete con altre scuole, con la collaborazione di Enti e associazioni private o locali che lavorino in ambito artistico.

Le scuole devono organizzare una progettazione delle attività che rientrino in specifici settori, detti” temi della creatività”, che il D. Lgs. 60/2017 individua nelle seguenti aree: musicale-coreutico, teatrale-performativo, artistico-visivo e linguistico-creativo. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è adottato il Piano delle Arti, un programma di interventi con validità triennale che contiene una serie di misure per agevolare lo sviluppo dei temi della creatività nelle scuole. Per l’attuazione del Piano, è istituito, uno specifico fondo denominato ”Fondo per la promozione della cultura umanistica, del patrimonio artistico e della creatività”, che ha una dotazione di due milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2017.

Questo Piano prevede dei finanziamenti specifici, a favore dei Poli di orientamento artistico e performativo, che comprendono scuole del primo ciclo che hanno sviluppato curricoli verticali in almeno tre temi della creatività, delle scuole secondarie di secondo grado, dove il 5% dei posti di potenziamento dell’offerta formativa dovrà essere dedicata  allo sviluppo dei temi della creatività.

Tra le misure previste dal Piano delle Arti vi sono:

  • il sostegno alle istituzioni scolastiche e Reti di scuole,
  • il potenziamento delle competenze pratiche e conoscitive degli studenti,
  • il supporto alla diffusione e allo sviluppo dei Poli a orientamento artistico,
  • la promozione di Reti tra scuole per la co-progettazione di attività per lo sviluppo dei temi della creatività,
  • la promozione di percorsi di conoscenza del patrimonio artistico, culturale, ambientale e del Made in Italy,
  • l’agevolazione per la fruizione dei musei e dei luoghi di cultura, mostre, esposizioni, concerti, spettacoli, da parte degli studenti e
  • l’ incentivazione di tirocini e stage artistici di studenti all’ estero.

La governance per la promozione della conoscenza e della pratica delle Arti, oltre al MIUR e al MIBACT (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) vede la partecipazione dell’Indire per la gestione delle attività di indirizzo e coordinamento, oltre alle Istituzioni AFAM (Alta Formazione Musicale e Coreutica), alle Università, agli ITS (Istituti Tecnici Superiori), gli Istituti del MIBACT, gli Istituti di Cultura Italiana all’estero, soggetti pubblici e privati.

Sono previste collaborazioni tra MIUR e Indire per lo sviluppo del Piano delle Arti, in particolare l’Indire avrà il compito di:

  • offrire formazione e consulenza ai docenti impegnati nello sviluppo dei temi della creatività,
  • essere di supporto per l’attivazione di laboratori permanenti di didattica dell’espressione creativa,
  • incentivare la raccolta e la diffusione delle buone prassi.

La formazione dei docenti impegnati nei temi della creatività costituisce una delle priorità strategiche del Piano Nazionale di Formazione del Miur e del P.N.S.D. Relativamente alla pratica artistica e musicale nei cicli del sistema educativo, nelle scuole dell’infanzia e del primo ciclo devono essere promosse attività di conoscenza e sensibilizzazione ai temi della creatività, in particolare alla pratica musicale, attraverso l’impiego di docenti anche di altro grado scolastico, in possesso di specifici requisiti, che verranno appositamente formati.

Nella scuola secondaria di primo grado, si realizzeranno attività connesse ai temi della creatività in continuità con i percorsi della scuola primaria, inoltre sarà facilitata e potenziata la nascita delle scuole secondarie a indirizzo musicale. Le scuole secondarie di secondo grado, devono inserire nel Piano triennale dell’offerta formativa, attività che comprendano la conoscenza del patrimonio artistico-culturale, la pratica delle arti e della musica, sviluppando uno o più temi della creatività, avvalendosi anche dei linguaggi multimediali e delle nuove tecnologie.

Inoltre, le scuole devono individuare uno spazio destinato agli studenti, dove possono esporre opere, realizzare spettacoli, esprimere liberamente la loro creatività artistica. Alla luce di quanto esposto, il D. Lgs. 60/2017 ha il pregio di aver portato l’attenzione sull’esigenza di una formazione, che responsabilizzi le future generazioni alla cura e tutela del patrimonio artistico e culturale. Di contro, come punto di debolezza si evidenzia una poca chiarezza di tutto l’impianto organizzativo, che difficilmente potrà avere un impatto significativo sulla quotidianità dei processi educativi e gestionali del sistema scolastico.

Nuovo reclutamento docenti: D. Lgs. 59/17

Cambia il modo con il quale si diventa docenti nella Scuola Secondaria per una riqualificazione sociale e culturale della professione.

Il  D. Lgs. 59/17 rinnova il sistema della formazione iniziale e  dell’accesso al ruolo di docente a tempo indeterminato nella Scuola Secondaria di I e II grado, su posti comuni e di sostegno, a norma dell’ art.1, commi 180 e 181, della L. 107/15.

Il  nuovo sistema prevede, previo superamento di  un concorso pubblico nazionale per titoli ed esami, l’ammisione ad un percorso triennale di formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella funzione docente (FIT), superato il quale si viene confermati  a tempo indeterminato.

Al concorso, che a partire dal 2018 sarà indetto con cadenza biennale su base regionale o interregionale, si accede con il possesso del titolo di studio richiesto e di  almeno 24 crediti formativi in settori antropo-psico-pedagogici e metodologie e tecniche didattiche.

Sono previste due prove scritte (tre per i posti di sostegno) di cui la prima su una disciplina a scelta, appartenente alla specifica classe di concorso, e l’altra relativa alle discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie e tecniche didattiche. La prova in aggiunta per il sostegno farà capo alla pedagogia speciale e alla didattica dell’inclusione mentre la prova orale si svolgerà su tutte le discipline della classe di concorso e verificherà, al contempo, le competenze informatiche e di lingua straniera.

Il percorso FIT, distinto tra posti comuni e di sostegno, ha l’obiettivo precipuo di favorire e rafforzare nei futuri docenti competenze pedagogiche, didattico-metodologiche, valutative, relazionali ed organizzative connesse al ruolo e funzionali alla formazione e alla crescita culturale degli studenti.

Il FIT si realizza mediante una collaborazione strutturata e paritetica fra scuola, università e istituzioni AFAM. Il primo anno, che si svolge principalmente nelle strutture accademiche con momenti di tirocinio nelle scuole, è finalizzato al conseguimento di un diploma di specializzazione per l’insegnamento nella Scuola Secondaria in una specifica classe di concorso o in pedagogia e didattica speciale per le attività di sostegno e l’inclusione scolastica. Segue un secondo anno di formazione, integrato con attività di tirocinio nelle scuole ed iniziali attività di insegnamento attraverso supplenze brevi per assenze fino a 15 giorni. Durante il terzo anno al docente sarà assegnata una cattedra vacante e disponibile.

Nel primo anno il docente beneficia di un compenso di circa 600 euro, per dieci mesi, cui si aggiunge, nei due periodi successivi, la retribuzione per le supplenze brevi o annuali.  I candidati sono valutati al termine di ogni periodo di formazione e alla fine del terzo anno sono immessi in ruolo se conseguono risultati positivi.

Il D. Lgs. 59/17 disciplina una fase transitoria relativa alle posizioni di docenti abilitati all’insegnamento o con anni di servizio cui assicura riserve di posti ferma restando la valutazione professionale in campo prima dell’immissione in ruolo.

La formazione dei docenti ha un ruolo essenziale ai fini del miglioramento e dell’adeguamento del sistema scolastico alle richieste del mondo contemporaneo.

ll D. Lgs. 59/17 ne cura la fase inziale inserendosi nel contesto di una più ampia previsione normativa che ha reso la formazione professionale permanente, strutturale e obbligatoria affinché il servizio di istruzione e formazione sia sempre più adeguato e funzionale allo scopo per il quale è designato.

I nuovi istituti professionali

L’istruzione professionale ha raggiunto negli ultimi dieci anni uno sviluppo ed una maturità ineguagliabili. Fino al 2010 gli studenti del professionale avevano la possibilità di conseguire alla fine del terzo anno una qualifica professionale; successivamente con il DPR n. 87 del 2010 il Regolamento, recante norme per il riordino degli istituti professionali, ha ridefinito l’identità degli stessi incanalando l’istruzione professionale verso una dimensione operativa, in risposta alle esigenze formative del settore produttivo di riferimento per un rapido inserimento dello studente nel mondo del lavoro.

La suddivisione del quinquennio in due bienni ed un monoennio dava l’opportunità agli studenti di scegliere tra 6 settori di cui due di Industria e artigianato e 4 dei Servizi. L’Allegato A contenente il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente veniva poi completato dall’allegato B con gli indirizzi ed il quadro orario ed i risultati di apprendimento nel corso delle 1052 ore annuali.

Con le Linee Guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli Istituti Professionali (emanate con Direttiva Miur 28 luglio 2010, n. 65) si è proceduto alla definizione dei nuovi professionali, a loro volta potenziati con il D.L. 31 gennaio 2007 n. 7 convertito in L. 2 aprile 2007 n. 40.

La Legge 128/2013 ha introdotto in una delle due classi del primo biennio un’ora di insegnamento della geografia generale e di economica laddove non fosse già prevista (DM 11 settembre 2014). L’orario complessivo è salito così a 1085 ore annuali.

Il DPR 87/2010 all’art. 4 c. 1 ha individuato due Settori di Servizi ed Industria ed artigianato. Due sono gli indirizzi per il Settore industria ed artigianato: Produzioni industriali ed artigianali e di Manutenzione e assistenza tecnica.

Gli istituti professionali per industria ed artigianato sono stati dotati di ufficio tecnico per migliorare l’uso dei laboratori, essendo nota caratteristica di questi istituti la didattica laboratoriale.

Ciascun profilo culturale dei professionali prevede un’area di insegnamenti comuni ed un’area di indirizzo specifica.

L’attuazione della Legge 107/2015 ha ulteriormente modificato gli istituti professionali innovando i settori e gli indirizzi a partire dalla revisione dei professionali nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione. La piena attuazione della riforma dall’anno scolastico 2022-23 renderà abrogato il DPR 87/2010 ed a pieno regime il decreto legislativo 61/2017.

Tale decreto attuativo della L. 107/2015, risponde a diversi bisogni formativi emersi negli ultimi anni, in primis le esigenze di IP da parte di immigrati e studenti con diverse difficoltà di apprendimento, in seconda istanza il bisogno dell’economia del nostro paese di implementare e potenziare il made in Italy.

Il decreto 61, inoltre, intende sistematizzare i campi di istruzione e formazione professionale, superando le sovrapposizioni e chiarendo il ruolo delle istituzioni scolastiche rispetto alla formazione professionale regionale.

Oggi due settori a confronto per 11 indirizzi di studio, un nuovo assetto organizzativo che prevede l’articolazione del quinquennio in un biennio ed un triennio (art. 4).

Un primo biennio di complessive 2112 ore articolate in 1188 di istruzione generale e 924 di indirizzo specifico, un successivo triennio di complessive 1056 ore annue, divise tra 462 ore di area generale e 594 insegnamenti di indirizzo. Durante il primo biennio una quota non superiore alle 264 ore è destinata alla  realizzazione del Progetto formativo individuale (art. 5); nel primo biennio si programma per assi culturali, nel triennio si aggregano le discipline di istruzione generale.

Ciascun professionale potrà usufruire del 20% della quota di autonomia sia nel biennio che nel triennio, del 40% di flessibilità negli anni del triennio, nonché stipulare contratti d’opera, costituire un CTS, connettersi con il sistema IeFP (art.6).

A norma dell’articolo 4, comma 4, del D. Lgs. n. 61/2017, le istituzioni scolastiche che offrono percorsi di istruzione professionale possono attivare, in via sussidiaria, previo accreditamento regionale secondo modalità da definirsi con gli accordi di cui all’articolo 7, comma 2, percorsi di istruzione e formazione professionale per il rilascio della qualifica e del diploma professionale quadriennale.

Viene costituita la Rete nazionale delle scuole professionali (art. 7) tra scuole statali e paritarie e istituzioni formative accreditate, per rendere possibili i passaggi tra IP e IeFP al conseguimento della qualifica triennale poiché è istituito il Repertorio nazionale dei titoli di studio (art. 8).

A norma dell’articolo 8, comma 1, del D. Lgs. n. 61/2017, i passaggi tra i percorsi di istruzione professionale e i percorsi di istruzione e formazione professionale costituiscono una delle opportunità che garantiscono alla studentessa e allo studente la realizzazione di un percorso personale di crescita e di apprendimento.

Il nuovo ordinamento partirà dal prossimo anno scolastico (art. 11).

Il decreto n. 92 del 24 maggio 2018 costituisce un passaggio fondamentale in quanto nei suoi 9 articoli e 4 allegati definisce i profili in uscita dell’area generale, i profili degli 11 indirizzi di studio, la correlazione degli indirizzi alle attività economiche nazionali, la correlazione dei profili ai settori economico-professionali, l’articolazione dei quadri orari, la correlazione tra qualifiche e diplomi professionali.

Ci saranno le linee guida da adottare per il biennio entro 90 giorni, per il triennio entro 180 giorni. In area generale sono rivisti gli insegnamenti comuni a tutti gli indirizzi, riferiti all’asse dei linguaggi, matematico e storico sociale; gli insegnamenti di indirizzo saranno riferiti all’asse tecnologico e professionale.

Nella nuova definizione del PTOF vanno considerate le indicazioni prioritarie regionali; vanno inoltre applicati il principio della personalizzazione educativa (art. 6) che al 31 gennaio 2019 dovrà condurre il consiglio di classe alla redazione del progetto formativo individuale (PFI), grazie al ruolo cardine del tutor individuato dal DS nell’ambito del consiglio di classe. Tutto il personale scolastico sarà destinatario di misure di accompagnamento e di formazione specifica (art. 7), come già confermato dal Miur nelle linee programmatiche del Dicastero dell’11 luglio 2018.

La nuova Legge sui servizi educativi per 0-6 anni: D.L. 65/2017

Il paradosso del sentimento dell’infanzia che caratterizza la nostra società ormai è un dato di fatto. Nonostante oggi l’idea di un/a bambino/a da 0-6 anni bisognoso solo di assistenza e affetto sia stata culturalmente e socialmente superata da tempo, grazie anche alla Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989, in molti casi si fa ancora fatica a realizzare un’azione educativa che renda tale bambino/a attivo, partecipe, competente e dunque protagonista e attore/attrice dei propri cambiamenti.

Il D.L. N. 65 del 13 aprile 2017, Sistema integrato di educazione e di istruzione per le bambine e per i bambini in età compresa dalla nascita fino ai sei anni, partendo dalla consapevolezza che l’educazione e la cura della prima infanzia costituiscono la base essenziale per il buon esito dell’apprendimento permanente, dell’integrazione sociale, dello sviluppo personale di tutti i soggetti, ha finalmente recepito tale paradosso e reso operativa e reale una progettualità educativa e formativa nuova.

Tale decreto pertanto, rappresenta la parte più innovativa e qualificante della legge 107/2015, Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione, della cosiddetta Buona Scuola, in quanto per la prima volta tale fascia d’età ne entra a far parte.

Molti i suoi punti qualificanti, ma quelli più significativi sono presenti nell’art. 1 e nell’art. 13.

Dopo aver definito all’art. 1 comma 1 che i servizi educativi per l’infanzia devono essere articolati in

  1. a) nido e micronido; servizi integrativi; sezioni primavera
  2. b) scuole dell’infanzia statali e paritarie

tale decreto sottolinea che alle bambine e ai bambini, dalla nascita fino ai sei anni, per sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento, in un adeguato contesto affettivo, ludico e cognitivo, sono garantite pari opportunità di educazione e di istruzione, di cura, di relazione e di gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali.

Sottolinea cioè che la funzione educativa e sociale di tali istituzioni deve mirare da subito all’inclusione di tutti i soggetti.

