Il principio di accountability alla base della rendicontazione sociale nelle Istituzioni Scolastiche

Come è noto, con la rendicontazione sociale si realizza la fase conclusiva del ciclo di valutazione delle Scuole, secondo quanto previsto dal D.P.R. 80/2013.

Con la recentissima nota n. 17832, del 16/10/2018, il MIUR, oltre a dettare alcune indicazioni generali per la predisposizione del PTOF 2019/2022, “documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”, grazie al quale si realizza il confronto e la partecipazione tra tutte le componenti dell’“universo” scuola (personale, famiglie e studenti) e le “diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio”, ha altresì fornito le prime informazioni per la predisposizione della Rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche, statali e paritarie, prevista dall’art. 6, comma 1, lett. d) del D.P.R. 80/2013.

Al fine di armonizzare e allineare la tempistica del RAV con quella del Piano triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), la rendicontazione sociale va quindi intrapresa al termine dell’anno scolastico 2018/19 con l’analisi dei risultati raggiunti in riferimento alle azioni realizzate per il miglioramento degli esiti. L’effettivo procedimento di rendicontazione, da realizzare attraverso la “pubblicazione e diffusione dei risultati raggiunti”, sarà poi effettuato entro dicembre 2019.

Con un’ulteriore nota pubblicata il 22/05/2019, il MIUR ha infine dettato la sequenza logica cui deve attenersi ogni istituzione scolastica:

  1. verificare con la Rendicontazione sociale il percorso svolto nella triennalità precedente;
  2. individuare le priorità da perseguire nella successiva triennalità attraverso il RAV;
  3. pianificare il miglioramento con il PdM, al fine di definire l’offerta formativa con il nuovo PTOF in cui deve essere indicato il medesimo PdM.

Con la rendicontazione, quindi, vengono resi noti i risultati raggiunti in relazione agli obiettivi di miglioramento e vengono orientate le scelte future, secondo la sequenza sopra riportata. Per la prima volta, tutte le scuole sono chiamate a rendere conto dei risultati raggiunti con riferimento alle priorità e ai traguardi individuati al termine del processo di autovalutazione. La rendicontazione dovrà essere predisposta in un’apposita piattaforma di riferimento, che sarà resa disponibile, all’interno del portale del Sistema nazionale di valutazione (SNV), dal 30 maggio al 31 dicembre 2019. L’attività di rendicontazione dovrà concludersi entro il mese di dicembre 2019 con la pubblicazione della medesima nel portale “Scuola in Chiaro”, eccettuate situazioni particolari per le quali viene indicata una diversa tempistica nella “Nota metodologica e guida operativa” presente in piattaforma.

Alla base del processo della rendicontazione sociale, il cui concetto – giova ricordarlo – è entrato nel quadro ordinamentale italiano solo di recente, con il D. Lgs. 150/2009 e, per quel che riguarda più da vicino la scuola, con il D.P.R. 80/2013, troviamo un principio, quello della c.d. “accountability”, che va declinato in una logica non meramente amministrativa (logica dell’adempimento), in forza della quale la rendicontazione sociale è imposta in modo centralistico e uniforme a tutti gli istituti scolastici secondo schemi rigidamente prestabiliti a fini di controllo e comparabilità, ma gestionale (responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi) e cooperativa. In tale logica, la scuola dà conto ed evidenza dei risultati di gestione conseguiti, all’esterno prima ancora che al suo interno, e la rendicontazione sociale recupera una fondamentale dimensione di condivisione, caratterizzandosi come un processo volontario che nasce dalla consapevolezza del dovere di render conto ai portatori di interessi (stakeholder) circa l’uso che viene fatto dell’autonomia scolastica.

Il D.P.R. 80/2013 definisce la fase di rendicontazione sociale in questi termini: “pubblicazione, diffusione dei risultati raggiunti, attraverso indicatori e dati comparabili, sia in una dimensione di trasparenza sia in una dimensione di condivisione e promozione al miglioramento del servizio con la comunità di appartenenza”. In tale contesto normativo, il riferimento alla comunità di appartenenza è esplicito ed è interpretato in chiave di trasparenza e di condivisione e promozione al miglioramento. In quest’ottica, Il D.P.R. 80/2013 pone alle scuole un traguardo ambizioso, da raggiungere come ultima fase del Sistema Nazionale di Valutazione, in una prospettiva non statica e definitiva, come punto di arrivo acquisito una volta per tutte, ma dinamica e in continuo divenire, in una spirale di crescita in vista della quale il riesame degli esiti raggiunti è alla base del piano di miglioramento della scuola. In tale prospettiva, la rendicontazione sociale assolve al fondamentale obiettivo di dimostrare ai “portatori di interesse” e alla comunità sociale di appartenenza che gli obiettivi strategici adottati nel PTOF sono stati perseguiti e che grazie ad essi la scuola ha prodotto del “valore aggiunto”.

L’azione di rendicontazione sociale deve quindi essere orientata al senso di responsabilità (accountability), come già messo in evidenza dalla Direttiva del DFP del 17/2/2006, relativa all’applicazione nelle pubbliche amministrazioni del bilancio sociale: ogni Istituzione è responsabile degli effetti che la propria azione produce nei confronti dei suoi interlocutori e della comunità; di conseguenza, dalla responsabilità discende il dovere di dar conto della propria azione ai diversi interlocutori (in primis agli studenti e alle loro famiglie, ma anche agli enti pubblici e ai soggetti privati – imprese, associazioni, fondazioni … -, fino ai comuni cittadini), costruendo con essi un dialogo permanente e un rapporto fiduciario.

In generale, “accountability” significa quindi “render conto” e, di conseguenza, “assumersi la responsabilità di ciò che si dichiara”. Può essere in sintesi definita come l’azione e il conseguente impegno di una organizzazione di dare conto delle scelte effettuate, delle attività intraprese e dei vantaggi realizzati per i propri interlocutori. Per le organizzazioni sia pubbliche che private, “accountability” indica la realizzazione di un sistema di responsabilità che rende chiare ed evidenti le relazioni esistenti tra le scelte e le decisioni prese, le attività realizzate e i parametri di controllo degli effetti e dei risultati, attraverso indicatori misurabili e confrontabili in senso qualitativo e quantitativo. Tale azione consente all’organizzazione di dare conto ai cittadini del proprio operato, rendendo trasparenti e comprensibili all’esterno i programmi, le attività e i risultati raggiunti per lo sviluppo sostenibile del territorio e della comunità di riferimento. Gli strumenti di accountability sono strumenti capaci di avviare un processo di cambiamento e di miglioramento dell’attività delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni in generale, e al tempo stesso in grado di contribuire a rendere la loro azione sempre più in sintonia con le esigenze dei cittadini – nella logica del principio di sussidiarietà – e sempre più efficace nella realizzazione degli impegni assunti. Diventare più “accountable”, aumentare il proprio livello di “accountability” significa, quindi, essere più responsabili ed efficaci agli occhi della società e della collettività di riferimento.