Inclusione che all’art.1, comma 2, viene ben declinata attraverso le finalità che esso si pone e cioè:

  • promuovere la continuità del percorso educativo e scolastico, con particolare riferimento al primo ciclo di istruzione, favorendo lo sviluppo delle bambine e dei bambini in un processo unitario, in cui le diverse articolazioni del Sistema integrato di educazione e di istruzione collaborano attraverso attività di progettazione, di coordinamento e di formazione comuni;
  • concorrere a ridurre gli svantaggi culturali, sociali e relazionali e favorire l’inclusione di tutte le bambine e di tutti i bambini attraverso interventi personalizzati e un’adeguata organizzazione degli spazi e delle attività;
  • accogliere e rispettare le diversità;
  • sostenere la primaria funzione educativa delle famiglie, favorendone il coinvolgimento nell’ambito della comunità educativa e scolastica;
  • favorire la conciliazione tra i tempi e le tipologie di lavoro dei genitori e la cura delle bambine e dei bambini, con particolare attenzione alle famiglie monoparentali;
  • promuovere la qualità dell’offerta educativa avvalendosi di personale educativo e docente con qualificazione universitaria e attraverso la formazione continua in servizio, la dimensione collegiale del lavoro e il coordinamento pedagogico territoriale.

Per la prima volta, attraverso tale decreto, viene legittimato che sono proprio le primissime esperienze dei bambini quelle che gettano le basi per ogni forma di apprendimento ulteriore.

Viene deliberato non solo culturalmente ma anche giuridicamente che la formazione, per offrire a tutti la possibilità di partecipare attivamente al mondo sociale, culturale e professionale, deve partire dai primi giorni di vita del bambino e lavorare sia sulle componenti logico-razionali del suo sviluppo che su quelle emotive e affettive, attivando un processo che si svolge in una serie di apprendimenti, progetti e verifiche successive.

Per realizzare tutto ciò, l’altro aspetto qualificante di tale decreto è l’art. 14, comma 3, in cui viene precisato che a decorrere dall’anno scolastico 2019/2020 l’accesso ai posti di educatore di servizi educativi per l’infanzia è consentito esclusivamente a coloro che sono in possesso della laurea triennale in Scienze dell’educazione nella classe L.19 a indirizzo specifico per educatori dei servizi per l’infanzia.

Con chiara consapevolezza pedagogica, attraverso questo articolo viene deliberato che, la formazione di coloro che, in qualità di care giver e dunque di educatori, devono supportare lo sviluppo di tali soggetti, deve essere acquisita secondo un ben definito percorso universitario. Un corso di laurea che già da anni la pedagogia realizza convinta che solo operatori competenti possono rispondere agli autentici bisogni di sviluppo di tutti i soggetti a partire dai primi giorni di vita.

Questo decreto, oggi in forma già attuativa, anticipa e supporta in parte la proposta di legge Iori 2656 (oggi in senato 2443) che ha nel suo impianto il riconoscimento giuridico di tutti gli educatori sociopedagogici laureati nei corsi di laurea L-19 triennali e tra cui anche quella di educatore per l’infanzia. Un riconoscimento che oggi non può più essere disatteso.

Politiche d’inclusione: D. Lgs. 66/2017: un’occasione mancata?

Aspetti critici da risolvere in quarant’anni di integrazione scolastica

Degli otto decreti attuativi della Legge “La Buona Scuola”, il D. Lgs. 66/2017, recante “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità” (articolo 1, commi 180 e 181, lettera c, legge 13 luglio 2015, n. 107), è senza dubbio uno dei più controversi. Lo stesso iter di approvazione del provvedimento, dallo “schema” legislativo fino alla stesura definitiva, è stato oggetto di dibattiti anche accesi.

In effetti, se da una parte erano molte le aspettative che hanno portato alla stesura del D. Lgs. 17 aprile 2017, n. 66, dall’altra questo provvedimento è stato letto da alcuni come foriero di una involuzione del processo inclusivo che ha avuto avvio in Italia sin dai primi anni ’70, grazie ad una legislazione all’avanguardia in Europa (basti pensare alla Legge 517/1977 e alla Legge Quadro 104/1992). Non va infatti dimenticato che da almeno quarant’anni la scelta dell’integrazione è stata fatta propria dall’opinione pubblica italiana e la scuola è certamente in prima linea in questa consapevolezza culturale.

Il testo del decreto definitivamente approvato recepisce solo parzialmente i rilievi che sono stati fatti e, nel suo complesso, si rivela di problematica applicazione. L’intervento riformatore varato dalla Legge “La Buona Scuola” risponde, ad ogni modo, al bisogno di ridare nuova linfa a un processo in crisi e all’esigenza di risolvere alcune criticità, inefficienze e “cattive prassi” che hanno caratterizzato nel tempo l’esperienza di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, come la scarsa formazione dei docenti curricolari – e talvolta anche di quelli specializzati per il sostegno – , la loro deresponsabilizzazione e la tendenza a delegare al solo docente di sostegno, vissuto come insegnante “speciale”, la gestione dell’intervento didattico nei confronti degli alunni con disabilità, il più delle volte scarsamente integrati nel contesto del gruppo-classe; per non parlare della prassi dei cd. trattenimenti “maturativi” o delle “bocciature strumentali”.

Tra gli ulteriori aspetti critici, che coinvolgono tutte le fasi del modello di integrazione definito dalla L. 104/1992, vanno annoverati:

  • l’approccio, ancora prevalentemente medico e clinico, al fenomeno della disabilità intesa come uno stato di invalidità che necessita di una certificazione per essere meritevole di tutela e riconoscimento da parte delle istituzioni a ciò preposte (in primis la scuola, ma anche l’ASL e l’ente locale di riferimento, ossia il Comune);
  • la tendenza a tener distinti e separati il ruolo del soggetto certificatore (in precedenza l’ASL, ora l’INPS) e quello dell’ente (Amministrazione scolastica) responsabile dell’assegnazione delle risorse professionali al sostegno;
  • l’eccessiva mobilità degli insegnanti di sostegno, il cui incarico, di anno in anno, dipende dal numero degli studenti con disabilità iscritti a scuola (ed è inoltre connesso alla tipologia di deficit e alla sua gravità);
  • la scarsità delle risorse specializzate, dovuta soprattutto all’inadeguatezza della preparazione professionale degli insegnanti curricolari, per lo più totalmente digiuni della formazione di base nella didattica speciale;
  • lo scarso coinvolgimento delle famiglie, per la strutturale carenza di informazioni circa le reti di servizi e le risorse disponibili per il sostegno;
  • le limitate e insufficienti iniziative di orientamento professionale sino ad ora rivolte agli alunni con disabilità.

Le risposte del nuovo decreto per rilanciare l’inclusione: un passo in avanti o una battuta d’arresto?

Il decreto attuativo della delega potrà cambiare questo complesso stato di fatto? E’ ancora presto per dirlo, tenuto anche conto del fatto che è stata prevista dal Legislatore una gradualità degli interventi, per consentire l’adozione dei necessari provvedimenti attuativi e per assicurare idonee misure di accompagnamento.

L’assetto complessivo (con particolare riferimento alle innovazioni introdotte in materia di certificazione e quantificazione delle risorse per il sostegno didattico), entrerà infatti a regime dal 1° gennaio 2019.  Senza dubbio, però, sin da una prima lettura dell’articolato è possibile comprendere che il decreto 66/2017, nel presentarsi come un piccolo testo unico che ambisce a regolamentare le politiche dell’integrazione, cerca di dare una soluzione organica ed esaustiva ai numerosi motivi di insoddisfazione per la scarsa qualità delle pratiche inclusive emersi negli ultimi anni.

L’obiettivo principale dell’intervento riformatore avviato con la “Buona Scuola”, nelle intenzioni del MIUR, è infatti quello di rilanciare l’inclusione scolastica e di rafforzare il concetto di “scuola inclusiva”, come emerge nell’enunciazione dei principi e delle finalità del provvedimento enucleati nell’art. 1. Ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. a), “l’inclusione scolastica… si realizza attraverso strategie educative e didattiche finalizzate allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno nel rispetto del diritto all’autodeterminazione e all’accomodamento ragionevole, nella prospettiva della migliore qualità di vita”.

Tale obiettivo va perseguito attraverso il rinnovamento delle politiche per l’inclusione scolastica e la promozione di una più incisiva partecipazione delle famiglie e delle associazioni di riferimento, quali interlocutori principali dei processi di inclusione nel contesto scolastico e sociale (art. 1, co.2).

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione (art. 2), va però osservato che l’intervento del provvedimento è circoscritto alle sole disabilità certificate: esso infatti si applica esclusivamente agli allievi di tutti gli ordini e gradi scolastici (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di 2° grado) con disabilità certificata ai sensi dell’art. 3 della L. 104/1992, al fine di promuovere e garantire loro il diritto all’educazione, all’istruzione e alla formazione.

Il decreto legislativo 66/2017 risponde quindi a una precisa scelta di politica “inclusiva”, volta ad escludere – mi si passi il gioco di parole ma tale scelta, di per sé, potrebbe sembrare paradossale, trattandosi di un provvedimento finalizzato al rilancio dell’inclusione scolastica – dall’ambito di applicazione della riforma le ulteriori categorie degli alunni certificati con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) o con BES (bisogni educativi speciali): vale a dire tutta quell’ampia casistica di alunni che, a causa di deficit, carenze o disturbi di diversa natura, hanno difficoltà a seguire il percorso curricolare di classe senza aiuti supplementari e rischiano di rimanere ai margini dei processi di apprendimento e di partecipazione.

Sarebbe quindi stato auspicabile che la riforma della “Buona Scuola” proponesse una normativa più complessa e articolata, che tenesse conto anche di questi soggetti deboli che, in passato, hanno ottenuto visibilità e tutela giuridica in seguito all’emanazione della legge 8 ottobre 2010, n. 170 e alla pubblicazione delle Linee Guida del 27 dicembre 2012 (direttiva sui BES).

Il provvedimento invece, ponendosi entro i ristretti confini imposti dalla legge delega 107/2015, sembra concentrarsi su alcune garanzie ormai consolidate nella logica del “sostegno” agli studenti disabili in senso tradizionale, mettendo a sistema tutti i principali interventi a sostegno dell’inclusione scolastica, come i servizi di assistenza e l’utilizzazione delle risorse professionali, finanziarie e strumentali disponibili, la certificazione funzionale e la previsione di figure professionali specializzate, di cui si cerca di salvaguardare una continuità di presenza e di intervento.

Nel complesso, dunque, il decreto legislativo 66/2017 parrebbe segnare una battuta d’arresto rispetto alla normativa in materia di DSA e BES e, al tempo stesso, sviluppare e regolamentare aspetti già previsti dalla Legge quadro (L. 104/1992), pur valorizzando la cultura inclusiva relativa ai disabili così come si è andata evolvendo nel tempo (quanto meno a partire dagli anni Novanta) alla luce della normativa sull’autonomia e sul decentramento e armonizzando le politiche per l’inclusione messe in campo da tutti gli attori istituzionali coinvolti.

L’obiettivo complessivo del nuovo decreto è infatti il tentativo di migliorare la qualità dell’integrazione scolastica, attraverso il coordinamento delle numerose norme che si sono succedute – a volte disordinatamente – nel corso degli anni. In effetti, più che puntare sugli elementi di novità, che comunque sono significativi (come l’introduzione dell’ICF e i nuovi percorsi di formazione dei docenti specializzati), prevale l’idea che, con il provvedimento in questione, il Legislatore voglia dare una sistemazione organica a elementi spesso frammentari e scarsamente coordinati tra loro.

I punti di forza e le principali novità introdotte dal decreto.

Senza avere la pretesa di esaminare in modo analitico il provvedimento (non essendo questa la sede più opportuna, per esigenze di brevità), vale però la pena, a questo punto, mettere sinteticamente in luce alcuni contenuti innovativi dell’articolato, per coglierne tutte le possibili opportunità e i futuri sviluppi applicativi.

  1. Stato, Scuola, Regioni, Enti locali: a chi spetterà cosa?

Il primo aspetto innovativo è dato proprio dalla puntuale definizione dei compiti spettanti a ciascun attore istituzionale (Stato, Regioni, Istituzioni Scolastiche ed Enti locali). A norma dell’art. 3 del D. Lgs. 66/2017 (Prestazioni e competenze), le prestazioni e i servizi necessari per garantire l’inclusione scolastica sono assicurati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti Locali e le competenze in materia di inclusione degli alunni disabili vengono ripartite nel seguente modo.

Lo Stato provvede, per il tramite dell’Amministrazione Scolastica:

  • all’assegnazione nella scuola statale dei docenti per il sostegno didattico;
  • all’assegnazione dei collaboratori scolastici nella scuola statale, anche per lo svolgimento dei compiti di assistenza previsti dal profilo professionale;
  • alla definizione dell’organico del personale ATA, tenendo conto, tra i criteri per il riparto delle risorse professionali, della presenza di alunni e di studenti con disabilità certificata presso ciascuna istituzione scolastica statale;
  • all’assegnazione alle istituzioni scolastiche di un contributo economico, parametrato al numero degli alunni e studenti disabili rispetto al numero complessivo degli alunni frequentanti;
  • alla costituzione delle sezioni per la scuola dell’infanzia e delle classi prime per ciascun grado di istruzione, in modo da consentire, di norma, la presenza di non più di 22 allievi ove siano presenti studenti con disabilità certificata, fermo restando il numero minimo di alunni o studenti per classe, ai sensi della normativa vigente.

Gli Enti Locali, nei limiti delle risorse disponibili, assicurano:

  • l’assegnazione del personale dedicato all’assistenza educativa e all’assistenza per l’autonomia e per la comunicazione personale, in coerenza con le mansioni dei collaboratori scolastici;
  • i servizi per il trasporto per l’inclusione scolastica;
  • l’accessibilità e la fruibilità degli spazi fisici delle istituzioni scolastiche statali previsti dall’articolo 8, comma 1, lettera c), della legge 104/1992 e dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23/1996.

Lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali garantiscono l’accessibilità e la fruibilità dei sussidi didattici, degli strumenti tecnologici e digitali necessari a supporto dell’inclusione scolastica agli alunni e agli studenti con disabilità.

  1. Il ruolo determinante dell’INVALSI nell’individuare gli indicatori per la valutazione della qualità del delicato processo relativo all’inclusione scolastica.

Un altro aspetto significativo, che senza dubbio rappresenta una delle principali novità della riforma, è rappresentato dall’introduzione nel processo di valutazione delle istituzioni scolastiche di quello che viene definito il “livello di inclusività” – vale a dire la misurazione della qualità dell’inclusione scolastica – raggiunto da ciascuna istituzione scolastica.

Grazie alla riforma, quindi, la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica diventa parte incisiva del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche. Ogni scuola deve infatti predisporre, nell’ambito del PTOF, un Piano specifico per l’Inclusione (PI), per il quale vengono definiti dalla legge contenuti e modalità attuative (art. 8) e che rappresenta il principale documento programmatico e operativo in materia di inclusione.

Il Piano per l’Inclusione è quindi parte integrante del Piano Triennale dell’Offerta Formativa e definisce l’utilizzo integrato delle risorse (strumentali, professionali, progettuali) per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni disabili: aspetto, questo, che entra così a pieno titolo nei processi di valutazione delle scuole. L’art. 4 del provvedimento, avente ad oggetto la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, stabilisce infatti che la valutazione del “livello di inclusività” è parte integrante del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche previsto dall’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80 (“Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione”).

Ogni scuola è quindi tenuta ad inserire nel proprio rapporto di autovalutazione (RAV) una serie di descrittori rispetto ai quali esprimere un posizionamento autovalutativo, nonché ipotesi di miglioramento, in riferimento “livello di inclusività” raggiunto.

Nella valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, come stabilisce l’art. 4, co. 2, un ruolo determinante spetta all’INVALSI che, in fase di predisposizione dei protocolli di valutazione e dei quadri di riferimento dei rapporti di autovalutazione, ha l’importante compito di definire gli specifici indicatori di inclusività sui principali aspetti dell’integrazione, di carattere organizzativo, didattico e professionale, sulla base dei seguenti criteri:

  1. livello di inclusività del Piano Triennale dell’Offerta Formativa come concretizzato nel Piano per l’inclusione scolastica;
  2. realizzazione di percorsi per la personalizzazione, individualizzazione e differenziazione dei processi di educazione, istruzione e formazione, definiti ed attivati dalla scuola, in funzione delle caratteristiche specifiche delle bambine e dei bambini, delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti;
  3. livello di coinvolgimento dei diversi soggetti nell’elaborazione del Piano per l’inclusione e nell’attuazione dei processi di inclusione;
  4. realizzazione di iniziative finalizzate alla valorizzazione delle competenze professionali del personale della scuola, incluse le specifiche attività formative;
  5. utilizzo di strumenti e criteri condivisi per la valutazione dei risultati di apprendimento delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, anche attraverso il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione;
  6. grado di accessibilità e di fruibilità delle risorse, attrezzature, strutture e spazi, in particolare, dei libri di testo adottati e dei programmi gestionali utilizzati dalla scuola.

Di questi criteri le istituzioni scolastiche dovranno tener conto nell’ambito dei processi di autovalutazione e di valutazione di sistema (SNV). Gli indicatori utilizzati per la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica vengono definiti dall’INVALSI in collaborazione con l’Osservatorio Permanente per l’Inclusione Scolastica, istituito presso il MIUR (art. 15), con compiti di analisi, monitoraggio, proposte di sperimentazione, pareri. Presieduto dal Ministro o da un suo delegato, questo nuovo organismo è composto da rappresentanti delle Associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative sul territorio nazionale nel campo dell’inclusione scolastica, da studenti e da altri soggetti pubblici e privati, comprese le istituzioni scolastiche, nominati dal MIUR.

In merito alla misurazione della qualità dell’integrazione scolastica e alla valutazione del “livello di inclusività”, è però necessario sviluppare alcune ulteriori considerazioni. Appare infatti particolarmente degna di nota l’attenzione alle scelte della scuola in materia di inclusione degli alunni con disabilità e alla centralità del progetto inclusivo delle singole istituzioni scolastiche che, grazie alla riforma della “Buona Scuola”, diventa parte integrante nella valutazione di sistema.

Se, come si è già detto, l’obiettivo complessivo del nuovo decreto è il tentativo di migliorare la qualità dell’integrazione scolastica, la chiave di volta dell’impalcatura della “scuola inclusiva”, o meglio la “cartina di tornasole” del raggiungimento di un buon livello di inclusività è senza dubbio rappresentata dal rafforzamento dei sistemi di monitoraggio e valutazione dell’integrazione.

Occorre però considerare che la qualità dell’inclusione è, di per sé, un fenomeno di difficile misurazione quantitativa e che quindi un sistema di indicatori oggettivi che si affidi a benchmark quantitativi, a procedure valutative eccessivamente performative o a graduatorie tra istituzioni scolastiche in senso meramente comparativo, difficilmente potrà rappresentare uno strumento efficace per la misurazione e la valutazione di un sistema inclusivo che, all’opposto, implica la mobilitazione dal basso di risorse professionali e organizzative interne ed esterne, in un clima collaborativo e in un contesto di condivisione di valori basato soprattutto sul senso di appartenenza a una comunità educante ed inclusiva, sull’accoglienza, sulla promozione delle relazioni umane, sull’aiuto reciproco e sul sentimento di solidarietà.

Solo se si sarà in grado di coltivare e sviluppare un contesto del genere, la scuola potrà dirsi veramente “inclusiva”, ossia efficace per tutti e mirante al successo formativo degli allievi, nessuno escluso.

  1. Il nuovo iter dell’inclusione scolastica e la nuova documentazione: il Profilo di Funzionamento.

Importanti novità riguardano anche il percorso dell’inclusione e i documenti di riferimento. Il D. Lgs. 66/2017 infatti incrementa ulteriormente la qualificazione professionale specifica delle commissioni mediche preposte alla certificazione della disabilità, introduce una nuova e più articolata procedura per il sostegno didattico, in vista della redazione del Profilo di Funzionamento (PdF), e definisce una nuova dimensione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), che a sua volta diverrà parte integrante del Progetto Individuale (di competenza del Comune), aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione.

Si ricordi che alcune tra le maggiori novità del decreto – quelle che riguardano, nello specifico, la costituzione delle commissioni mediche per il riconoscimento della disabilità in età evolutiva e l’adozione del Profilo di Funzionamento, e che si intende in questa sede prendere conclusivamente in considerazione – entreranno in vigore dal 1° gennaio 2019.

Con alcune modifiche all’art. 4 della legge n.104 del 1992 (procedure per la certificazione dell’handicap), l’art. 5 del D. Lgs. 66/2017 disciplina un nuovo assetto delle commissioni mediche per il riconoscimento della disabilità in età evolutiva, istituite presso l’INPS, prevedendo che, nei casi di persone in età evolutiva, le stesse siano composte da: un medico specialista in medicina legale, con funzioni di presidente; due medici specialisti (in pediatria, in neuropsichiatria infantile  o nella specializzazione inerente la condizione di salute del soggetto); un assistente specialistico o operatore sociale, individuati dall’ente locale; un medico dell’INPS. La commissione medica decide sul diritto al sostegno didattico, sulla base di una richiesta che la famiglia rivolge all’INPS attraverso il proprio medico di base o pediatra. L’INPS è tenuto a dare riscontro entro e non oltre 30 giorni.

Per quanto riguarda il nuovo iter procedurale previsto del decreto, la procedura di certificazione e documentazione per l’inclusione prevede quindi le seguenti tappe:

  1. Innanzi tutto, i genitori (o chi ne esercita la responsabilità) fanno domanda di accertamento della disabilità in età evolutiva all’INPS.
  2. La Commissione Medica rilascia la certificazione di disabilità.
  3. I genitori trasmettono la certificazione di disabilità:
  • all’Unità (o équipe) di valutazione multidisciplinare, ai fini della predisposizione del PROFILO DI FUNZIONAMENTO (art. 5, c. 5), ai fini della formulazione del Progetto Individuale e del PEI (Piano Educativo Individualizzato);
  • all’ente locale competente (Comune) ai fini della predisposizione del PROGETTO INDIVIDUALE (il quale, per essere attivato, necessita di una formale richiesta da parte dei genitori del disabile);
  • all’Istituzione Scolastica, ai fini della predisposizione del PEI.

L’unità di valutazione multidisciplinare è a sua volta composta da: un medico specialista o un esperto della condizione di salute della persona; uno specialista in neuropsichiatria infantile; un terapista della riabilitazione; un assistente sociale o un rappresentante dell’Ente locale di competenza che ha in carico il soggetto.

Se la procedura, di per sé, non è stata innovata ma confermata dal decreto 66/2017 (pur con la modificazione della composizione dell’equipe multidisciplinare), un cambiamento radicale si ha invece in materia di Diagnosi Funzionale.

Il Profilo di Funzionamento (PdF), che deve essere redatto successivamente all’individuazione e alla certificazione della condizione di disabilità ad opera della Commissione medica dell’INPS, a far data dal 1 gennaio 2019 (art. 19, c. 1 e 2), sostituirà e accorperà in un unico documento la Diagnosi funzionale e il Profilo dinamico funzionale (art. 5, c. 2 sgg., del D. Lgs. 66/2017, che modifica il comma 5 dell’art. 12 della legge n. 104/1992): supporti documentali, questi ultimi, che attualmente definiscono la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica di cui lo studente ha bisogno per una piena integrazione e che rappresentano documenti essenziali per l’elaborazione del PEI e del Progetto individuale.

Va ricordato che la Diagnosi Funzionale è una certificazione di esclusiva competenza clinica: costituisce infatti una descrizione del funzionamento dell’alunno con disabilità nei diversi settori di sviluppo, con indicazioni rispetto alle potenzialità e ai deficit, all’evoluzione attesa, all’eventuale esigenza di attribuire un educatore ad personam (per le autonomie, la comunicazione, le relazioni sociali…).

Il Profilo Dinamico Funzionale è invece un documento la cui redazione coinvolge diverse ed eterogenee competenze professionali, dato che è elaborato da servizi clinici e dai docenti del Team/Consiglio di classe, in sinergia con i genitori, e ha lo scopo di sintetizzare i dati raccolti – a partire dalla Diagnosi Funzionale, dalle osservazioni sistematiche dei docenti, dalle informazioni dei genitori – facendoli confluire in un “profilo” complessivo dell’alunno, da cui partire per elaborare la progettazione didattico-educativa (P.E.I.).

Il Profilo Dinamico Funzionare era disciplinato dalla Legge Quadro N.104/92 e dal DPR 24 febbraio 1994 (atto di indirizzo), che così recitava: “Il profilo dinamico funzionale indica le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell’alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona”.

Rispetto alla previgente documentazione, la previsione normativa relativa al nuovo Profilo di Funzionamento rappresenta una vera e propria “rivoluzione copernicana” in materia di inclusione degli studenti con disabilità, non tanto e non solo per l’organismo legittimato a redigerlo, quanto, se non soprattutto, per i criteri che ne informano la redazione e per il nuovo modello bio-psico-sociale che ne rappresenta il punto di riferimento fondamentale.

Il nuovo documento è redatto a cura dell’Unità di valutazione multidisciplinare (già prevista dall’art. 3, c. 2, dell’Atto di indirizzo, emanato con D.P.R. 24 febbraio 1994), a forte componente medico-sanitaria, con la collaborazione della famiglia dell’alunno disabile, e vede la partecipazione di un rappresentante dell’amministrazione scolastica, individuato preferibilmente tra i docenti della scuola frequentata.

Propedeutico per la predisposizione del Progetto Individuale e del PEI, tale documento definisce le competenze professionali e la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica ed è aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione, a partire dalla scuola dell’infanzia, nonché in presenza di nuove e sopravvenute condizioni di funzionamento della persona.

In estrema sintesi, il Profilo di Funzionamento contiene la descrizione funzionale dell’alunno in relazione alle difficoltà che dimostra di incontrare e l’analisi dello sviluppo potenziale a breve e medio termine, desunto dall’esame di una serie di criteri e parametri di funzionamento, così come definiti dal modello I.C.F. (International Classification of Functioning) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

A tale riguardo, l’aspetto senza dubbio più innovativo e significativo del progetto di inclusione introdotto dal D. Lgs. 66/2017 consiste proprio nella scelta di adottare come riferimento per la redazione del Profilo di Funzionamento dell’alunno disabile il modello bio-psico-sociale della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della salute (ICF), adottata dall’OMS. Tale classificazione, che fa riferimento agli standard internazionali dell’ICD (International Classification of Diseases), è stata introdotta dall’OMS sin dal 2001, ma in Italia è stata applicata in modo generalizzato solo a partire dal 2006.

In effetti, sia a livello clinico che sotto il profilo didattico, questo modello di classificazione del funzionamento della disabilità e della salute è tuttora poco conosciuto: esso si basa su un criterio di analisi che prende in considerazione un “continuum” di riferimento, senza soluzioni di continuità tra “normalità” e “patologia”, in relazione al quale ogni persona ha un suo “funzionamento” che dipende sia dalle sue condizioni personali (il suo stato di salute, la sua condizione di benessere, gli effetti della sua malattia) sia dai contesti di vita e di relazione (sociale, familiare, lavorativo) in cui si trova a vivere e a operare.

Ed è proprio la combinazione, che varia da soggetto a soggetto, tra le condizioni personali e il contesto ambientale ed esistenziale a determinare il cd. “profilo di funzionamento”. Dato che ogni persona ha un suo specifico e peculiare “funzionamento”, non è quindi più possibile – se mai lo è stato – determinare un confine netto e rigido tra la “normalità” e la “patologia”.

Tutte le condizioni biologiche e psicologiche che caratterizzano il “funzionamento” degli individui sono quindi ricomprese in uno spettro molto ampio e diversificato, in un “continuum” dove la condizione di ciascun soggetto trova una sua collocazione a seconda delle sue caratteristiche personali e di quelle del contesto in cui si trova a vivere. Il Profilo di Funzionamento rappresenta quindi una sorta di screening delle condizioni della persona (di qualsivoglia persona, non solo del soggetto disabile) e del suo modo di “funzionare”.

Considerando la disabilità come un fenomeno che non solo va analizzato sotto un profilo eziologico-medicale ma anche, se non soprattutto, inserito in un contesto biologico, esistenziale e sociale in cui entrano in gioco molteplici fattori inerenti le caratteristiche del soggetto, le sue capacità residue, il suo benessere, ma anche il suo ambiente di vita, le sue relazioni, le sue potenzialità di crescita, il profilo di funzionamento diventa dunque il nuovo documento “dinamico” da cui prende avvio non solo la progettazione dell’intervento educativo che sfocerà nell’elaborazione e condivisione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), ma anche un “progetto individuale” in cui far confluire i diversi momenti della vita di una persona disabile (i trattamenti terapeutici e riabilitativi, il tempo libero, l’inserimento lavorativo, la vita sociale, ecc.).

Sotto questo profilo, la riforma voluta della “Buona Scuola” rappresenta senza dubbio una sfida alla piena realizzazione di una scuola inclusiva: l’adozione del nuovo Profilo di Funzionamento non potrà infatti risolversi in un mero adempimento burocratico e amministrativo ma, per essere coerente con l’idea di piena inclusione e con il riconoscimento in positivo della diversità auspicati dalla L. 107/2015, dovrà tradursi in uno strumento operativo che concorra ad attuare un intervento educativo efficace, di tipo olistico e proattivo, in grado di incidere concretamente e positivamente sul livello di human functioning dell’alunno disabile, sostenendolo nel suo personale percorso di crescita esistenziale e di sviluppo cognitivo e favorendone in concreto la libertà di espressione nel contesto esistenziale e sociale in cui vive, a partire da un ambiente scolastico accogliente e inclusivo a tutti gli effetti.

Questo nuovo percorso richiederà, ovviamente, anche adeguati interventi di formazione e di preparazione delle diverse professionalità chiamate a elaborare il Profilo di Funzionamento e del personale scolastico (docenti curricolari e di sostegno) che lo dovrà rendere operativo trasfondendolo nel P.E.I.  A tale proposito, in conclusione, sembrano particolarmente significative e illuminanti le seguenti osservazioni: «Non si può delegare la Diagnosi funzionale esclusivamente ai tecnici specialisti, con l’aspettativa illusoria che essi forniscano agli insegnanti un “distillato” prodigioso di conoscenze e di linee operative, miracolosamente capace di metterli in condizione di lavorare adeguatamente risolvendo ogni dubbio e difficoltà.

La conoscenza approfondita della situazione dell’alunno, l’esplorazione delle sue capacità, dei suoi deficit e delle varie cause che portano a questa situazione devono coinvolgere una gamma molto ampia di persone e professionalità che, naturalmente, si pongono da prospettive e con metodologie di valutazione diverse, necessariamente da integrare e completare a vicenda».

Bisogni educativi speciali ed inclusione scolastica

Introduzione

Il 27 dicembre 2012 è stata diramata la Direttiva concernente gli “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”, che delinea e precisa la strategia inclusiva della scuola italiana, al fine di realizzare il diritto all’apprendimento per tutti gli studenti in situazione di difficoltà e disagio.

Con la C.M. n. 8 del 6 marzo 2013 sono state, poi, diramate le “Indicazioni operative”.

La nuova Direttiva ministeriale definisce le linee del cambiamento per rafforzare il paradigma inclusivo attraverso

  • Potenziamento della cultura dell’inclusione
  • Approfondimento delle competenze di politiche di inclusione per gli insegnanti curricolari
  • Nuovo modello organizzativo nella gestione del processo di integrazione scolastica e di presa in carico dei BES da parte dei docenti (PDP).

A partire da queste indicazioni generali, tentiamo un’analisi più attenta sull’attuale situazione in cui versano diverse istituzioni scolastiche alle prese con emergenti problematiche, relative a situazioni di disagio che i bambini portano con sé e che richiedono una particolare attenzione nonché un supporto positivo affinché si possano superare con professionalità e vero senso di umanità.

I “BES” chi sono?