Nello specifico, per quel che concerne le Istituzioni scolastiche, la rendicontazione sociale è fortemente connotata dalle caratteristiche del contesto di riferimento ed è bene che sia lasciata all’autonomia delle singole scuole. In una scuola che si autoregolamenta attraverso un proprio Statuto, la rendicontazione è infatti elemento costituente l’autonomia stessa, in quanto è uno strumento al servizio dell’autonomia scolastica e dei processi di valutazione. Nella costruzione del bilancio sociale, la scuola deve quindi svolgere un ruolo attivo, esplicitando la sua visione etico-culturale, i valori sui quali ha deciso di investire le sue risorse, il patto da stipulare con gli stakeholder; deve inoltre predisporre alla formazione e alla consapevole condivisione di una cultura della responsabilità e dell’accountability tutto il personale scolastico; deve avere a disposizione una struttura organizzativa coerente con gli esiti della valutazione e del monitoraggio dei risultati e funzionale alla rendicontazione e alla divulgazione di tali risultati; deve infine tenere soprattutto conto del livello di impatto o di efficacia sociale e delle conseguenze, per la comunità di riferimento, derivanti dalla produzione del peculiare “output” didattico che le è proprio, vale a dire la qualità del servizio educativo erogato.

In tale prospettiva, emerge oggi con sempre maggior forza anche nel mondo della scuola l’esigenza di “rendicontare”, di dimostrare agli stakeholder in modo trasparente il livello sia qualitativo che quantitativo delle attività scolastiche progettate e attuate in una logica sistemica, nonché il “guadagno educativo” che la scuola è capace di assicurare, valorizzando al meglio le risorse a disposizione (finanziarie, strumentali, umane, di contesto sociale) e stipulando con tutti i “portatori di interesse” un nuovo patto sociale, in vista del successo formativo degli studenti.

L’avvio di un percorso di rendicontazione sociale è quindi, per la scuola, un’importante occasione per riflettere sistematicamente su se stessa, sui propri valori e obiettivi, sulla propria missione, per promuovere innovazione e miglioramento delle proprie prestazioni, per identificare i propri stakeholder e attivare con essi significativi momenti di dialogo, di confronto, di partecipazione e di collaborazione. Come osserva Damiano Previtali, “la qualità del processo di rendicontazione incide direttamente sulla capacità […] di rispondere alle esigenze conoscitive dei diversi interlocutori e di costruire con essi un dialogo permanente, dando piena attuazione al principio della responsabilità sociale” (“La scuola con valore sociale sussidiarietà e rendicontazione sociale nelle scuole dell’autonomia”). Leggi tutto “Il principio di accountability alla base della rendicontazione sociale nelle Istituzioni Scolastiche”

I rapporti tra le fonti del diritto dell’U.E. e le fonti dell’ordinamento italiano. Il primato del diritto europeo e il suo impatto sugli ordinamenti nazionali

Il principio del primato del diritto dell’Unione Europea sui diritti nazionali trova il suo fondamento giuridico nei Trattati ed in alcune disposizioni costituzionali:

  1. Art. 4 par. 3 del TUE: «In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. […] Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione».
  2. Art. 11 Cost.: «l’Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
  3. Art. 117, co. 1 Cost.: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Va a tale riguardo ricordato che la Costituzione italiana, sino alla l. cost. n. 3/2001, non prevedeva una disposizione esplicita riguardante i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (art. 117, co. 1, Cost.), a differenza di altre esperienze costituzionali (artt. 23 e 24 Legge fondamentale Germania 1949; artt. da 88-1 ss. Cost. Francia 1958; artt. 93 ss. Cost. Spagna 1978). Ciò non vuol dire, però, che la partecipazione italiana alle Comunità europee (prima) e all’U.E. (poi) sia rimasta priva di copertura costituzionale: sia la dottrina maggioritaria che la giurisprudenza costituzionale hanno infatti individuato il fondamento costituzionale dell’integrazione europea nella seconda proposizione dell’art. 11 Cost., laddove si prevede che l’Italia consente «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni». Il novellato art. 117 Cost. pone, oggi, alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, tre vincoli: il rispetto della Costituzione, il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e il rispetto degli obblighi internazionali. Il rapporto tra il Diritto comunitario e quello dei singoli stati membri, distinti e separati, è stato affrontato sin da subito dalle Istituzioni dell’U.E., anche in virtù del timore che il Diritto comunitario invadesse del tutto gli spazi propri dei singoli paesi.

Il recepimento e l’attuazione del diritto dell’U.E. non immediatamente applicabile (Direttive) avviene in base ad un meccanismo stabilito dapprima con la l. n. 86/1989 (c.d. La Pergola) e, successivamente, con la l. n. 11/2005, che definisce l’iter per l’attuazione delle Direttive europee in Italia: entro il 31 gennaio di ogni anno, le Camere, su proposta del Governo, approvano una legge (c.d. comunitaria), con la quale si recepiscono in blocco le norme e le Direttive dell’U.E. e si dettano le disposizioni necessarie per dare esecuzione al diritto comunitario. In linea di massima la conversione deve essere disposta dal Parlamento entro il 31 marzo. Le disposizioni comunitarie possono essere recepite o direttamente con l’emanazione di una vera e propria legge, o tramite il conferimento di deleghe legislative al Governo o alle Regioni (con il sistema della legge-quadro sui principi e le questioni di carattere generale da rispettare), oppure attraverso l’adozione di regolamenti governativi, anche di delegificazione, o infine con semplici atti amministrativi o con atti legislativi delle Regioni, nelle materie di loro competenza. Con la riforma del Titolo V della Costituzione anche le Regioni, infatti, nelle loro competenze concorrenti o residuali, devono dare attuazione alle norme dell’Unione Europea.

I rapporti tra le fonti del diritto dell’U.E. e le fonti dell’ordinamento italiano (in particolare, le fonti primarie, vale a dire la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati, decreti legislativi e decreti-legge) si sono evoluti nel tempo ad opera della giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana e della Corte di giustizia delle Comunità europee.

Nei primi anni ’60 si è verificato un contrasto tra la Corte costituzionale italiana e la Corte di giustizia delle Comunità europee sul valore da attribuire alle fonti del diritto comunitario. La Corte costituzionale sosteneva infatti che il diritto comunitario ha natura di diritto internazionale pattizio, sicché i suoi principi e le sue fonti acquistano efficacia giuridica soltanto per il tramite delle leggi di adattamento, che sono derogabili dalla lex posterior (Corte cost. sentenza n. 14/1964, Costa). In un primo momento quindi (1964), la Corte costituzionale ha impostato la questione delle possibili antinomie – ossia di tutti quei casi in cui vi è incompatibilità tra due norme che disciplinano la medesima fattispecie, in modo tale che l’applicazione dell’una esclude l’applicazione dell’altra – utilizzando il criterio cronologico (lex posterior derogat priori), che comporta l’abrogazione della norma anteriore ad opera della successiva di pari grado. A sua volta, la Corte di giustizia affermava che il diritto comunitario è un ordinamento giuridico sui generis, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, e che attribuisce direttamente diritti agli individui (CGCE, sentenza Van Gend en Loos, causa 26/62).