Con l’abbreviazione BES si fa riferimento ai Bisogni Educativi Speciali, in modo particolare, a tutti quegli alunni che presentano delle difficoltà che prevedono interventi individualizzati. Il termine “speciale”, soprattutto quando ci si riferisce alla disabilità, potrebbe far pensare a qualcosa di diverso dal cosiddetto “normale”, per questo motivo riconducibile a qualcosa di negativo, che ha bisogno di sostegno, a qualcosa che non sembra essere nella norma e che presenta qualche aspetto deficitario.

Considerando il rovescio della medaglia, potremmo, però, reputare “speciale” tutto ciò che ha bisogno di competenze e risorse migliori, più efficaci, speciali appunto. In linea di massima questi risultano essere i diversi bisogni fondamentali:

  • Difficoltà di apprendimento: DSA, deficit attentivo con o senza iperattività, disturbi di comprensione, difficoltà visivo-spaziali, motorie, goffaggine.
  • Difficoltà emozionali: timidezza, collera, ansia, inibizione, depressione, disturbi della personalità, psicosi.
  • Difficoltà comportamentali: aggressività, bullismo, disturbi del comportamento alimentare, disturbi della condotta, oppositività, delinquenza, uso di droghe.
  • Ambito relazionale: isolamento, passività, eccessiva dipendenza.
  • Ambito familiare: famiglie disgregate, in conflitto, trascuranti, con episodi di abuso, maltrattamento, con esperienze di lutto o carcerazione. Difficoltà sociali, economiche, culturali, linguistiche.

Proprio in questa prospettiva si colloca il pensiero di Dario Ianes, secondo il quale i normali bisogni educativi che tutti gli alunni esprimono (bisogno di sviluppare competenze, bisogno di appartenenza, di identità, di accettazione, ecc.) si “arricchiscono” nella persona disabile, o comunque con difficoltà di apprendimento, di qualcosa di particolare, ossia di speciale. Avere Bisogni Educativi Speciali non significa necessariamente avere una diagnosi medica e/o psicologica, ma, come si accennava sopra, essere in una situazione di difficoltà o disagio e ricorrere ad un intervento mirato, personalizzato.

Rispetto alla diagnosi di una malattia la valutazione dei “Bisogni Educativi Speciali” non deve essere dunque discriminante per tre motivi fondamentali: anzitutto fa riferimento ad un’ampia gamma di bisogni, poi non riguarda solo cause specifiche e infine indica che il bisogno o i bisogni non sono stabili e fissi nel tempo, ma possono venire meno o addirittura essere superati.

Si potrebbe dire che questo concetto riguarda ciascuno di noi perché chiunque potrebbe incontrare nella propria vita situazioni che gli creano Bisogni Educativi Speciali: per tale motivo è doveroso rispondere in modo serio e adeguato a questo recente problema che attualmente riguarda una percentuale del 10-15 % degli alunni che non possiedono una certificazione medica, ma che necessitano di attenzione e di interventi mirati. Nelle scuole vivono sia alunni con Bisogni Educativi Speciali con diagnosi psicologica e/o medica sia alunni con Bisogni Educativi Speciali senza diagnosi.

Nel primo caso le categorie diagnostiche si riferiscono al DSM-IV e all’ICD-10. Vi rientrano il ritardo mentale, i disturbi generalizzati dello sviluppo, il disturbo artistico, i disturbi dell’apprendimento, i disturbi di sviluppo della lettura, i disturbi di sviluppo del calcolo, i disturbi di sviluppo dell’espressione scritta, i disturbi di sviluppo dell’articolazione della parola, i disturbi di sviluppo del linguaggio espressivo, i disturbi di sviluppo nella comprensione del linguaggio, i disturbi del comportamento, i disturbi da deficit di attenzione e iperattività, i disturbi della condotta, il disturbo oppositivo-provocatorio e infine vi sono le patologie che riguardano la motricità, quelle sensoriali, neurologiche o riferibili ad altri disturbi organici.

Nel secondo caso, invece, rientrano tutti quegli alunni che non corrispondono perfettamente ai parametri sopra citati, perché la loro situazione pare meno precisa e più sfumata. Questa tipologia di alunni è però presente e abita la scuola anche in modo piuttosto considerevole.

Una scuola più inclusiva

Questa tipologia di alunni che vive nella scuola rappresenta l’immagine speculare di come la società sia diventata multi-etnica e multi-culturale. È diventato normale incontrare e convivere con persone di nazionalità, lingue e culture diverse; da parte sua la scuola dell’obbligo accoglie studenti con esperienze, disagi, difficoltà diverse, a cui è necessario offrire delle risposte personalizzate. Inoltre il mondo, le persone, i bambini e i ragazzi stanno modificando i loro stili di apprendimento, di gestione delle informazioni grazie alle nuove tecnologie e di conseguenza il mondo del lavoro, delle relazioni interpersonali si è modificato.

Il termine inclusione rappresenta un vero e proprio modello relazionale, portatore di un cambiamento radicale e importante. Includere significa inserire, portare dentro la scuola tutte le nuove realtà e i bisogni espressi e presenti nella nuova realtà sociale e di vita del mondo, dell’Italia, del Comune, del quartiere, del territorio.

Inclusione significa dunque che la scuola nel suo modello organizzativo e di programmazione, è chiamata a considerare seriamente queste realtà e situazioni di vita. Di fronte a tale sfida educativa, i docenti possono avere a disposizione strumenti, metodologie e strategie adeguate per rilevare queste realtà, per impostare il piano di lavoro e per attuare il processo di inclusione.

I docenti, nell’organizzare le attività scolastiche, dovranno tener conto di alcune fondamentali strategie: saper osservare e valutare con attenzione gli alunni di ogni classe, tramite l’ausilio di specifici e scientifici strumenti di osservazione. Possedere anche una conoscenza approfondita del territorio di residenza degli alunni che frequentano la scuola.

La differenza tra inclusione ed integrazione

Più che parlare di differenza sarebbe meglio considerare il passaggio da integrazione a inclusione che si basa non certamente sulla misurazione della distanza da normalità/standard, ma sul processo di piena partecipazione e sul concetto di equità.

Per fare questo occorre ampliare il proprio campo visuale in quanto l’inclusione richiede una maggiore considerazione delle differenze al plurale e quindi degli alunni e della classe in cui si opera. L’intervento inclusivo avrà il compito di rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo e l’equo apprendimento. La scuola inclusiva pertanto promuove l’apprendimento di tutti gli alunni e non si limita alla semplice accoglienza e inserimento di casi particolari, come potrebbe significare l’integrazione in senso semplicistico, ma spesso reale.

Alla luce di queste considerazioni, i nuclei in cui si concentrano le differenze tra il modello dell’integrazione e quello dell’inclusione, risultano i seguenti:

  • La risorsa fondamentale su cui si regge il modello dell’integrazione è la figura dell’insegnante di sostegno. Per quanto la normativa stabilisca che si tratti di risorsa finalizzata a promuovere differenziati processi di integrazione rivolti alla classe, ancora oggi tale figura professionale viene considerata e vissuta come “l’insegnante dell’alunno certificato”. Nella scuola inclusiva, viceversa, si offre la garanzia che tutti gli insegnanti siano ben formati e si sentano in grado di prendersi la responsabilità di tutti gli studenti, qualunque siano le loro esigenze personali;
  • La normativa in materia d’integrazione prevede che la risorsa “insegnante di sostegno” sia resa disponibile alla scuola solo nei casi in cui è presente in classe almeno un alunno con “certificazione di handicap”. Nella scuola inclusiva, la risorsa dell’insegnante specializzato viene concepita come risorsa di sistema. Dal rapporto di studio dal titolo “Organizzazione del Sostegno per gli Insegnanti che Lavorano con i Bisogni Speciali nell’Educazione Comune”, emerge la necessità che il sostegno non vada solamente centrato sull’alunno in quanto richiede di essere indirizzato anche agli insegnanti curriculari con l’obiettivo di aiutarli a migliorare specifiche abilità di trattamento e gestione dei bisogni educativi speciali presenti nelle classi.

La distinzione tra insegnanti “ordinari” (senza una formazione specifica sui temi dell’inclusione) e insegnanti “specializzati” (con titolo di specializzazione per il sostegno) ha generato nell’ambito del contesto classe inevitabilmente la divisione tra alunni “normali” e alunni cosiddetti “speciali”.

Di fatto, la realtà risulta assai più complessa e variegata, soprattutto se si guarda al mondo della scuola oggi. Qui ci si rende conto, quasi come un gioco di parole, che gli alunni speciali hanno anche bisogni normali e che anche gli alunni normali possono avere bisogni educativi speciali. Non considerare tale condizione porta a credere che anche le soluzioni ai problemi possano seguire la medesima logica, ovvero per gli alunni speciali soluzioni straordinarie, mentre per gli alunni normali soluzioni ordinarie.

La logica dell’inclusione richiede di transitare dall’idea di una scuola che incarna un sistema duale unificato (nella stessa classe convivono senza interazioni reciproche la programmazione disciplinare di classe e il Piano Educativo Individualizzato per l’allievo/gli allievi in difficoltà), all’idea di una scuola a sistema unico (in cui la classe identifica un gruppo di allievi naturalmente eterogeneo, e le differenze si convertono nel modus vivendi naturale dei processi d’aula).

Lo stesso concetto viene ribadito nel documento Linee Guida dell’UNESCO del 2009, in cui si afferma che “La scuola inclusiva è un processo di fortificazione delle capacità del sistema di istruzione di raggiungere tutti gli studenti. […] Un sistema scolastico ‘incluso’ può essere creato solamente se le scuole comuni diventano più inclusive. In altre parole, se diventano migliori nell’educazione di tutti i bambini della loro comunità”.

In sintesi, il modello dell’inclusione, non si limita alla semplice attuazione di un sistema di attenzione assistenziale privilegiata del più debole, quanto nella modifica e nel cambiamento dei contesti, con l’obiettivo di generare le medesime opportunità di sviluppo per chi vive particolari situazioni di disagio che si esplicano in uno stato di bisogno educativo speciale. In assenza di risposte specifiche, infatti, tali situazioni di bisogno mutano in limitazioni alle attività e in restrizioni della partecipazione sociale.

La struttura del modello dell’integrazione non risulta idonea ad affrontare le problematiche con cui la scuola oggi si confronta, in particolare il dato del costante aumento all’interno delle classi di alunni che, seppur privi di “certificazione di handicap”, presentano difficoltà legate ad una variegata gamma di bisogni educativi speciali. Il fenomeno richiede una nuova filosofia di non solo di pensiero ma soprattutto di azione, partendo da un cambiamento nel sistema di valutazione e da una presa in carico dei bisogni educativi secondo l’ottica di una scuola aperta a tutti.

Diritto allo studio: D. Lgs. 63/2017

In ottemperanza alla delega legislativa conferita al Governo dalla legge n. 107/2015 (art. 1, c. 180 e 181, lett. f), il 13 Aprile 2017, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 63 concernente le disposizioni per garantire, come afferma il titolo del provvedimento, l’effettività del diritto allo studio attraverso la definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali, nonché il potenziamento della carta dello studente.

Il testo normativo chiarisce le finalità del legislatore: garantire su tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo studio degli alunni del Sistema Nazionale di Istruzione e Formazione, statale e paritario, fino al completamento di tutto il percorso di istruzione secondaria di secondo grado. L’intenzione, quindi, appare quella di andare oltre la mera disciplina normativa, consentendo a coloro che frequentano le istituzioni del sistema scolastico di disporre di strumenti che diano concreta possibilità di ottenere il più ampio sostegno per giungere al “completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado”.

In quest’ottica, il decreto intende individuare e definire le modalità delle prestazioni in materia di diritto allo studio in relazione ai servizi erogati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali, nel rispetto delle competenze e dell’autonomia di programmazione.

Gli interventi che il D. Lgs. 63/2017 disciplina, non costituiscono in ogni caso innovazioni sostanziali esistendo già da tempo forme di intervento per agevolare il diritto all’istruzione/studio. Ciò che emerge è l’intenzione del legislatore delegato di ampliare la platea di coloro che possono accedere ai “servizi” e un più accentuato impegno di carattere finanziario. I “servizi” individuati sono i seguenti:

  • servizi di mensa;
  • servizi di trasporto e forme di agevolazione della mobilità;
  • fornitura dei libri di testo e degli strumenti didattici indispensabili negli specifici corsi di studi;
  • servizi per le alunne e gli alunni, le studentesse e gli studenti ricoverati in ospedale, in case di cura e riabilitazione, nonché per l’istruzione domiciliare.

Il provvedimento, dunque, riorganizza le prestazioni per il sostegno allo studio promuovendo un sistema di welfare studentesco fondato sull’uniformità territoriale dei servizi tesi a garantire il diritto allo studio. A tal fine è stato istituito il Fondo Unico per il welfare dello studente e per il diritto allo studio, che, oltre al compito di finanziare l’erogazione di borse di studio, deve essere utilizzato per l’acquisto di libri di testo, per la mobilità e per il trasporto, nonché per l’accesso a beni e servizi di natura culturale.

Nel provvedimento legislativo, inoltre, si definiscono i principi generali per il potenziamento della Carta dello Studente “Io Studio”: tessera nominativa che consente di attestare lo status di studente in Italia e all’estero e di usufruire di vantaggi, agevolazioni e sconti offerti dai partner nazionali e locali aderenti al progetto. Per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, la Carta “Io Studio-Postepay” è integrata con nuovi servizi digitali e, grazie alla collaborazione di Poste Italiane, può essere attivata come un borsellino elettronico.

La cornice costruita dal decreto legislativo n. 63/2017 contiene molte immagini attraenti, che tuttavia sbiadiscono mano a mano che ci si addentra nei meccanismi di attuazione degli strumenti legislativi. Ciò si evince dalla mancanza di un vero piano di investimenti che renda realizzabili e a lungo termine gli effetti annunciati dal provvedimento.

I maggiori oneri che comunque si verificheranno (tasse scolastiche, libri di testo, scuola in ospedale e istruzione domiciliare, borse di studio) trovano una specifica copertura attingendo al Fondo per la Buona Scuola ad esclusione della scuola in ospedale, la cui fonte di finanziamento viene indicata nell’autorizzazione di spesa per la realizzazione dell’autonomia (legge 440/1997).

STEM, nuove tendenze e didattica del (prossimo) futuro

Perché STEM?

I primi cambiamenti in ambito scolastico negli USA sono avvenuti dopo la firma del Presidente Obama per l’aggiornamento della riforma No Child left Behind del 2002. Il focus si calibra su un nuovo tipo di preparazione dei ragazzi in modo da garantire loro maggior successo in campo universitario e lavorativo. Questa riforma ha dato il via ad ulteriori iniziative per migliorare il sistema educativo statunitense, garantendo l’insegnamento di materie scientifiche ed informatiche a tutti gli sudenti, dall’asilo all’università, permettendo loro di ottenere quelle competenze proprie del pensiero computazionale di cui hanno bisogno per non essere solo dei consumatori passivi, bensì dei cittadini attivi, in un mondo guidato dalla tecnologia. Si tratta di rispondere ad una domanda crescente di competenze sempre più specifiche richieste dal mondo del lavoro. Tante posizioni nel campo tecnologico, infatti, restano scoperte, ma soprattutto ci saranno sempre più lavori STEM nell’ambito delle tecnologie informatiche, ma anche in tutti gli altri settori. Questo crea la necessità impellente di una formazione adeguata per le professionalità ricercate.

Cosa succede in Europa?

La manovra più recente adottata dall’Unione Europea è il Digital Education Action Plan, redatto proprio per rispondere alla sfida, indicando come l’educazione e la formazione possono supportare lo sviluppo di quelle competenze digitali necessarie nella vita di tutti i giorni e nel mondo del lavoro. Questo piano d’azione nasce dalla consapevolezza dei vantaggi offerti da un’istruzione informatica che può, ad esempio, aiutare a ridurre il divario di apprendimento tra alunni appartenenti a livelli socio-economici diversi, ma anche incrementare la motivazione degli studenti nell’utilizzo di strumenti divertenti e accattivanti. Anche in Europa, secondo le stime, nel prossimo futuro il 90% degli impieghi richiederanno competenze informatiche, per cui è essenziale che i sistemi educativi offrano la preparazione adeguata alle qualifiche richieste. In questo senso si è mobilitata la Commissione Europea ma anche i Ministeri e gli Enti per l’istruzione di tutti i Paesi.