A sua volta, la giurisprudenza costituzionale, nel 1973, pur riaffermando la netta separazione di competenze tra l’ordinamento interno e l’ordinamento comunitario, ha rivisto la sua iniziale posizione e ha finito con l’ammettere, in accoglimento della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, il primato dei regolamenti comunitari sulle leggi statali e la loro applicabilità diretta. Infatti, in quell’occasione la Corte costituzionale è giunta ad ammettere la capacità dei regolamenti comunitari di abrogare leggi statali anteriori e di resistere all’abrogazione da parte di leggi successive, tentando di affermare, però, successivamente, la tesi secondo la quale le norme nazionali non potessero essere direttamente disapplicate ma dovessero essere dichiarate incostituzionali per contrasto con l’art. 11 Cost. (sentenza n. 232 del 1975: incostituzionalità di una legge statale contrastante con un regolamento comunitario precedente per violazione indiretta dell’art. 11 Cost.).

Successivamente, sulla scorta dei principi della sentenza Van Gend en Loos, la Corte di giustizia ha affermato definitivamente la prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionali con la sentenza Simmenthal (causa 106/77): «In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere “ipso jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri – di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali , nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie».

Un passo in avanti decisivo si è poi avuto nel 1984: con la storica sentenza Granital (sentenza n. 170 del 1984), la Corte costituzionale, facendo proprio l’orientamento della Corte di giustizia delle Comunità europee, ha sostenuto non già il proprio ruolo necessario nel dichiarare costituzionalmente illegittima una legge successiva per contrasto con un regolamento comunitario, ma, al contrario, il potere-dovere di ciascun giudice di procedere alla disapplicazione (più correttamente: alla non applicazione) del diritto interno contrastante con le norme comunitarie immediatamente applicabili. La giurisprudenza costituzionale ha così sposato la tesi della prevalenza immediata delle norme comunitarie, confermando tuttavia la natura «dualistica del rapporto»: l’ordinamento nazionale e quello internazionale (comunitario) sono due ordinamenti separati e distinti e la supremazia del secondo è assoluta, diretta ed immediata. Il Diritto comunitario non abroga le norme contrastanti interne ai vari stati membri, ma le rende inefficaci, in modo tale che i Giudici nazionali possono direttamente disapplicarle, senza che intervenga la Corte costituzionale con una pronuncia di incostituzionalità.

Nella categoria delle norme comunitarie immediatamente applicabili vengono poi fatte rientrare non soltanto le suddette direttive autoapplicative, ma anche le sentenze interpretative e quelle di inadempimento della Corte di giustizia dell’U.E. Proseguendo su questa linea, la Corte costituzionale ha mantenuto ferma la sua competenza in ordine alla sindacabilità di leggi regionali contrastanti con il diritto dell’U.E. impugnate nel corso di un giudizio in via principale ed è persino giunta ad affermare l’idoneità dei regolamenti comunitari a derogare a disposizioni costituzionali, fermo restando il rispetto dei soli principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e nei diritti inviolabili della persona umana, che costituiscono i c.d. controlimiti costituzionali alle limitazioni di sovranità.

La disapplicazione di un atto normativo è un potere che spetta a un qualsiasi Giudice nel corso di un giudizio, ai fini della risoluzione di un’antinomia all’interno di un ordinamento giuridico. La disapplicazione è infatti, al pari dell’abrogazione o dell’annullamento, uno dei modi di cessazione di efficacia di un atto normativo, ma, mentre l’abrogazione e l’annullamento hanno una incidenza erga omnes, la disapplicazione ha incidenza soltanto inter partes, cioè limitatamente alle parti del giudizio. Soggetti obbligati al principio di prevalenza del Diritto dell’U.E. sono tutte le autorità nazionali chiamate ad applicare il diritto europeo, vale a dire:

  1. i Giudici nazionali: «il giudice nazionale è tenuto a dare a una disposizione di diritto interno, avvalendosi per intero del margine di discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale, un’interpretazione ed un’applicazione conformi alle prescrizioni del diritto comunitario. Se una siffatta applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che quest’ultimo conferisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno» (Sentenza Frigerio, causa C-357/06)
  2. le Amministrazioni: sono soggetti al principio del primato del diritto dell’Unione tutti gli organi dell’Amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, nei confronti dei quali i singoli sono pertanto legittimati a far valere una disposizione comunitaria contrastante con un atto di diritto interno (Sentenza Ciola, causa C-224/97).

Suscettibili di disapplicazione possono essere non solo gli atti regolamentari, ma anche gli stessi atti legislativi; è da rilevare, anzi, che la disapplicazione della legge costituisce la tipica modalità attraverso cui si esplicita il c.d. “sindacato diffuso di costituzionalità”, affidato – come nel caso degli U.S.A. a partire dal 1803 – non ad un organo costituito ad hoc (la Corte costituzionale), ma ad ogni singolo giudice. La Corte di giustizia ha quindi affermato che il diritto dell’Unione è idoneo ad imporsi, in generale, su qualsiasi atto o fatto avente valore «normativo»:

La Corte ha del pari considerato che è incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino, anche temporaneamente, alla piena efficacia delle norme comunitarie” (sentenza Factortame, causa 213/89).

La prevalenza opera anche rispetto alle norme costituzionali degli Stati membri (Sentenza Kreil, causa C-285/95).

Il diritto dell’Unione è idoneo a prevalere non soltanto sugli atti aventi forza di legge e sugli atti amministrativi a portata generale (regolamenti), ma anche sugli atti a carattere particolare:

La Corte ha inizialmente affermato che spetta eventualmente al giudice nazionale disapplicare le disposizioni contrastanti della legge interna; essa, in seguito, ha precisato tale giurisprudenza sotto un duplice profilo. Risulta, infatti, da quest’ultima che, da un lato, sono soggetti a tale principio di preminenza tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, nei confronti dei quali i singoli sono pertanto legittimati a far valere tale disposizione comunitaria. D’altro lato, tra le disposizioni di diritto interno in contrasto con la detta disposizione comunitaria possono figurare disposizioni vuoi legislative, vuoi amministrative. È nella logica di tale giurisprudenza che le disposizioni amministrative di diritto interno di cui sopra non includano unicamente norme generali ed astratte, ma anche provvedimenti amministrativi individuali e concreti”. (sentenza Ciola, causa C-224/97).