In Italia durante l’anno scolastico 2014/15 il MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) e il CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) hanno lanciato il progetto Programma il futuro. L’obiettivo fin dall’inizio è stato quello di diffondere il pensiero computazionale ed introdurre in modo strutturale lo studio dell’informatica all’interno delle scuole, aiutando gli studenti a sviluppare competenze logiche e capacità di risolvere problemi in modo creativo ed efficiente. Il nostro paese si sta ponendo tra le prime posizioni in Europa per l’impegno profuso in attività ed eventi relativi alla Settimana Europea del Coding, che mira a realizzare un’alfabetizzazione digitale. Questo grazie anche al Professor Alessandro Bogliolo, dell’Università di Urbino, che è il coordinatore della European CodeWeek, ma anche del gruppo di insegnanti che ha costituito una comunità di lavoro per inserire le pratiche del coding nel curriculo delle varie discipline scolastiche.

Tendenze e risorse

Una delle ultime tendenze è quella di aggiungere la A di Art alle STEM che diventano STEAM appunto per creare un approccio interdisciplinare e non confinare le discipline scientifiche al loro proprio ambito di applicazione. Gli studenti sono così incoraggiati ad assumere un atteggiamento sistematico e sperimentale, oltre che a ricorrere all’immaginazione e a fare nuovi collegamenti tra le idee.

Un altro orientamento è la sensibilizzazione ad avvicinare ragazze e donne al mondo informatico nel quale, per tante ragioni, sono sempre state sottorappresentate. In Italia le iniziative legate alle STEM arrivano dal Dipartimento delle Pari opportunità, ma anche dalle organizzazioni digitali sul territorio, basti pensare al Movimento RosaDigitale (rosadigitale.it) che combatte lo stereotipo e le disuguaglianze di genere in campo informatico (e non solo).

Numerosi progetti sul coding e sulle STEM sono stati attivati negli ultimi anni per coinvolgere sempre più docenti e studenti. Lo sviluppo delle STEM nella didattica è strettamente legato alla collaborazione tra docenti e tra scuole. Le piattaforme Scientix e eTwinning offrono un grandissimo aiuto in tal senso trasformandosi in Comunità di buone pratiche. Gli insegnanti trovano e condividono progetti, kit pronti, lezioni, idee e suggerimenti per una didattica basata sull’interazione e centrata sullo studente.

Stiamo sperimentando in questi anni il rafforzamento del concetto di reti sociali ed organizzative. L’unità di misura è la relazione; quella interna si delinea tra studenti, insegnanti e dirigenti e quella esterna si stabilisce con le famiglie, con il territorio, con il mercato del lavoro, con le altre agenzie formative e, in ultima analisi, con le strutture politiche e amministrative. Nella comunità di pratica i partecipanti si scambiano i saperi e divengono capaci di affrontare nuovi problemi e di risolverli secondo una prospettiva innovativa che nasce dalla valorizzazione delle diverse esperienze, ma anche dal coinvolgimento dei partecipanti.

La responsabilità degli insegnanti nel dare un contributo decisivo nella formazione dei bambini e ragazzi è grande. La scuola è adesso e questo è il momento di agire. E’ il nostro e il loro momento.

L’esame di Stato del secondo ciclo tra passato e futuro

Fino all’anno scolastico 2017/18 è stata la legge 11 gennaio 2007 n.1 a regolare gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, ma il comma 181 lett. i) dell’art.1 della legge 107/2015 conteneva una delega relativa all’adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, nonché degli esami di Stato del primo e del secondo ciclo di istruzione.

Il D.lgs. n. 62 del 13 aprile 2017, all’art. 12, delinea appunto oggetto e finalità dell’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo, che entrerà in vigore dal prossimo anno scolastico e che è  già atteso con trepidazione da studenti, genitori, docenti e dirigenti scolastici. Il nuovo esame, in relazione al profilo educativo, culturale e professionale specifico di ogni indirizzo di studi, tiene conto dello sviluppo delle competenze digitali, delle attività di alternanza scuola-lavoro, del percorso dello studente, di cui all’art.1, c. 28 della legge 107/2015 e delle attività svolte nell’ambito di “Cittadinanza e Costituzione”, come prevede la legge 169/2008.

L’art. 13 dello stesso decreto stabilisce poi le condizioni per l’ammissione all’esame, che prevede i seguenti requisiti:

  1. frequenza di  almeno tre quarti del monte ore personalizzato;
  2. partecipazione alle prove computer based somministrate durante l’ultimo anno  dall’INVALSI, in italiano, matematica e inglese;
  3. svolgimento delle attività di alternanza scuola-lavoro;
  4. votazione non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline valutate con attribuzione di un unico voto e voto di comportamento non inferiore a sei decimi.

Nel caso di votazione inferiore a sei decimi in una disciplina o gruppo di discipline, il consiglio di classe può comunque deliberare l’ammissione a maggioranza, con adeguata motivazione, e attribuisce il punteggio per il credito scolastico fino ad un massimo di quaranta punti suddiviso in dodici punti per il terzo anno, tredici per il quarto e quindici per l’ultimo anno. L’allegato A del decreto riporta una tabella di conversione del credito conseguito al terzo e al quarto anno per i candidati che sosterranno l’esame nell’anno scolastico 2018/2019. Non sono previste modifiche nella formazione delle commissioni d’esame.

L’art. 17 regolamenta le prove d’esame e apporta alcune novità rispetto all’esame previsto dalla legge del 2007. Le prove scritte sono infatti due; viene abolita la terza prova a carattere pluridisciplinare che consisteva nella trattazione sintetica di argomenti, nella risposta a quesiti singoli o multipli ovvero nella soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o nello sviluppo di progetti; la prova era strutturata in modo da consentire, di norma, anche l’accertamento della conoscenza di una lingua straniera.

Nel nuovo esame la prima prova scritta rimane italiano, mentre la seconda, in forma scritta, grafica o scritto-grafica, pratica, compositivo/esecutivo musicale o coreutica, ha per oggetto una o più discipline caratterizzanti il corso di studio. Una ulteriore novità riguarda l’istruzione professionale dove la seconda prova, di carattere pratico, è in parte predisposta dalla commissione d’esame in coerenza con il piano dell’offerta formativa.

Diversa è anche l’impostazione del colloquio, che non ha inizio con l’esposizione di un argomento disciplinare o pluridisciplinare scelto dal candidato; è la commissione, infatti, a proporre l’analisi di un testo, di un documento o di un problema per verificare l’acquisizione dei contenuti e la capacità dello studente di argomentare in maniera critica, anche utilizzando la lingua straniera. Il candidato deve esporre brevemente, attraverso una relazione o un elaborato in formato multimediale, l’esperienza di alternanza scuola-lavoro. In questo contesto sono accertate anche le competenze di “Cittadinanza e Costituzione”.

Il voto finale è espresso ancora in centesimi, ma la commissione dispone di un massimo di venti punti per ciascuna delle due prove scritte e per il colloquio (per un totale di sessanta punti, che sommati al massimo di quaranta punti del credito scolastico permette di totalizzare cento). Può essere attribuito, con congrua motivazione, un bonus fino a cinque punti a quei candidati che abbiano conseguito un credito di almeno trenta punti e un risultato complessivo di almeno cinquanta punti tra prove scritte e colloquio.

La lode è attribuita all’unanimità ai candidati che conseguono il punteggio di cento punti senza l’integrazione del bonus. È evidente che con il nuovo esame il curriculum dello studente ha un peso maggiore rispetto al passato (poiché in precedenza il credito scolastico era al massimo pari a venticinque punti).

L’ultima novità riguarda la certificazione che, fino ad oggi, era regolata dal D.M. n. 26 del 3 marzo 2009, ma il c. 3 dell’art. 21 prevede l’adozione, con apposito decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di nuovi modelli sia per il diploma finale, sia per il curriculum della studentessa e dello studente, in cui sono riportate le competenze, le abilità e le conoscenze acquisite, nonché le attività di alternanza scuola-lavoro, ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro.

Poli per l’infanzia: D. Lgs. 65/2017. Italia e Finlandia a confronto

Il decreto nasce sull’esperienza e dalla implementazione delle sezioni primavera e rappresenta una risposta concreta alle esigenze di continuità dal punto di vista pedagogico, organizzativo  e sociale, offrendo un servizio articolato per l’infanzia e rispondendo ai benchmark europei, con i quali si intende includere il 95% della popolazione infantile di quattro anni nel percorso educativo e scolastico.

Il sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita a sei anni ha la finalità di “sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento, in un adeguato contesto affettivo, ludico e cognitivo”, garantendo “pari opportunità di educazione e di istruzione, di cura, di relazione e di gioco, superando diseguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali”.

E’ costituito dai sistemi educativi per l’infanzia e dalle scuole per l’infanzia statali e paritarie; i servizi educativi comprendono i nidi e micronidi, le sezioni primavera (L 296/2006) che accolgono i bambini tra ventiquattro e trentasei mesi di età.

I servizi integrativi previsti nel decreto si articolano a loro volta in spazi gioco per bambine e bambini dai dodici ai trentasei mesi di età, inseriti in un ambiente finalizzato alla cura e alla socializzazione, con una frequenza flessibile ma senza il servizio mensa.

Vi sono poi i centri per bambini e famiglie che oltre a momenti di gioco e socializzazione, offrono spazi di confronto sui temi dell’educazione e della genitorialità; anche questi non prevedono il servizio mensa e sono strutturati per poter essere frequentati in modo flessibile.

Infine caratterizzati da un numero esiguo di bambini, vi sono i servizi educativi in contesto domiciliare che concorrono all’educazione e cura dei bambini da tre a trentasei mesi.

La scuola dell’infanzia organizzata già secondo il decreto legislativo n.59/2004, in questo disegno “assume una funzione strategica, operando in continuità con i servizi educativi per l’infanzia e con il primo ciclo di istruzione”, essa accoglie i bambini e le bambine  di età compresa tra i tre e i sei anni d’età.

Alla base di questa organizzazione vi è indubbiamente un legame forte con il territorio che raccoglie i cittadini dalla più tenera età, configurandosi come servizio alla persona, ma anche come comunità di appartenenza ove il cittadino radica la propria esistenza, all’insegna di un progetto ambizioso ed inclusivo,  che lo renda portatore in futuro di una cittadinanza sentita e quindi attiva.

Non già una forma di chiusura nei propri limiti territoriali, perché come direbbe Morin apparteniamo ad un’unica comunità di destino, ma la volontà di rendere i territori protagonisti ed autonomi, in base a quel principio di sussidiarietà che ha lo scopo di  intercettare i bisogni dei cittadini per tradurli in servizi alla persona.

In questa ottica vanno visti i Poli per l’Infanzia che “accolgono, in un unico plesso o in edifici vicini, più strutture di educazione e di istruzione per bambine e bambini fino ai sei anni di età… si caratterizzano quali laboratori permanenti di ricerca, innovazione, partecipazione ed apertura al territorio, anche al fine di favorire la massima flessibilità e diversificazione per il migliore utilizzo delle risorse, condividendo servizi generali, spazi collettivi e risorse professionali”.

Il sistema integrato realizza obiettivi di lungo respiro che oltre a coinvolgere un’alta percentuale di popolazione infantile sotto i tre anni, almeno il 33%, tende a raggiungere il 75% dei  servizi offerti dai comuni, la generalizzazione progressiva della scuola dell’infanzia, l’inclusione e la qualificazione dei servizi offerti, attraverso la formazione universitaria del personale dei servizi educativi.

La formazione in servizio del personale coinvolto anche al fine di promuoverne il benessere psico-fisico, il coordinamento pedagogico-territoriale e l’introduzione di condizioni che agevolino la frequenza dei servizi educativi per l’infanzia, rappresentano punti di qualità, la cui realizzazione porterebbe il nostro sistema 0-6 alla pari con le moderne strutture di alcuni paesi europei.

Il decreto considera anche gli aspetti logistici, istituendo un Fondo nazionale con il quale finanziare la costruzione e ristrutturazione degli edifici pubblici, la gestione delle spese dei servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia; in ultimo la formazione continua in servizio del personale, in armonia con il Piano nazionale di formazione previsto dalla L 107/2015.

Con i Poli per l’infanzia si vuole costruire un sistema unico, in cui le autonomie locali facciano la propria parte: lo Stato indirizza, programma e coordina la progressiva ed equa estensione del sistema integrato, le regioni programmano la costituzione dei Poli e gli enti locali gestiscono in forma diretta e indiretta propri servizi educativi e scuole per l’infanzia.

Sulla scia dell’esperienza finlandese della scuola di base, le cui riforme sono state attuate coinvolgendo tutto il sistema sociale, politico ed economico del paese, il modello zero- sei sembra accogliere e sviluppare questa nuova dimensione.

In Finlandia l’educazione prescolare è praticamente inesistente e su base volontaria; la responsabilità di questo settore è del Ministero dell’istruzione. Esiste però una scuola di base unica della durata di 9 anni, in cui il Paese investe molto poichè la scuola viene concepita come elemento strategico nel piano di recupero economico; la qualità dell’insegnamento e lo status dell’insegnante rappresentano fattori importanti in una cornice nazionale in cui le scuole operano con ridotte indicazioni nazionali, quindi in autonomia.

Il protagonismo della  municipalità finlandese rappresenta un esempio chiaro che trasposto in Italia può vedere nella gestione degli enti locali del sistema integrato di educazione e di istruzione, un modello di scuola partecipato e comunitario, così come inteso dalla L 107/2015, un vero e proprio  laboratorio di ricerca: quella ricerca e  sperimentazione di soluzioni che rispondano ai bisogni dei cittadini utenti, in ultima analisi la sussidiarietà enunciata dalla  comunità europea, in un futuro che come direbbe Bauman “non esiste, ma è da costruire”.

Scuole italiane all’estero: D. Lgs. 64/2017

Il presente decreto ridefinisce le regole delle scuole italiane all’estero, a norma dell’art.1, comma 180 e 181 della legge 13 luglio 2015, n. 107.  Attua un effettivo e sinergico coordinamento tra il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (MAECI) e il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) per la gestione della rete scolastica e per la promozione della lingua e della cultura  italiana.  

L’obiettivo principale del D. Lgs. n.64  è quello di ridefinire e creare una rete di scuole innovative e all’altezza dei nuovi standard europei che risponda in maniera esaustiva alle esigenze degli alunni e delle loro famiglie diffondendo e valorizzando di pari passo il patrimonio culturale italiano in tutto il Mondo.

Il testo è abbastanza complesso e si compone di ben 39 articoli che definiscono il trattamento economico, lo stato giuridico del personale nelle scuole statali all’estero e i criteri per la formazione del personale. Prima del presente decreto, le scuole italiane all’estero erano regolamentate dal D. Lgs. 297/94, a cui seguirono ulteriori decreti e misure urgenti  per definire l’organico in servizio e gli stanziamenti in favore delle scuole italiane all’estero, come nella legge di Stabilità 2016 che disponeva  l’erogazione di un milione di euro per ciascun anno a partire dal 2016 al 2018 per la spesa del personale supplente delle scuole italiane all’estero.

Il decreto definisce le finalità, l’articolazione del sistema, l’organizzazione e la gestione delle scuole italiane all’estero e la selezione di personale specializzato per i Lettorati. Si prevede inoltre la possibilità di creare associazioni di scuole con lo scopo di sostenere la mobilità degli studenti e si sollecita l’attivazione di partenariati con soggetti pubblici e privati. Con il D. Lgs. n. 64/2017  si prevede un aumento di circa il 10% dell’organico degli insegnanti di ruolo da destinare all’estero. E’ stato istituito un Portale Unico dei dati della scuola.

Novità sono state introdotte dal decreto per quanto riguarda i periodi da destinare all’estero all’interno dell’intera carriera: previsti due periodi di 6 anni, intercalati da un sessennio in Italia.

All’art. 34 si prevede la possibilità di prestare il Servizio Civile nel “Sistema di formazione Italiani nel mondo”. Al tirocinante spetta un rimborso forfettario delle spese sostenute nella misura minima pari a 300 euro mensili. Il Miur sentito il MAECI individua i candidati italiani ai posti di direttore e direttore aggiunto di scuola europea, previa pubblicazione di un bando che regola modalità e criteri di selezione.

Viaggio nel “nuovo” CCNL Scuola, Università, Ricerca e Afam

Il Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa

Una delle novità introdotte con il rinnovo del CCNL Scuola,  Università, Ricerca e AFAM riguarda la creazione, a decorrere dall’anno scolastico 2018/2019, di un unico fondo, denominato “Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa”, nel quale confluiranno risorse che avevano una loro individuazione autonoma e che d’ora in poi  costituiranno il complesso indistinto delle risorse disponibili.

Il CCNL le elenca all’articolo 40:

  1. a)  il Fondo per l’Istituzione Scolastica;
    b) le risorse destinate ai compensi per le ore eccedenti del personale insegnante di educazione fisica nell’avviamento alla pratica sportiva;
    c) le risorse destinate alle funzioni strumentali al piano dell’offerta formativa;
    d) le risorse destinate agli incarichi specifici del personale ATA;
    e) le risorse destinate alle misure incentivanti per progetti relativi alle aree a rischio, a forte processo immigratorio e contro l’emarginazione scolastica;
    f) le risorse destinate alle ore eccedenti per la sostituzione dei colleghi assenti.

Nel nuovo Fondo confluiranno anche, sempre dall’imminente a.s. 2018-2019, le risorse indicate nel comma 126 dell’art 1 della legge 13 luglio 2015, n. 107. Infatti, con  l’approvazione in Senato, il 23 dicembre scorso, della Legge di Bilancio 2018 si ritorna a parlare di “valorizzazione della professionalità del merito dei docenti” grazie allo stanziamento, con l’art. 1 comma 592, di 60 milioni di euro aggiuntivi.

Così, i finanziamenti per il triennio 2018-2020, andranno a costituire un fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. Questa volta, la novità, rispetto al discusso fondo per la “valorizzazione del merito”, introdotto con il comma 126 della Legge 107/2015, sta nella derogabilità del “bonus” per via pattizia, come si evince dal comma 593 della succitata legge di Bilancio che detta, al riguardo, dei criteri di indirizzo, riferiti alla valorizzazione dell’impegno in attività di formazione, ricerca e sperimentazione didattica e la valorizzazione del contributo alla diffusione nelle istituzioni scolastiche di modelli per una didattica per lo sviluppo delle competenze.

Ciò vuol dire che la “valorizzazione della professionalità del merito”, con le modalità che il nuovo CCNL sottoscritto il 18 aprile 2018 ha chiarito, sarà oggetto di contrattazione tra Amministrazione e Sindacati. Trattandosi di emolumenti aventi carattere di “retribuzione accessoria”, l’importante novità risolve l’antinomia normativa   che era emersa tra le disposizioni della Legge 107/2015 e quelle del D.lvo 165/2001 (aggiornato al D.lvo 150/2009), che stabilisce all’art. 45 che il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito attraverso la contrattazione.

Il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa, così ridefinito, resta comunque finalizzato a remunerare il personale per le seguenti finalità:

  • attività già previste per il Fondo per l’Istituzione scolastica dall’art. 88 del CCNL del 29 novembre 2007;
  • erogazione dei compensi per le ore eccedenti del personale insegnante di educazione fisica nell’avviamento alla pratica sportiva;
  • erogazione dei compensi relativi allo svolgimento delle funzioni strumentali al piano dell’offerta formativa e degli incarichi specifici del personale ATA, nonché per le misure incentivanti per progetti relativi alle aree a rischio, a forte processo immigratorio e contro l’emarginazione scolastica;
  • erogazione dei  compensi per l’effettuazione delle ore eccedenti per la sostituzione dei colleghi assenti;
  • per la valorizzazione, come detto, del merito dei docenti;
  • per soddisfare le finalità di cui all’art 1, comma 593 della legge n. 205/2017, già descritte in precedenza.

E’ compito di uno specifico contratto collettivo integrativo nazionale, stipulato, di norma, con cadenza triennale, individuare criteri di riparto che assicurino l’utilizzo integrale delle risorse disponibili in ciascun anno scolastico, ivi incluse quelle eventualmente non assegnate negli anni scolastici precedenti. Tale contratto è chiamato a definire, altresì, i criteri di riparto del fondo tra le singole istituzioni scolastiche ed educative, sulla base di specifici parametri.

Lo scorso 2 agosto è stata firmata l’ipotesi del CCNI sul MOF 2018/2019 grazie alla quale le scuole potranno, programmare le attività scolastiche avvalendosi di tutti i fondi contrattuali a disposizione già da settembre, consentendo in tal modo, la sottoscrizione del Contratto d’Istituto nei primi giorni di settembre e comunque nei tempi fissati dal CCNL.

Altro aspetto di rilievo è che non solo le somme possono essere liberamente destinate alle attività che più si ritengono funzionali allo sviluppo del Piano triennale dell’offerta formativa, ma nel CCNI si precisa che ogni economia risultante a ciascuna scuola alla conclusione di ogni anno scolastico potrà essere utilizzata nell’anno successivo per finalità diverse da quelle originarie.

Confermata, con l’ipotesi di CCNI, la piena attribuzione al MOF delle risorse per la valorizzazione del personale docente, in linea con la legge di Bilancio 2018 e in continuità con la precedente intesa del 26 giugno 2018. Con questo contratto il ruolo della Contrattazione Integrativa e dei suoi protagonisti risulta rafforzato perché si pone l’accento su come le relazioni sindacali costituiscano uno strumento efficace e flessibile non solo per regolare il rapporto di lavoro, tutelando docenti e personale ATA ed educativo, ma anche per implementare la funzionalità del sistema scolastico a beneficio di tutti gli stakeholders.

Allattamento a rischio

D. Sono una docente di scuola primaria, titolare su posto di sostegno che ha partorito il 3 agosto. Ho saputo che dopo la fruizione del congedo obbligatorio post partum, che termina a novembre, potrei ricorrere al congedo per allattamento a rischio, fin al 7° mese di vita del bambino.  Potrebbe indicarmi in base a quale norma e con quali modalità?

R. Sì, quanto ha saputo è espressamente previsto dall’articolo 17 del decreto legislativo n. 151/2001.

Questa normativa,  che prende il nome di “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000” prevede che il datore di lavoro verifichi se le mansioni lavorative della neomamma possono essere dannose per l’allattamento e, se del caso,  modificarle con altri compiti che non rechino alcun danno allo svolgimento del ruolo di madre o, se non è possibile, provvedere ad esentarla dal lavoro fino al compimento del 7° mese di vita del bambino.

Sebbene si tratti di una normativa vigente dal 2001 poche donne ne sono a conoscenza. Il meccanismo ricalca proprio quello della cosiddetta gravidanza a rischio solo che, intuitivamente, si riferisce al periodo di allattamento al seno.

Le insegnanti, avendo a che fare spesso con classi numerose sono esposte a rischi biologici (eventuali malattie infettive quali varicella e rosolia trasmesse dagli alunni), spesso assumono carichi posturali scorretti e prolungati nel tempo. Si trovano inoltre a dover lavorare con bambini molto piccoli o problematici che diventano fonte di stress in grado di pregiudicare l’allattamento sia i termini quantitativi che qualitativi.

Le insegnanti di sostegno, in aggiunta a quanto detto sopra,  se lavorano con bambini portatori di handicap gravi spesso si vedono costrette a effettuare sforzi fisici notevoli per aiutare il loro assistito durante la vita quotidiana in classe. Sarà, dunque il DS, si ribadisce, a dover valutare la situazione di rischio e a provvedere a destinare l’insegnante che allatta o ad altra mansione o ad esentarla dal lavoro.

Come presentare la domanda

In primis, occorre consegnare   al datore di lavoro il certificato di nascita del neonato entro 30 giorni dal parto. Dopodiché spettano tre mesi di congedo di maternità obbligatorio, al termine dei quali il datore di lavoro dovrà valutare se ci sono rischi per l’allattamento. Se la neomamma può essere esposta ai rischi di cui  sopra dovrà essere assegnata ad una mansione diversa e non a rischio fino al settimo mese di vita del bambino.

In caso non fosse possibile assegnare una mansione diversa alla neomamma spetta l’astensione dal lavoro fino al settimo mese e dovrà presentare una comunicazione scritta alla Direzione Provinciale del Lavoro che provvederà all’interdizione al lavoro.

Questo avviene presentando domanda alla Direzione Provinciale del Lavoro. La retribuzione prevista è del 100%, anticipata dal datore di lavoro che verrà rimborsato dall’Inps.

L’annoso dispositivo normativo, peraltro, è richiamato in una direttiva che il ministro Madia ha rivolto a tutte le pubbliche amministrazioni, affinché rispettino il diritto di allattamento della donna che lavora. E’ un diritto fondamentale per le madre e i bambini, riconosciuto dalla legislazione comunitaria e nazionale. Le madri devono essere sostenute nella realizzazione del desiderio di allattare. La direttiva 2006/14/CE, richiama il principio della promozione e della protezione di tale diritto e la necessità di incentivare e non scoraggiare la stessa pratica.

European Education Systems

Let’s go and have a look, this month,  to Ireland and France education systems.

IRELAND

In Ireland the compulsory education lasts 10 years, from 6 to 16

The school system is as follows:

  • Primary school / National school (4-12 years)
  • Secondary School / Junior Cycle / Junior Certificate Program (12-15 years)
  • High School / Senior Cycle / Leaving Certificate Program (15 / 16-17 / 18 years)
  • Professional Training / Post Leaving Certificate Courses (Duration 1 or 2 years, after 18/19 years)

Denomination: infant classes in primary school and lasts  2 years (from 4 to 6 ).

There is no national pre-school education system.

Most children aged 4 and 5 attend primary school classes, which is compulsory from 6.

Anyway the State finances other forms of childcare, organized like kindergartens in case of children who live in rural areas or suffer socio-economic disadvantages.

Take note that to attend nursery classes is free, while for the kindergartens families have to pay.

The nursery classes have as same days as the primary school classes, with a schedule of 4 hours and 40 minutes per day, from 9.00 a.m. to 14.00 p.m. Kindergartens are opened 4-5 days a week from 9.30 a.m. up to afternoon.

Children are divided into  same age groups in nursery classes, while in kindergartens there are mixed age groups of kids.

The role of infant classes is to introduce children to formal learning, so the not-compulsory two years are still part of an integrated program covering all eight years of primary education (from 4 to 12 ).

Teachers of primary school are qualified teachers, with the same status and salary and are assigned to a specific class.

Staff working in kindergartens generally do not have specific training.

FRANCE

In France the compulsory education lasts 10 years, from 6 to 16 .

The school system is as follows:

  • Primary School / Ecoles Elementares (6-11 years),
  • Secondary School / Collèges (11-15 years)
  • High school / Lycées (15-18 years)

Denomination: Ecole maternelle

Duration: 4 years (from 2 to 6).

The école maternelle is not compulsory but is part of the first cycle of the French educational system called ‘Cycle des apprentissages premiers’ and it is free in public school. It is a real school environment, with teaching programs and learning activities.

Other possibilities, which do not belong to the ordinary educational system,  are given to parents with kids under 2 years.

These are welcomed at Le crèches, whose management is locally entrusted to departments for health and social affairs, to municipalities, and to other subjects always operating at local level. In addiction children can be entrusted to qualified and authorized people, who assist them at home.

Children are grouped according to different age in 3 sections: the first section is for children of 2 / 3 years; the second for children of 4 and the third one for 5 year children.

The école maternelle has an educational function and is  preparatory for primary school.

The program was defined in 2002 and is built around 5 main areas of activity:

  1. Language
  2. To live together
  3. Act and express yourself with your body
  4. Discover the world
  5. Sensitivity, imagination and creativity.

The school year begins in September and ends at the end of June, with dates set each year by the Ministry of National Education.

The week consists of 26 hours, the teachers organize the daily activities according to the needs of the children and the skills that the the pupils have to acquire and still established for each cycle.

The teachers or the pedagogical group are responsible for the regular evaluation of children’s knowledge, through a care observation. According to that  the teachers decide the progression of a pupil to the next cycle.

Moreover for each child a school booklet is kept to update progression and skills acquired by him/her.

The pedagogical group is made up of general  and specialized teachers, while the educational group consists of people who have the responsibility of a pupil or a group of pupils.

The teachers are assisted in their work by the Agents Territoriaux Specialisés d’École Maternelle (specialized territorial Agents of the kindergarten), recruited by local authorities and in possession of specific training.

L’enseignement

La qualité de l’enseignement est un facteur indispensable ……… (1) les jeunes soient motivés en classe et puissent exprimer au mieux leur potentiel. De bons enseignants font une bonne éducation et les deux sont indispensables pour fournir à nos jeunes la ……… (2) préparation en vue d’une vie adulte active et productive au sein de notre société. D’une part, le rôle de l’enseignant devient déterminant et l’Europe se prépare à répondre à des défis éducatifs, ……… (3) et économiques, d’autre part la profession en soi devient toujours moins attrayante comme choix de carrière professionnelle. Attentes élevées sur les résultats des étudiants, fortes pressions externes ……… (4) à une population d’étudiants désormais différente, rapides innovations technologiques ; tous ces facteurs ont un impact très fort sur la profession d’enseignant. Les leaders européens et les politiques nationales ont ……… (5) une partie importante du programme « EDUCATION AND TRAINING 2020 » à l’identification des défis et à l’analyse en profondeur de moyens et solutions pour fournir aux enseignants un soutien efficace afin d’obtenir une amélioration globale de ……… (6) statut.

La récente communication de la part de la Commission Européenne à propos du développement de l’école et des excellences dans l’enseignement (Commission Européenne, 2017a) ……… (7) en évidence le besoin de rendre les carrières dans l’enseignement plus attrayantes et la nécessité de modifier le paradigme de cette profession en la ……… (8)  de statique à dynamique.

Aujourd’hui, l’enseignement implique le développement d’une carrière pour la vie, en s’adaptant aux nouveaux défis, en collaborant avec les collègues, en utilisant les ……… (9) technologies pour être constamment innovateur. Il faut donc reconnaître que l’univers de l’enseignement est sujet à des transformations rapides. Les enseignants ont besoin ……… (10) réformes et de soutien afin de répondre énergiquement aux nouvelles exigences.

Exercice 1 – Lire le texte ci-dessus et choisir l’option A, B ou C pour le compléter.

  1. A) afin que                    B) jusqu’à                     C) pour
  2. A) mieux                        B) meilleure                C) bonne
  3. A) social                         B) sociales                   C) sociaux
  4. A) du                               B) dues                         C) dûs
  5. A) consacré                    B) consacrer                C) consacrés
  6. A) son                            B) leurs                        C) leur
  7. A) met                            B)  mets                        C) mette
  8. A) transforment            B) transformés            C) transformant
  9. A) nouveau                    B)  nouvelles               C) nouvel
  10. A) du                               B) des                           C) de

Exercice 2 – Dites si les affirmations sont vraies (V) ou fausses (F)

        1. La qualité de l’enseignement est un facteur indispensable    ………..
        2. De bons enseignants ne font pas une bonne éducation            ………..
        3. L’Europe est prête pour les grands défis éducatifs            ………..
        4. Les leaders européens et les politiques nationales ne collaborent pas    ………..
        5. Il faut rendre l’enseignement plus attrayant     ………..
        6. L’enseignement est une profession dynamique     ………..
        7. La population des étudiants n’a pas beaucoup changé        ………..
        8. Il n’y a pas de nouvelles technologies dans les écoles        ………..
        9. Il faut fournir aux enseignants un soutien constant            ………..
        10. Le programme européen a une durée de 5 ans.     ………..