La prevalenza del diritto dell’Unione è stata affermata, da alcune sentenze della Corte di Giustizia, anche in relazione al contenuto di sentenze passate in giudicato:

  • Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva” (Sentenza Lucchini, causa C-119/05).
  • Il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta” (sentenza Olimpiclub, causa C-2/08).

Sono stati, ad ogni modo, individuati alcuni «controlimiti» all’applicazione della regola del primato del diritto dell’Unione, volti a bilanciare le esigenze di effettività del diritto comunitario con il rispetto dei diritti degli individui e con il principio di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche:

  • Limite all’ingresso nell’ordinamento nazionale di disposizioni comunitarie contrastanti con i diritti fondamentali ed i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
  • Limite alla disapplicazione di provvedimenti amministrativi divenuti definitivi.
  • Limite alla disapplicazione del giudicato.
  • Limite alla disapplicazione contra reum di norme penali contrastanti con il diritto dell’Unione.

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Le fonti del diritto dell’Unione Europea

Natura giuridica dell’Unione Europea

L’Unione Europea è un soggetto politico, con personalità giuridica, a carattere sovranazionale ed intergovernativo, che adotta varie modalità di governo (multilevel governance). Si tratta di un’entità sui generis, che non corrisponde a una semplice organizzazione intergovernativa (come le Nazioni Unite), né ad una Federazione di Stati (come gli Stati Uniti d’America). Gli Stati membri delegano alle Istituzioni dell’U.E. parte della loro sovranità nazionale, accettando – in riferimento a specifiche materie – di non legiferare se non attraverso atti giuridici di ricezione delle norme comunitarie. Tali materie si inquadrano nell’ambito di tre Pilastri fondamentali, individuati dal Trattato di Maastricht e su cui, come si evince dal Trattato dell’U.E. (T.U.E.), l’Unione Europea centra la propria azione. Il primo Pilastro si occupa di Politiche della Comunità Europea (CECA, CEE e Comunità Europea: libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali, immigrazione, politica economica e monetaria, cultura, politica sociale, formazione professionale e gioventù). Il secondo Pilastro si occupa di politica estera e di sicurezza comune (PESC), il terzo di cooperazione in materia penale e di polizia giudiziaria.

Va però considerato che oggi il sistema dei Pilastri è stato formalmente superato dal Trattato di Lisbona (2009), col quale sono stati ridefiniti i Documenti fondamentali dell’U.E. (il T.U.E., il T.F.U.E. e la Carta di Nizza, riqualificata nel 2007 come “Carta dei Diritti fondamentali dell’U.E.” ed equiparata ai Trattati istitutivi sotto il profilo del valore giuridicamente vincolante). La suddivisione in tre Pilastri non rispondeva tanto a logiche di classificazione delle competenze quanto alle diverse procedure decisionali utilizzate e al diverso nomen iuris degli atti normativi adottati nell’ambito di ciascun Pilastro. Infatti, in relazione al primo Pilastro, si usa il metodo decisionale detto “comunitario”, che porta all’adozione di Regolamenti, Direttive, Decisioni. In riferimento al secondo e al terzo Pilastro, invece, il metodo decisionale “intergovernativo” porta alla determinazione di strategie comuni, azioni comuni e posizioni comuni, oltre che di decisioni e di decisioni-quadro (III Pilastro).

Per alcune materie quindi (come ad esempio gli Affari interni), l’U.E. è più somigliante ad una Confederazione, per altre (si veda la politica estera) invece agisce come un’organizzazione internazionale o come una Federazione di Stati (si prendano ad esempio l’euro e le politiche ambientali). Inoltre, l’U.E. rappresenta una zona di libero mercato, con l’adozione di una moneta unica, l’Euro, regolata dalla BCE e utilizzata da 18 paesi sui 28 attualmente facenti parte dell’Unione Europea (va però registrata l’imminente uscita dell’Inghilterra dall’Unione, la cd. “brexit”, per effetto del referendum inglese del 2018). L’U.E. rappresenta anche un’unione doganale per i Paesi che hanno aderito al trattato di Schengen (libertà di circolazione delle merci e di movimento delle persone, compresa la libertà di investire capitali e di lavorare nei paesi U.E.).

Il diritto dell’Unione Europea

Il sistema giuridico dell’Unione europea è costituito dall’insieme di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo dell’Unione europea e i rapporti tra questa e gli Stati membri.

L’Unione europea dispone di personalità giuridica e, in quanto tale, di un proprio ordinamento giuridico a sé stante, distinto dall’ordinamento internazionale e dagli ordinamenti nazionali dei singoli Stati membri. Il diritto dell’U.E. è quindi un sistema giuridico indipendente che prevale sulle disposizioni giuridiche nazionali. Stante l’atipicità del soggetto giuridico cui ha dato luogo l’Unione degli stati europei, il cd. “diritto comunitario” non rientra nell’ambito del diritto internazionale pubblico, ma è piuttosto inquadrabile come diritto sovranazionale, caratterizzato però, a sua volta, da una serie di elementi tipici del diritto interno. E’ previsto, ad esempio, un vero e proprio sistema sanzionatorio per le inadempienze da parte degli Stati membri; alcune norme giuridiche hanno inoltre efficacia diretta non solo nei confronti degli stessi Stati membri, ma anche dei privati, cittadini dell’U.E. In effetti, il Diritto dell’Unione Europea ha una sua collocazione intermedia tra Diritto internazionale e nazionale, rappresentando una sorta di tertium genus in virtù del quale gli Stati membri hanno ceduto, per alcune materie, parte della propria potestà legislativa e della sovranità in materia di produzione normativa ad un soggetto terzo, l’U.E.

Il diritto UE ha quindi un effetto, diretto o indiretto, sulle disposizioni legislative dei suoi Stati membri ed entra a far parte del sistema giuridico di ciascuno Stato membro. L’Unione europea è in sé fonte di diritto. L’ordinamento giuridico è normalmente suddiviso in diritto primario (trattati e principi generali del diritto), diritto derivato (sulla base dei trattati) e diritto complementare.

Fonti di diritto primario

Norme primarie del sistema giuridico dell’Unione europea sono in primo luogo le norme convenzionali contenute nei Trattati istitutivi delle Comunità europee e dell’Unione europea, nei quali si definiscono le funzioni e le responsabilità delle istituzioni e degli organismi dell’U.E. che partecipano ai processi decisionali, nonché le procedure legislative, esecutive e giuridiche che caratterizzano il diritto comunitario e la sua applicazione. Tali trattati contengono le norme formali e sostanziali che costituiscono il quadro in cui le istituzioni attuano le varie politiche delle Comunità europee e dell’Unione europea e fissano le norme formali che sanciscono la ripartizione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri e che fondano il potere delle istituzioni. Assumono lo status di diritto primario anche le norme contemplate in quegli accordi internazionali successivamente stipulati per modificare ed integrare i Trattati istitutivi.