Exercice 3 – Ecrire les phrases en utilisant entre 2 et 5 mots, y compris celui qui est fourni.

  1. L’enseignement a besoin de répondre aux défis d’une société en évolution. (devoir/falloir)

_______________________________________________________________

  1. La collaboration entre collègues est un élément indispensable pour la réalisation de projets communs. (falloir/être nécessaire)

_______________________________________________________________

  1. L’enseignement est sujet à des transformations rapides (subir)

_______________________________________________________________

Solutions ex. 1 : 1. A – 2. B – 3. C – 4. B – 5. A – 6. C – 7. A – 8. C – 9. B – 10. C

Solutions ex. 2 : 1=V, 2=F, 3=V, 4=F, 5=V, 6=F, 7=F, 8=F, 9=V, 10=F

Solutions ex. 3 :

  • L’enseignement doit répondre aux défis d’une société en évolution/Il faut que l’enseignement réponde aux défis d’une société en évolution.
  • Il faut une collaboration entre collègues pour la réalisation de projets communs/ Il est nécessaire que les collègues collaborent entre eux pour la réalisation de projets communs.
  • L’enseignement subit des transformations rapides.

L’école maternelle

Avant 1881, il n’existe ………  (1) école maternelle. Les instituts ……… (2) accueillent les enfants de 2 à 6 ans sont appelés « salles d’asile » et ne prennent en charge qu’un trop faible nombre d’enfants. Mais les familles peuvent également choisir, à cette époque, de faire ……… (3) leurs enfants en bas âge dans des classes appelées « sections enfantines », directement intégrées aux écoles primaires.

Les enfants ……… (4) entrer à l’école maternelle l’année de leurs trois ans, au mois de septembre. Les enseignants sont les mêmes qu’en élémentaire. L’école maternelle obéit à un programme national précis et détaillé. À l’école maternelle ……… (5)  l’élève passe trois ou quatre ans (il a alors entre 2 et 6 ans) en toute petite section, petite section, moyenne section et grande section. La scolarisation à deux ans est ……… (6) variable selon les régions et les zones (elle est ainsi plus fréquente dans les ZEP: zone d’éducation prioritaire).

Elle concerne le plus souvent les enfants les plus âgés de leur classe d’âge, ceux nés ……… (7) début d’année. Une enquête menée pour le ministre de l’Éducation montre que les enfants scolarisés à deux ans s’intègrent plutôt mieux dans le cursus scolaire et redoublent moins souvent le CP et le CE mais contrairement aux ambitions affichées, les classes des deux ans sont surtout ……… (8) par les enfants des familles aisés ou d’enseignants.

De ce fait, les résultats de l’enquête ……… (9) quelque peu biaisés. Il semblerait que la scolarisation anticipée n’a pas réellement d’effet bénéfique sur les enfants. De plus, l’essentiel des hiérarchies scolaires est déjà en place à la fin de la grande section. L’école maternelle française ne parvient pas à amener les petits sur un pied d’égalité. Une partie de l’explication pourrait être le fonctionnement déjà très scolaire de la grande section.

Néanmoins l’école maternelle française reste une exception, et rares sont les pays qui proposent une école maternelle publique dès le plus jeune âge: si un enfant peut commencer l’école à deux ans presque trois en France, ce sera trois ans en Allemagne ……… (10) cinq ans en Suisse, sans même regarder des pays très éloignés.

Exercice 1 – Lire le texte ci-dessus et choisir l’option A, B ou C pour le compléter.

  1. (A) pas                     (B) aucun           (C) moins
  2. (A) que                    (B) qui                 (C) lequel
  3. (A)  rester               (B) étudier          (C) garder
  4. (A) doivent             (B) veulent         (C) peuvent
  5. (A) où                      (B) dont              (C) que
  6. (A) beaucoup         (B) plus               (C) très
  7. (A) au                      (B) en                   (C) à
  8. (A) fréquenter       (B) fréquentes    (C) fréquentées
  9. (A) est                     (B) es                    (C) sont
  10. (A) voire                 (B) voir                 (C) même

Exercice 2 – Dites si les affirmations sont vraies (V) ou fausses (F).

  • Les enseignants ne sont pas les mêmes qu’en élémentaire        ……….
  • La scolarité à deux ans concerne les enfants les moins âgés         ……….
  • L’école maternelle réussit à rendre les petits tous égaux        ……….
  • Avant 1881, l’école maternelle est obligatoire        ……….
  • Les instituts sont appelés salles d’asile pour les 2 à 6 ans        ……….
  • Les sections enfantines accueillent les enfants en bas âge        ……….
  • A l’école maternelle, l’élève passe 3 ou 4 ans         ……….
  • Les ZEP sont des zones privilégiées ou aisées        ……….
  • La scolarisation n’a pas d’effet bénéfique sur les enfants        ……….
  • En Allemagne, l’école maternelle commence à quatre ans        ……….

Exercice 3 – Ecrire les phrases en utilisant entre 2 et 5 mots, y compris celui qui est fourni.

  1. L’Ecole maternelle obéit à un programme national précis et détaillé. (gérer)

_______________________________________________________________

  1. Il semblerait que la scolarisation anticipée n’a pas d’effet bénéfique sur les enfants. (influencer négativement)

_______________________________________________________________

  1. L’école maternelle française ne parvient pas à amener les petits sur un pied d’égalité. (rendre égal)

_______________________________________________________________

Solutions exercice 1: 1. B – 2. B – 3. C – 4. C –  5. A – 6. C – 7. B – 8. C – 9. C – 10. A

Solutions exercice 2 : 1. F – 2. F – 3. F. 4. F – 5. V – 6. V – 7. V – 8. F –  9. F – 10. F.

Solutions exercice 3:

  1. Un programme national précis et détaillé gère l’école maternelle/L’école maternelle est gérée par un programme national précis et détaillé.
  2. La scolarisation anticipée influence négativement les enfants.
  3. L’école maternelle française ne rend pas tous les petits égaux.

Si riparte!!!

Riparte la 18ª legislatura dopo tentennamenti e perplessità e per le politiche scolastiche ci potrebbe essere una nuova ripartenza, una nuova ridiscussione delle ultime riforme pensate e implementate con la legge 107 del 2015 che è stata ampliamente al centro della discussione nella passata campagna elettorale.

Si riparte con un nuovo Ministro dell’Istruzione, a cui vanno gli auguri di Buon lavoro da parte della rivista “Scuola 4 All” e si apprezza la recente dichiarazione di voler porre fine alle reggenze dando ritmo ai concorsi per Dirigenti Scolastici e per Direttori Servizi Generali ed Amministrativi per permettere a tutte le scuole di poter avere dal 1 settembre 2019 Dirigenti Scolastici e Direttori Amministrativi titolari in tutte le Istituzioni scolastiche che sono diventate organizzazioni complesse che necessitano di dirigenti strategici, capaci, motivati e competenti e di Direttori amministrativi efficienti.

Dedichiamo il terzo numero della rivista alla tematica dell’Inclusione e devo esprimere subito i ringraziamenti a Dario Ianes che ha voluto offrire un suo originale ed elegante ed attuale messaggio innovativo sull’argomento. L’attenzione a tematiche di civiltà come l’inclusione da parte della nostra rivista, nei giorni drammatici della vicenda della nave Aquarius, dimostra come le Istituzioni Scolastiche e gli operatori scolastici rimangano baluardo significativo e forte di civiltà, di cultura, di confronto interculturale per dare valore e dignità alle speranze per una costruzione di un mondo sostenibile, inclusivo ed intelligente.

Negli ultimi 50 anni grazie al contributo di docenti  illuminati e di legislatori buoni interpreti della necessità di costruire “coscienze terrestri”, ricche di una “coscienza ecologica” e di una “coscienza antropologica”, le politiche di inclusione hanno rappresentato un continuo progress culturale che ha provocato una vera rivoluzione copernicana  passando dai “cittadini invisibili”, ai “cittadini segregati” nelle classi differenziali, per poi garantire ai diversamente abili di vivere  e convivere nelle classi normali per socializzare prima ed integrarsi dopo.  E questo incedere “elegante” non poteva non concludersi con l’esaltazione dell’inclusione e della “diversità normale” come sottolineato nell’ultima nota del MIUR del 17 maggio 2018.

Un’altra felice coincidenza della nostra rivista è la pubblicazione alcuni giorni fa da parte della European Agency  for development in Special Need education del Profilo dei docenti inclusivi in cui si esalta come “l’inclusione è un principio, un approccio educativo basato sui diritti, sostenuto da una serie di valori fondamentali: uguaglianza, partecipazione, sviluppo e sostegno delle comunità e rispetto della diversità.

E il successo dell’inclusione dipende dai “valori di cui il docente è portatore”.

E noi di “Scuola 4 All” ci stiamo provando!!!

La nocchiera

Ed ecco una situazione reale, una di quelle che si incontra tutti i giorni a scuola. Oggi la definiscono “classe pollaio”, “classe eterogenea”, “numerosa”, “difficile”… Personalmente la chiamerei semplicemente “classe tipo”. La presento o potrei dire che l’ho già presentata almeno dieci anni fa. Cosa è cambiato da allora? Nella composizione delle classi, nulla! Analizziamola insieme.

C’è V. con diagnosi di ritardo psicomotorio, immaturità cognitiva e psicoaffettiva; c’è T. con  disturbo dell’attenzione certificato; c’è G. con epilessia criptogenetica a crisi generalizzate; c’è A. che presenta importanti difficoltà di apprendimento nella letto-scrittura e che ha crisi di pianto continue dovute ad una complessa situazione familiare (orfana di padre e in affido perché la madre non riesce ad occuparsi di lei a tempo pieno); c’è F. celiaco; c’è M. che reagisce con opposizioni e atteggiamenti aggressivi quando si trova dinnanzi a dei nuovi compiti in cui sente di non riuscire; c’è N., figlio di genitori separati, intelligente e intuitivo, ma che purtroppo crede di essere il solo a dover essere ascoltato; c’è P., figlio di genitori cinesi, che vivendo in un ambiente familiare in cui la lingua parlata non è l’italiano, mostra notevoli difficoltà nella produzione e nella comprensione della comunicazione; c’è Y. di origine ucraina, arrivata ad aprile priva di qualsiasi forma di alfabetizzazione della lingua italiana; c’è R che presenta continui atteggiamenti aggressivi nei confronti dei compagni e delle insegnanti. Rifiuta qualsiasi forma di aiuto e  presenta enormi difficoltà nell’ambito degli apprendimenti; c’è S., figlia di genitori albanesi, che si presenta molto silenziosa tanto da non riuscire a capire dove termina l’educazione e dove inizia la totale assenza ed estraneazione; c’è E. che essendo molto emotiva spesso ha attacchi di incontinenza perché non riesce a controllare le sue ansie; c’è L. che crede di vivere in un film di fantascienza e si muove con le stesse modalità dei supereroi; c’è G. che spesso crea litigi ed incomprensioni poiché anche se solo le chiedi “come stai?” diventa permalosa e risponde urlando; c’è H. che è alla continua ricerca del proprio sé (a volte crede di essere un bambino e a volte una bambina) e assume atteggiamenti e comportamenti diversi a seconda di chi gli sta seduto accanto; c’è S. che sembra una piccola enciclopedia sconnessa poiché ha tante conoscenze che non è in grado di applicare nella quotidianità della vita; infine ci sono le “UNICHE SETTE” persone “NORMALI” della classe!

Ma a questo punto ci si chiede: “ESISTE LA NORMALITA’?” CHI LA DECIDE? O FORSE E’ PIUTTOSTO UNA CONDIZIONE CHE VIVIAMO, CHE SENTIAMO DENTRO QUANDO SIAMO INSERITI IN UN CONTESTO ACCETTANTE? Forse siamo proprio noi a dettare le leggi della normalità e della deviazione dalla norma!

Dal libro “Le radici filosofiche della differenza” di A. Nievo e L. Pasqualotto vi riporto quanto segue. Etimologicamente “differenza” deriva da “dis-ferre”, che significa “portare da una parte all’altra”, “portare oltre, in varie direzioni”, “portare qua e là”. Proprio per la sua differenza, ogni persona deve poter realizzarsi ed espandersi in tutta la sua originale pienezza, affermandosi come differente” non solo dagli altri ma anche da se stessa, dai propri limiti, dal proprio vissuto, dal proprio ambiente. Al fine di non deteriorarsi nel conformismo e nella ripetizione, deve coltivare le proprie doti, fare tesoro delle proprie esperienze, costruire rapporti interpersonali arricchenti, anche impegnarsi perché l’umanità tutta possa differenziarsi dal suo modo di essere attuale.

Il concetto di “diversità” da “dis-vertere”, (cioè volgere in opposta direzione) accentua quello di “differenza”. Esso richiama l’idea di dissomiglianza, di discostamento da una norma, da ciò che è più comune, diffuso, condiviso e che, nella sua accezione più negativa può richiedere talora interventi compensatori. La diversità pertanto, ancor più della differenza, richiede riconoscimento e rispetto, piuttosto che ambigue forme di aiuto e di sostegno, che più o meno consapevolmente tendono all’assimilazione.

Se riportiamo il discorso alla persona umana, definire “diverso” lo straniero, il disabile, l’anormale è ricorrere ad una categorizzazione generica per indicare una particolare diversità etnica, culturale, fisica, facendo così torto alla sua natura unica e irripetibile. Ogni individuo è diverso dall’altro nel suo vissuto, nelle potenzialità e nei limiti, nelle motivazioni, nello stile cognitivo e nelle competenze acquisite. Ad ognuno bisogna garantire quelle pari opportunità e quella apertura delle scuole A TUTTI sancite dagli art. 3 e 34 della Costituzione italiana, differenziando le proposte, personalizzando e individualizzando gli insegnamenti (DPR 275/99- L.53/2003), adattando la scuola e rendendola “inclusiva”.

In questo terzo numero della Rivista “Scuola for All” il filo rosso è dunque “l’inclusione”. Si è cercato in tutti i modi di dare un taglio reale, concreto! L’unione tra l’accademico e il pratico in un “ciclone prassico” intende guidare il lettore in uno dei temi più importanti che caratterizza la scuola reale, la scuola dell’oggi, della quotidianità. L’intento è quello di diffondere quanto più possibile le “buone pratiche” al fine di migliorarci e migliorare sempre più. Ha accolto questo invito un grande professionista, personalmente considerato da sempre “un punto bianco in un mondo nero”, Dario Ianes.  Non ha mai portato il vecchio nel nuovo. Ha sempre “innovato”. Ancora una volta lo fa per noi offrendoci un meraviglioso contributo “Univers-quità. Prosegue nella stessa ottica l’articolo di Roberto Turolla e Patrizia Todaro “Per aspera ad astra”. Lui  scrittore cieco dalla nascita, la cui disabilità non gli ha impedito di realizzare il sogno che da sempre ha coltivato. Lei, docente di filosofia che dopo l’incontro con Roberto ci riporta le sue riflessioni sull’outcome educativo, “… sull’evidente ed inequivocabile successo formativo ed esistenziale di un ragazzo che oggi considera l’esempio vivente dell’efficacia didattica”. Un articolo che rende concreto e percepibile quel connubio di cui parlavo prima. Infine si entra nel merito dei singoli articoli che affrontano in modo preciso e qualificato un timone complesso come quello proposto. Dall’analisi storica proposta nell’articolo “La storia della parola handicap” di Pietro Salvatore Reina, all’analisi del Decreto legislativo 66 del 2017 “Il successo formativo di tutti e di ciascuno” di Rosaria Perillo. Altrettanto interessanti e ricchi di riflessioni, spunti di lavoro concreti, replicabili e realizzabili, tutti gli altri articoli. Buona lettura a tutti.

“UNIVERS-QUITA’”

Il discorso inclusivo ci porta all’Univers-quità

In questi ultimi 10 anni si è diffuso gradualmente ma inesorabilmente il discorso di una scuola inclusiva, con la consapevolezza che inclusione non è soltanto un’integrazione degli alunni/e con disabilitá fatta un po’ meglio ma è qualcosa di molto più ampio, che coinvolge il 100% degli alunni/e, con l’infinita varietà delle loro differenze, con il loro diritto ad una piena personalizzazione, per evitare che quelle differenze diventino diversità negative, fonte poi di disuguaglianza e di espulsione.