Il nucleo principale dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea è rappresentato dai Trattati che hanno istituito le Comunità europee e l’Unione europea, ossia:

  • il Trattato costitutivo della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrato in vigore il 23 luglio 1952, insieme ai due Protocolli sullo Statuto della Corte di giustizia e sui privilegi e le immunità;
  • Trattati costitutivi della CEE (Comunità economica europea) della CEEA (Comunità europea dell’energia atomica) o Euratom, firmati a Roma il 25 marzo 1957 ed entrati in vigore il 1º gennaio 1958, insieme allo Statuto della Corte di giustizia, nonché alla Convenzione su talune istituzioni comuni;
  • il Trattato istitutivo dell’Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1º novembre 1993.

A questi atti devono aggiungersi quelli che nel corso del tempo hanno modificato o integrato le disposizioni originarie:

  • il Trattato sulla fusione degli esecutivi, firmato a Bruxelles l‘8 aprile 1965 ed entrato in vigore il 1 luglio 1967 (ora abrogato dal Trattato di Amsterdam che ne ha però conservato le disposizioni principali), che ha istituito un Consiglio unico ed un’Assemblea unica per tutte e tre le Comunità, senza per questo procedere ad una fusione giuridica delle stesse;
  • l‘Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 28 febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1º luglio 1987, il cui obiettivo principale è l’instaurazione progressiva del mercato interno;
  • il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1º maggio 1999, che ha ulteriormente modificato i Trattati istitutivi apportando modifiche alle procedure decisionali e “comunitarizzando” alcuni settori che, in precedenza, rientravano nell’ambito della cooperazione intergovernativa;
  • il Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 ed entrato in vigore il 1º febbraio 2003, che apporta soprattutto modifiche di carattere istituzionale;
  • il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1º dicembre 2009.

Il trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati alla Carta di Nizza (2000), riqualificata nel 2007 “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, con l’individuazione del gruppo dei diritti, o eccezionali libertà, di cui godono tutti i cittadini dell’U.E. A seguito del Trattato di Lisbona, i trattati di riferimento sono ora sostanzialmente due: il Trattato sull’Unione europea (T.U.E.) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (T.F.U.E.), sostitutivo del Trattato istitutivo della Comunità europea, che hanno lo stesso valore giuridico. Resta, inoltre, in vigore il Trattato Euratom del 1957. Mentre il Trattato sull’Unione europea si configura come un Trattato “base”, che definisce le norme essenziali e stabilisce i valori, i principi fondamentali, le competenze e l’assetto istituzionale dell’Unione, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è piuttosto un Trattato applicativo, in quanto fissa le regole di funzionamento delle istituzioni e degli organi, e disciplina il mercato interno e le politiche, definendone il quadro di riferimento. I Trattati che regolano l’U.E. (T.U.E. e T.F.U.E.) non hanno carattere costituzionale, hanno a loro volta abrogato definitivamente ogni riferimento alla CE, sostituito dell’U.E. (soggetto con personalità giuridica) e sanciscono il valore giuridicamente vincolante della Carta dei Diritti Fondamentali.

Fonti di diritto derivato

Il diritto dell’Unione europea derivato comprende gli atti giuridici adottati dalle istituzioni europee, nei limiti delle competenze e con gli effetti che il Trattato sancisce. Si tratta di atti che vengono posti in essere attraverso procedimenti deliberativi che si svolgono e si esauriscono in modo del tutto indipendente da quelli legislativi e amministrativi nazionali. Si tratta però di atti destinati a incidere in modo rilevante sugli ordinamenti giuridici nazionali, talvolta senza che occorra un intervento formale del legislatore e/o dell’amministrazione nazionale, talvolta imponendo all’uno e/o all’altra un’attività normativa, allo scopo di armonizzare la normativa nazionale con le fonti del diritto europeo (come è recentissimamente capitato con l’entrata in vigore del GDPR 679/2016 U.E. sulla protezione dei dati personali, che ha sensibilmente inciso sull’ordinamento giuridico dei singoli stati membri, rendendo necessaria in Italia l’adozione di un Decreto Legislativo ad hoc, il D. Lgs. 101/2018, per la revisione del previgente Codice della Privacy), oppure di rendere vincolanti anche per i singoli gli impegni sottoscritti a livello europeo, ovvero di precisare o integrare obbligazioni solo delineate dall’atto ma lasciate alla discrezionalità degli Stati membri quanto alla realizzazione definitiva del suo contenuto.

Nell’ambito di tale sistema va inquadrato l’art. 288 T.F.U.E. che definisce la tipologia degli atti per mezzo dei quali le istituzioni dell’Unione europea esercitano le competenze loro attribuite: si tratta dei regolamenti, delle direttive, delle decisioni (atti dotati di forza vincolante), delle raccomandazioni e dei pareri (atti non vincolanti).

Regolamenti sono atti a portata generale con valore erga omnes: non si rivolgono a specifici destinatari indicati espressamente o comunque individuabili a priori, ma a categorie di soggetti determinate in astratto e nel loro insieme. Sono obbligatori in tutti i loro elementi per le stesse Istituzioni, per gli Stati membri o per i loro cittadini: ciò significa che non è consentita una loro applicazione solo parziale o incompleta né qualsiasi modifica o trasposizione suscettibile di incidere sulla portata o sul contenuto dell’atto. Essi sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati Membri a partire dalla loro entrata in vigore (alla data specificata o, in assenza di indicazione, venti giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Comunità europea – GUCE), senza necessità di recepimento nel diritto nazionale. Si integrano automaticamente nei sistemi giuridici statali e producono effetti immediati nei confronti di tutti i soggetti di diritto interno, senza interposizione di alcuna misura nazionale di recepimento o pubblicazione. Non hanno quindi bisogno di alcun atto di recezione o attuazione da parte degli Stati membri: anzi qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve considerarsi illegittima, poiché potrebbe “nascondere agli amministrati la natura comunitaria di una norma giuridica” e “sminuire la competenza della Corte di Giustizia europea a pronunciarsi su qualsiasi questione di interpretazione del diritto comunitario.” I Regolamenti devono essere pienamente rispettati dai destinatari (singoli individui, Stati membri, istituzioni dell’Unione) e sono volti a garantire l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri. Ne consegue che le norme nazionali incompatibili con le clausole sostanziali contenute nei regolamenti sono rese inapplicabili dagli stessi.

Le Direttive sono indirizzate solo agli Stati membri e vincolano i destinatari solo riguardo al risultato da raggiungere, lasciando alla loro discrezionalità e alla competenza degli organi nazionali la scelta dei mezzi e della forma necessari per conseguire tale risultato. Le Direttive quindi non hanno portata generale (se non nel senso che possono rivolgersi a tutti gli Stati membri) e hanno la funzione di imporre obblighi di risultato nei confronti degli stessi Stati membri, che ne sono unici destinatari. Esse non hanno una applicabilità diretta: il Legislatore nazionale deve a sua volta adottare un atto di recepimento, ossia una «misura nazionale di esecuzione» nel diritto interno, che deve adattare la legislazione nazionale rispetto agli obiettivi definiti nella direttiva. Di conseguenza, solo a seguito dell’adozione dei provvedimenti nazionali di recepimento, possono derivare dalla direttiva obblighi e diritti per i soggetti degli ordinamenti interni. Si tratta di uno strumento di legislazione indiretta, o a due stadi (una sorta di legge-quadro), mediante cui non si vogliono porre regole uniformi, in considerazione anche della difficoltà di conciliare le notevoli diversità esistenti negli ordinamenti giuridici  nazionali, ma si preferisce attivare una collaborazione tra il livello comunitario e quello nazionale, lasciando liberi gli Stati membri di determinare essi stessi le modifiche da apportare alla propria normativa interna per renderla conforme al risultato perseguito dalla direttiva. In sostanza, ai singoli cittadini vengono attribuiti diritti e imposti obblighi solo una volta adottato l’atto di recepimento. Gli Stati membri per il recepimento dispongono di un certo margine di manovra che permette loro di tenere conto di specifiche circostanze nazionali. Il recepimento e l’adozione di tutte le misure necessarie per l’attuazione della direttiva devono avvenire entro il termine stabilito nella direttiva stessa. Nel recepire le direttive gli Stati membri sono tenuti ad assicurare l’efficacia del diritto dell’Unione, in virtù del principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, del T.U.E. Se è vero che, in linea di principio, le direttive non sono direttamente applicabili, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha però statuito che alcune disposizioni di una direttiva possono, in via eccezionale, produrre effetti diretti in uno Stato membro senza che quest’ultimo abbia in precedenza adottato un atto di recepimento se: a) la direttiva non è stata recepita o è stata recepita in modo errato nell’ordinamento nazionale; b) le disposizioni della direttiva sono, da un punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente chiare e precise; c) le disposizioni della direttiva conferiscono diritti ai singoli. Qualora sussistano tali presupposti, i singoli possono invocare le disposizioni della direttiva dinanzi alle autorità pubbliche.

Le Decisioni sono obbligatorie e vincolanti in tutti i loro elementi e in tutte le loro parti. Generalmente designano specifici destinatari (Stati membri, persone fisiche o persone giuridiche) e sono obbligatorie soltanto nei loro confronti, trattando situazioni specifiche e fatti concreti in riferimento a detti Stati membri o a dette persone. Al pari delle Direttive, le Decisioni possono implicare l’obbligo, per uno Stato membro, di concedere a singoli cittadini una posizione giuridica più vantaggiosa. Il privato può quindi far valere diritti attribuiti mediante una Decisione destinata a uno Stato membro solo se quest’ultimo ha adottato un atto di recepimento. Le Decisioni possono essere direttamente applicabili alle stesse condizioni previste per le direttive.

Oltre agli atti dotati di forza vincolante, l’art. 288 T.F.U.E. prevede altri due tipi di atti: le Raccomandazioni ed i Pareri, che non sono vincolanti e non fanno sorgere alcun diritto o obbligo per i rispettivi destinatari, ma possono fornire indicazioni sull’interpretazione e il contenuto del diritto dell’Unione. In base a quanto previsto dall’art. 292 T.F.U.E., il potere generale di adottare raccomandazioni è assegnato al Consiglio. Anche la Commissione e la Banca Centrale Europea possono adottare raccomandazioni, ma soltanto nei casi specifici previsti dai Trattati. Il potere generale di emettere pareri è assegnato al Parlamento europeo; specifiche ipotesi per le quali altre istituzioni emanano pareri sono previste nei Trattati.

Una distinzione tra i due tipi di atti non vincolanti può essere operata in base alle loro diverse finalità. Mentre la raccomandazione ha, infatti, il preciso scopo di sollecitare il destinatario a tenere un determinato comportamento giudicato più rispondente agli interessi comuni, il parere tende piuttosto a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette, in ordine a una specifica questione.

Le istituzioni dell’UE possono adottare atti giuridici di diritto derivato solo se i Trattati conferiscono loro la dovuta competenza. Il principio di attribuzione, su cui si fonda la delimitazione delle competenze dell’Unione, è esplicitamente sancito all’articolo 5, paragrafo 1, del T.U.E. Il T.F.U.E. precisa la portata delle competenze dell’Unione, suddividendole in tre categorie: competenze esclusive (articolo 3), competenze concorrenti (articolo 4) e competenze di sostegno (articolo 6), in base alle quali l’UE adotta misure a sostegno o a complemento delle politiche degli Stati membri. I settori oggetto di questi tre tipi di competenza sono elencati chiaramente agli articoli 3, 4 e 6 del T.F.U.E. In mancanza dei poteri di azione necessari per realizzare uno degli obiettivi previsti dai Trattati, le Istituzioni possono fare ricorso alle disposizioni dell’articolo 352 T.F.U.E. e adottare quindi le disposizioni appropriate. In linea generale, però, le istituzioni adottano esclusivamente gli strumenti giuridici elencati all’articolo 288 TFUE, soprattutto in relazione alle materie rientranti nel cd. “primo Pilastro” (CECA, CEE e Comunità Europea), per le quali prevale il cd. “metodo comunitario”, che marginalizza il ruolo dei governi nazionali. Fanno eccezione le materie inerenti ai Pilastri di politica estera, di sicurezza e di difesa comune (PESC) e di cooperazione giudiziaria e in materia di polizia penale, che continuano a essere soggette al “metodo intergovernativo”. In questi ambiti, le strategie comuni, le azioni comuni e le posizioni comuni sono sostituite dagli «orientamenti generali» e dalle «decisioni» che definiscono le azioni e le posizioni che l’Unione deve adottare, come pure le relative modalità di attuazione (articolo 25 del TUE), con conseguente maggiore potere decisionale lasciato ai singoli Stati membri rispetto all’U.E. Per le materie relative all’istruzione e alla formazione viene invece utilizzato il “metodo aperto del coordinamento”, stante l’autonomia dei singoli Stati membri nel definire e regolamentare i rispettivi sistemi educativi.

Fonti di diritto complementare

Oltre alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, le fonti di diritto complementare comprendono il diritto internazionale e i principi generali del diritto. Tali fonti hanno permesso alla Corte di Giustizia di colmare i vuoti lasciati dal diritto primario o derivato. Nell’elaborare la sua giurisprudenza la Corte di giustizia si ispira al diritto internazionale, cui fa riferimento tramite rinvii al diritto scritto, alla consuetudine e agli usi. Ad esempio, essa si è basata sulle norme di diritto internazionale relative al “treaty making power” (capacità internazionale di concludere accordi con organizzazioni e paesi terzi), derivante dalla personalità giuridica internazionale, per convalidare gli accordi esterni conclusi dalla Comunità europea.