Dalla disabilitá si è passati ai DSA, alle varie forme di BES e finalmente a tutte le differenze. In questa tendenza allora il discorso “inclusione” può sembrare stretto e troppo pieno di contenuti, anche emozionali, centrati sui “problemi” o sui “deficit” soltanto di alcuni alunni/e. Un passo concettuale in avanti potrebbe giovarsi di una prospettiva nuova, che ponga alla base delle sue pratiche due temi, quello dell’universalità e quello dell’equità (uniti nella nuova espressione univers-quità). Una didattica ed un’educazione universale renderebbe superfluo parlare di didattica inclusiva, perché la didattica per tutti sarebbe organizzata dall’inizio, nella sua prima progettazione (vedi l’Universal design for learning) come talmente plurale da poter essere adatta alle diverse forme di apprendimento.

La prospettiva universalistica si fonda su alcune conoscenze ormai patrimonio comune: ogni alunno è differente, questa differenza è comprensibile nelle fasi dell’apprendimento, dalla rappresentazione delle conoscenze, all’espressione e azione alla motivazione e dimensione emozionale che fornisce l’energia. Su questi tre fronti una didattica universale offre molti e diversi modi per rappresentarsi la realtà, per agire su di essa e per coinvolgersi attivamente.

Una didattica plurale riesce ad intercettare positivamente il più possibile di differenze, idealmente una didattica totalmente universale andrebbe bene per tutti, qualunque sia la loro condizione, senza chiedere successive e spesso maldestre correzioni e aggiustamenti. Il secondo tema necessario è quello dell’equità, e cioè di una scuola che persegua un forma “super” di giustizia, riuscendo ad avere la volontà e il coraggio di “fare differenze” in positivo, dare di più a chi ha di meno, per compensare quelle differenze che altrimenti diventerebbero ferite all’uguaglianza tra gli alunni/e.

Una scuola che usa le risorse per garantire davvero pari opportunità e non tollera che a danno degli alunni più deboli vengano perpetrate ingiustizie, quali emarginazioni ed esclusioni. Si vedano a tal proposito i recenti dati ISTAT sulla scarsa partecipazione degli alunni con disabilità alle gite scolastiche con pernottamento. Il discorso inclusivo, se vuole davvero allargare il proprio orizzonte, dovrà camminare sulle gambe dell’universalità (il pensiero tecnico) e dell’equità (la necessità etico politica).

L’ora curricolare di alfabetizzazione emotiva in classe

intelligenza emotiva e alfabetizzazione emotiva“Nessun apprendimento avviene a prescindere dai sentimenti dei ragazzi. Sentimenti che scaturiscono dai rapporti con gli altri. Ai fini dell’apprendimento, l’alfabetizzazione emozionale è importante almeno come la matematica e la lettura.” Con queste parole, Karen Stone McCown, citata da Daniel Goleman, spiega il programma didattico che ha elaborato per l’apprendimento della Scienza del sé al Neuva Learning Center di San Francisco, la scuola che può essere considerata un vero e proprio corso modello di intelligenza emotiva. L’esperienza, negli ultimi anni replicata con successo nelle scuole spagnole, ha radici negli anni ’60 dello scorso secolo, allorquando si diffonde negli Stati Uniti d’America un movimento per l’educazione affettiva.

Ne ho parlato nei giorni scorsi con l’On. Maria Teresa Bellucci. A lei ho presentato l’idea di introdurre anche in Italia, già a partire dall’Anno Scolastico 2018/2019, un’ora curricolare a settimana  di intelligenza emotiva in classe. L’articolo che segue contiene le motivazioni che possono portare ad un Disegno di Legge per far crescere la nostra scuola. Il prossimo passo sarà una conferenza stampa alla Camera dei Deputati.

Leggi tutto “L’ora curricolare di alfabetizzazione emotiva in classe”

Intelligenza emotiva e competenza

Da un passo di Seneca apprendiamo che già nella Roma di Nerone, il filosofo lamentava il modo di insegnare dei suoi tempi : “non scholae, sed vitae discimus“;  ribadiva infatti, il sapiente, che non si studia per la scuola, ma per la vita…

Nulla di nuovo quindi sotto il sole, quando, con maggior senso critico e precisione didattica, si è tornati a porre l’accento su quanto sia importante lavorare nell’apprendimento senza perdere di vista quelle che devono essere le finalità dell’azione educativa: formare il cittadino, aprire la sua mente e il suo cuore (oserei dire), permettendogli di vivere in questa società complessa e in continuo divenire da vero protagonista positivo, ossia come “essere” consapevole di se stesso e delle sue potenzialità  emotive e intellettive, empatico, aderente ai principi filantropici, in continua crescita culturale, come suggerisce lo stile cognitivo del long life learning, competente.

E’ un ideale di humanitas, in un certo senso, in cui si può leggere l’eco del terenziano homo sum, humani nihil a me alienum puto: sono un essere umano, non ritengo estraneo a me nulla di ciò che riguarda l’uomo, ma anche del panta rei di Eraclito: tutto scorre , tutto si trasforma e in questo processo di cambiamento siamo inseriti anche noi e rischiamo di diventare desueti se non ci adeguiamo ai cambiamenti e all’innovazione.

Nel panorama attuale, per la realizzazione del cittadino esemplare si affiancano due percorsi che finiscono per diventare  complementari tra loro: la didattica per competenze e l’educazione emotiva.

L’efficacia dell’azione educativa diventa fondamentale e così gli elementi che contribuiscono a determinarla: l’aspetto tecnico, che cosa si fa; quello emotivo , come si fa;  la motivazione, perché si fa qualcosa.  (Stefano Centonze)

La didattica per competenze si concentra soprattutto sull’aspetto tecnico, sul “che cosa si fa“, ma offre anche risposte motivazionali e accompagna la scuola verso un percorso innovativo in cui il discente diventa protagonista del processo di apprendimento.

Nella didattica per competenze il docente figura come facilitatore; l’apprendimento diventa un fatto soprattutto sociale in quanto si prediligono sopratutto esperienze di peer tutoring, laboratorialità, gruppi cooperativi e discussione.

Viene privilegiata l’esperienza attiva , concreta, in contesti significativi e reali.

Torniamo ora all’aspetto emotivo.

Nel suo libro, L’ospite inquietante, il sociologo Umberto Galimberti osserva che l’uomo del nostro tempo ha indurito il cuore, quel nucleo caldo della sua identità, che nei primi anni della vita elabora le mappe emotive che in seguito lo guideranno, dettando i suoi atteggiamenti nel rapporto con se stesso e con gli altri.

Nei primi tre anni di vita il bambino deve essere ascoltato, seguito ed accudito con la massima attenzione da parte dei genitori, altrimenti penserà di non valere niente e il processo di elaborazione dell’identità personale verrà alterato.  Un atteggiamento genitoriale positivo e presente permetterà  di passare dall’impulso, ossia dal gesto di risposta istintivo ad uno stimolo emotivo, all’emozione vera e propria, consapevole di un processo e infine al sentimento, la forma più evoluta perché non è basata solo sull’emozione ma è un fatto anche cognitivo. Il sentimento infatti si apprende e  consente di percepire il mondo esterno e gli altri in maniera adeguata.

Ed è a questo punto che entra in funzione la scuola. La letteratura ci insegna che cos’è l’amore, la noia, il dolore…  se vogliamo che i ragazzi apprendano che cos’è il sentimento, dobbiamo motivarli, interessarli e coinvolgerli, appassionarli alla lettura.

Ora, se nel passato, intelligenza ed emozioni erano considerati quasi antonimi, recentemente  la testa e il cuore sono considerate due facce della stessa medaglia, e si pensa che non possa esserci un comportamento intelligente senza le emozioni.

La storia del termine “intelligenza emotiva” sicuramente richiama l’opera di Howard Gardner, Formae mentis, che nel 1987 ha introdotto il tema delle intelligenze multiple, introducendo un’interessante riflessione sui molteplici aspetti dell’intelligenza.

Le intelligenze si classificano facendo riferimento a due grandi categorie: intrapersonali, manifestano la capacità di comprendere la propria interiorità,  interpersonali, gestiscono in maniera intelligente le relazioni con l’altro.

Nel 1995 poi, Goleman  nel suo best seller Intelligenza emotiva, definisce questo tipo particolare di intelligenza come un insieme di competenze fondamentali per saper bene affrontare la vita. Si tratta della capacità di motivare se stessi, persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo, evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare.

L’intelligenza emotiva si basa quindi su due grandi competenze:

una competenza personale: la consapevolezza e la padronanza di sé, la motivazione;

una competenza sociale: consiste nello stabilire relazioni con gli altri, nello sviluppo dell’empatia, nella capacità di saper indirizzare anche gli stati d’animo altrui.

E’ quindi evidente che questo genere di competenze aiutano a vivere meglio, guidano l’individuo nel raggiungimento dei propri obiettivi, nella comunicazione con gli altri, nella gestione dei conflitti, nel reagire di fronte alle difficoltà, nella guida di gruppi, mi riferisco alla leadership, ma anche a forme più semplici di management.

Ci sono quindi numerosi aspetti sui quali riflettere, perché l’azione didattica se non viene adeguatamente motivata e sostenuta a livello emotivo rischia di diventare “una cattedrale nel deserto”.

Per aspera ad astra

Terza lezione di scrittura per noir, Torino letteraria. Mi inserisco a corso iniziato e irrompo nella sala carica di entusiasmo. Il primo ad avvertire la mia presenza è un ragazzo seduto di fronte a me, che mi porge immediatamente la mano non soltanto per presentarsi e per accogliermi, ma per conoscermi attraverso il tatto, l’olfatto, l’udito. Con la stretta di mano più lunga della mia vita, intuisco che deve aver apprezzato particolarmente la mia sensibilità, disponibilità ed empatia e subito nasce tra noi un’intesa che raramente, tra umani, si instaura.

Nel corso dei mesi, mentre io sono costretta dalle circostanze ad impiegare le mie risorse in caleidoscopici progetti che si declinano in un numero incredibile di attività, lui pubblica due romanzi, perfeziona le competenze nell’uso della chitarra e si manifesta in un’esplosione di virtù, capacità e abilità straordinarie. E’ un eccezionale amico!

Come docente di Filosofia, specializzata su sostegno e con un’esperienza didattica di tre lustri, non posso fare a meno di concentrarmi sull’outcome educativo, sull’evidente ed inequivocabile successo formativo ed esistenziale di un ragazzo che io oggi considero l’esempio vivente dell’efficacia didattica. Una persona che si è formata in un ambiente di apprendimento indubbiamente inclusivo nei principi e nella pratica. Un luogo educativo che non avrebbe trasformato il discente-scrittore-chitarrista in un maestro di vita se quest’ultimo non avesse avuto le intelligenze e i talenti che ha espresso nella massima ampiezza possibile.

La domanda è: quale scintilla ha permesso di neutralizzare il buio con tale gloriosa vittoria?

Impegno, autoironia, spirito di sacrificio e forza di volontà sono le sole scintille in grado di annientare il buio. Appena ho stretto la mano a Patrizia ho percepito subito che sarebbe stato “amore a prima svista”. Gli eventi mi hanno dato ragione: in breve tempo è diventata una delle mie amiche più preziose. Mi chiamo Roberto, ho trentun’anni e sono non vedente dalla nascita. Tutto ciò che ho conquistato nella mia vita me lo sono guadagnato combattendo, senza arretrare mai, da solo e col sostegno della mia famiglia. Studiare è sempre stato il mio obiettivo primario. Ne ho dato prova fin dalle elementari. Le medie, condizionate da episodi di bullismo anche molto pesanti, sia fisico che psicologico, sono state il periodo più duro. Per difendermi ho deciso di non parlarne a casa e procedere comunque per la mia strada con grinta, determinazione e metodicità, caricando a testa bassa come un toro, umiliando i miei oppressori con la miglior strategia che avessi: il rendimento scolastico in cui, al contrario di loro, eccellevo.

Grazie ai docenti del classico di Casale sono tornato a ruggire: ho scoperto l’autoironia e il migliore degli ambienti in cui proseguire gli studi, seguito da persone preparate, competenti, empaticamente e umanamente attrezzate, nel quale il bullismo non solo non era praticato, ma neanche concepito. Nel 2013 mi sono laureato con lode alla specialistica in letteratura, filologia e linguistica italiana a Torino, dopodiché ho iniziato a seguire corsi di scrittura con Massimo Tallone, grazie a cui ho pubblicato con Golem nel 2017 Racconti del buio, e pochi giorni fa Il salto del salmone.

Paralellamente ho sempre coltivato gli studi di chitarra classica e negli ultimi anni ho acquisito un’indipendenza pressoché totale sia in casa che col bastone bianco, da me affettuosamente soprannominato Excalibur. Combattere e impegnarmi al massimo in ogni cosa che faccio è una scelta, la sola plausibile per vivere la mia vita. Le alternative, benché siano a loro volta scelte, non sono neanche degne di essere menzionate.

Nel segno della parola handicap

Storia di una parola

Il sostantivo handicap, di origine inglese, dalla locuzione «hand in the cap», ovvero «porre la mano nel cappello» per estrarre le monete, un gioco d’azzardo assai diffuso nel Seicento. Dal significato originale legato al gioco e allo sport la parola handicap è stata poi utilizzata alla fine dell’Ottocento per indicare, in generale, il modo di equilibrare una condizione, uno status compensando le «diversità», divenendo quindi sinonimo di «impedimento». Solo agli inizi del Novecento è stata adoperata in riferimento ai disabili e applicata ai bambini con una menomazione fisica.

L’handicap nella normativa scolastica italiana

L’odierno D. Lgs. n. 66/2017 Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità costituisce una sorta di nuovo Testo unico per l’integrazione scolastica dei soggetti con disabilità. Esso costituisce il punto d’arrivo d’un lungo percorso. Un viaggio, però, che parte dalla nostra Carta costituzionale che volge la sua attenzione, con saggezza ed autorità, alla tutela della «persona» (art. 3, comma 2 «persona umana» letta – come con acume sottolinea il dirigente scolastico Giuseppe Mariani – attraverso le tre culture [cristiana, illuminista, socialista] che sono alla base della nostra civiltà italiana ed europea).

Il termine handicap è stato introdotto nella normativa scolastica con la L. 517/1977.

Il termine handicap è normalmente adottato dalla legislazione italiana, ricordiamo le seguenti norme:

  • Legge 5 febbraio 1992, n. 104 Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (il testo vigente della L. 104/1992, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, ha ricevuto le ultime modifiche introdotte dalla Legge n. 53/2000 e dal D. Lgs. n. 151/2001).
  • Legge 8 marzo 2000, n. 53, art. 1, c. 1, lett. -a): l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori soggetti portatori di handicap
  • D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 42 Riposi e permessi per i figli con handicap grave
  • D. Lgs. 18 luglio 2011, n. 119 Attuazione dell’art. 23 della L. 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi: dall’art. 3 in avanti il termine utilizzato è handicap

La «corretta» definizione di persona handicappata si trova nell’articolo 3 (Soggetti aventi diritto), c 1,  della Legge n. 104/1992

«è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».

Il termine disabilità, invece, è stato introdotto nella normativa scolastica dalle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (MIUR, nota 4 agosto 2009 prot. n. 4274). Tale termine (in inglese disability) proviene dagli accordi internazionali ove è normalmente utilizzato, ad es.:

  • nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (art.1), approvata il 16 dicembre 2006 dall’Assemblea delle Nazioni Unite
  • nella Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) approvata il 22 maggio 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Si noti, infine, che nelle più recenti leggi, quali la n. 128/2013 e la n. 107/2015, viene adottato costantemente il termine disabilità.

In qualche circostanza (L. 244/ 2007, art. 2, c. 413 e 414) è usata la locuzione alunni diversamente abili.