I principi generali del diritto dell’Unione sono menzionati di rado nei trattati. Tali principi sono stati prevalentemente sviluppati attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia europea (certezza del diritto, equilibrio istituzionale, legittimo affidamento, ecc.), che è altresì la base del riconoscimento dei diritti fondamentali quali principi generali del diritto dell’Unione. Tali principi sono ormai sanciti dall’articolo 6, paragrafo 3, del TUE, che fa riferimento ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, come pure dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Sitografia di riferimento:

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Fonti_del_diritto_dell%27Unione_europea

http://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/6/fonti-e-campo-di-applicazione-del-diritto-dell-unione-europea

Si veda anche:

  1. R. Salvi, “Il Dirigente Scolastico. Normativa, organizzazione, processi di gestione, valutazione delle scuole e gestione del personale, organizzazione degli ambienti di apprendimento, elementi di diritto civile ed amministrativo, contabilità delle istituzioni scolastiche, sistemi educativi europei”, Roma, 2018, pagg. 67 sgg.

Leggi tutto “Le fonti del diritto dell’Unione Europea”

Il diritto alla privacy alla luce della nuova normativa europea: il regolamento europeo 2016/679 e il principio di accountability

Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali – più precisamente: sulla tutela delle persone fisiche con riferimento al trattamento dei dati personali e alla loro libera circolazione  (Regolamento UE  679/ 2016 – RGDP, in inglese “General data protection regulation”, GDPR) –  è un atto normativo, composto da 99 articoli, con il quale la Commissione Europea intende rafforzare e rendere più omogenea la protezione dei dati personali dei cittadini, sia all’interno sia all’esterno dei confini dell’Unione europea. Il testo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 4 maggio 2016, è diventato definitivamente applicabile, in via diretta e uniforme, in tutti i paesi UE a partire dal 25 maggio 2018. Infatti, la normativa all’interno dell’Unione Europea prevede che “il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile In ciascuno degli Stati membri” (art.  288, par. 2 TFUE). Si tratta quindi di un atto giuridico vincolante, diretto non solo agli Stati membri, ma anche ai singoli.

Il Regolamento europeo si applica alle persone fisiche, a prescindere dalla nazionalità o dal luogo di residenza, in relazione al trattamento dei loro dati personali (art. 2 GDPR, ambito di applicazione materiale). Il GDPR si applica inoltre (art. 3, ambito di applicazione territoriale) al trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito delle attività di uno stabilimento da parte del titolare del trattamento o di un responsabile del trattamento nell’Unione, indipendentemente dal fatto che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione, se relativi all’offerta di beni o servizi a cittadini UE o tali da comportare il monitoraggio dei comportamenti di cittadini UE (attrattività del Regolamento nei confronti dei cittadini UE).

Il RGDP è parte del cosiddetto “pacchetto protezione dati personali”, l’insieme normativo che definisce un nuovo quadro comune in materia di tutela dei dati personali per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, e comprende anche la “Direttiva in materia di trattamento dati personali nei settori di prevenzione, contrasto e repressione dei crimini”. Dal 25 maggio 2018, dunque, anche per le Istituzioni scolastiche, riconosciute pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D. Lgs. 165/ 2001, il RGPD ha sostituito la Direttiva sulla protezione dei dati (ufficialmente Direttiva 95/ 46 /EC) emanata nel 1995, ridefinendo la disciplina europea in materia di “Data Protection” e introducendo numerosi importanti cambiamenti.

Nell’ambito del nuovo quadro normativo che la Commissione Europea ha voluto delineare e al quale gli Stati membri devono conformarsi, l’Italia ha recepito i nuovi principi attraverso l’articolo 13 della legge 25 ottobre 2017, n. 163 (“Delega al governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione Europea –  legge di delegazione europea 2016- 2017”). Tale legge, entrata in vigore il 21 novembre 2017, ha attribuito al Governo la delega ad adottare (entro sei mesi) uno o più provvedimenti volti ad abrogare espressamente le disposizioni del Decreto Legislativo n. 196/2003 (l’attuale “Codice privacy”) che siano in contrasto o comunque incompatibili con la nuova disciplina europea in tema di trattamento di dati personali e a modificare le norme codicistiche in relazione a disposizioni del Regolamento Europeo non direttamente applicabili, in modo da coordinare e armonizzare le disposizioni vigenti in materia di protezione dei dati personali con la normativa europea. Il Decreto di adeguamento avrebbe avuto inoltre lo scopo di allineare l’attuale regime sanzionatorio, a livello penale e amministrativo, alle disposizioni del RGPD, al fine di garantire la corretta osservanza della nuova normativa. Il 4 settembre 2018 è stato quindi pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, Decreto Legislativo di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento UE 2016/679, entrato in vigore il 19 settembre 2018.

Tra le principali novità introdotte dal GDPR possiamo sinteticamente menzionare il principio di responsabilizzazione (accountability, artt. 7 e 24 GDPR), la ridefinizione diritti dell’interessato nell’informativa e in relazione alla manifestazione del consenso al trattamento dei dati personali (artt. 13 e 14 GDPR), il cd. “diritto all’oblio” (art. 17 GDPR), il diritto alla portabilità (art. 20 GDPR) e la figura del Responsabile della Protezione Dati (RPD, artt. 37-38-39 GDPR), che affianca quelle preesistenti del Titolare del Trattamento e del Responsabile del Trattamento.

Va però osservato che, sin dalla sua pubblicazione nella gazzetta Ufficiale della UE, nel 2016, il GDPR ha posto questioni interpretative, alcune delle quali ancora da risolvere da parte principalmente del Garante Privacy (non solo italiano, ma di qualunque Stato membro) e di coordinamento con la disciplina nazionale già in vigore.  Il Codice della Privacy (D. Lgs. n. 196/2003) e il Regolamento Europeo sono infatti il prodotto normativo di due approcci giuridici e, si potrebbe dire, di due filosofie di pensiero completamente diversi: mentre il Codice è prescrittivo, il Regolamento si basa sul principio di accountability o di responsabilizzazione (artt. 7 e 24 GDPR), che integra una presunzione legale di conformità e consiste nell’obbligo per il Titolare del Trattamento di adottare misure tecniche e organizzative adeguate, appropriate ed efficaci per garantire che il trattamento è effettuato in conformità al Regolamento e in attuazione dei principi di protezione dei dati da esso previsti (art. 5 GDPR); la responsabilizzazione inoltre comporta la necessità di dimostrare, su richiesta dell’interessato, che sono state adottate misure appropriate ed efficaci.

Più precisamente, il Regolamento UE parte da un approccio fondato sul principio di cautela, basato sul rischio del trattamento e su misure di accountability obbligatorie per titolari e responsabili (come la valutazione di impatto, il registro dei trattamenti, le misure di sicurezza, la nomina di un RDP-DPO). Come ha evidenziato il Garante Privacy nella guida all’applicazione del Regolamento, la nuova disciplina europea pone con forza l’accento sulla “responsabilizzazione” (accountability) di titolari e responsabili, ossia sull’adozione di comportamenti proattivi e tali da dimostrare la concreta messa in atto di misure finalizzate ad assicurare l’applicazione del regolamento. La responsabilizzazione (accountability) dei titolari e dei responsabili del trattamento è quindi il cardine del regolamento ed ha a sua volta, come corollario, il principio di rendicontazione: l’interessato ha diritto di essere informato in modo trasparente e dinamico sui trattamenti effettuati sui suoi dati personali.

Il cambio di prospettiva e la vera novità introdotta dalla normativa europea stanno però nel fatto che l’accento ora non è più tanto posto sulla responsabilità inerente alle attività svolte per raggiungere un determinato risultato, quanto sulla definizione specifica e trasparente dei risultati attesi – che formano le aspettative dell’interessato –, sui quali la responsabilità stessa si basa e sarà valutata. La definizione degli obiettivi costituisce, dunque, un mezzo per assicurare l’accountability. Inoltre, insieme al concetto di responsabilità, l’accountability presuppone quelli di trasparenza e di compliance. La prima è intesa come la possibilità di accesso alle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, accesso a sua volta finalizzato a rendere visibili all’esterno decisioni, attività e risultati. La seconda si riferisce al rispetto delle norme ed è intesa sia come garanzia della legittimità dell’azione sia come adeguamento dell’azione stessa agli standard stabiliti da leggi, regolamenti, linee guida etiche o codici di condotta. Sotto questi aspetti, l’accountability può anche essere definita come l’obbligo di spiegare e giustificare il proprio comportamento.

Il Regolamento, quindi, ponendo alla base del sistema la responsabilizzazione dei titolari/responsabili del trattamento, sostiene l’adozione da parte loro di approcci e politiche che mantengano costantemente alta l’attenzione riguardo al rischio che un determinato trattamento di dati personali possa comportare per i diritti e le libertà degli interessati. Questo aspetto è sottolineato già nel “Considerando 74”, posto in premessa al testo del GDPR: “E’ opportuno stabilire la responsabilità generale del titolare del trattamento per qualsiasi trattamento di dati personali che quest’ultimo abbia effettuato direttamente o che altri abbiano effettuato per suo conto …”. Il titolare del trattamento dei dati deve di conseguenza poter dimostrare non solo di aver adottato processi di conservazione e trattamento conosciuti dall’organizzazione (Garante), ma anche di avere messo in atto una strategia complessiva di misure giuridiche, organizzative e tecniche, per la protezione dei dati personali, anche attraverso l’elaborazione di specifici modelli organizzativi; deve inoltre dimostrare, in modo positivo e proattivo, che i trattamenti di dati effettuati sono adeguati e conformi al Regolamento europeo in materia di privacy.

Oltre al principio di accountability, il Regolamento europeo fissa, all’art. 5, altri principi fondamentali di portata generale:

  • liceità, correttezza e trasparenza: i dati personali sono trattati in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato;
  • limitazione delle finalità: i dati personali sono raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali finalità oppure comunque a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici;
  • minimizzazione dei dati: i dati personali sono adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati;
  • esattezza dei dati: i dati personali sono esatti e, se necessario, aggiornati;
  • limitazione della conservazione dei dati: i dati personali devono essere conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; i dati personali possono essere conservati per periodi più lunghi se trattati esclusivamente ai fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici;
  • integrità e riservatezza: i dati personali devono essere trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza, compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, dai trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali.

Non cambiano invece i presupposti di liceità del trattamento, delineati dall’art. 6 del GDPR. Essi, in linea di massima, coincidono con quelli del D. Lgs. n. 196/2003 (consenso, adempimento di obblighi contrattuali, interesse vitale della persona interessata o di terzi, obbligo di legge, interesse pubblico o esercizio di pubblici poteri, interesse legittimo prevalente del titolare o di terzi cui i dati sono comunicati), però con alcuni cambiamenti:

    • consenso: (i) deve essere esplicito per i dati sensibili e in caso di trattamenti automatizzati, compresa la profilazione. “Esplicito” non è sinonimo di forma scritta, benché questa sia la modalità idonea per configurare l’inequivocabilità del consenso e, in ogni caso, il titolare deve essere in grado di dimostrare che l’interessato ha prestato il consenso a uno specifico trattamento; (ii) il consenso dei minori è valido a partire dai 16 anni;
    • interesse vitale di un terzo: è invocabile a condizione che, nella fattispecie concreta, nessuna delle altre condizioni di liceità possa trovare applicazione;
    • interesse legittimo prevalente di un titolare o di un terzo: il bilanciamento tra tale interesse e i diritti e la libertà dell’interessato spetta allo stesso titolare (estensione del principio di “responsabilizzazione”, uno dei cardini del GDPR);
    • informativa: i contenuti dell’informativa sono tassativamente indicati negli artt. 13, par. 1, e 14, par. 1, del GDPR. In parte essi sono più ampi rispetto al D. Lgs. 196/2003. In particolare, l’informativa deve contenere: (i) i dati di contatto del RDP-DPO (Responsabile della protezione dati – Data Protection Officer), ove esistente; (ii) la base giuridica del trattamento; (iii) l’interesse legittimo, se costituisce la base legittima del trattamento; (iv) se i dati sono trasferiti in Paesi terzi e, in caso affermativo, attraverso quali strumenti; (v) periodo di conservazione dei dati o i criteri per stabilire tale periodo; (vi) diritto di presentare un reclamo all’autorità di controllo; (vi) in caso di processi decisionali automatizzati, compresa la profilazione, indicazione della logica di tali processi e delle conseguenze previste per l’interessato. Per i minori occorre prevedere informative idonee (scritte in un linguaggio semplice e chiaro che un minore possa facilmente capire). Nell’ipotesi di dati personali non raccolti direttamente presso l’interessato, l’informativa deve essere fornita entro un tempo non superiore a un mese dalla raccolta, oppure al momento della comunicazione dei dati.

Va altresì tenuto conto del fatto che, in linea di principio, il consenso non è idoneo fondamento del trattamento dei dati da parte della Pubblica Amministrazione, perché essa (e quindi anche le Istituzioni scolastiche autonome) dovrebbe operare sulla base di altri presupposti, consistenti essenzialmente in norme di legge o in un interesse pubblico riconosciuto in specifiche disposizioni. L’istituzione scolastica, quando pone in essere attività di tipo istituzionale, non ha quindi bisogno di ottenere il consenso dell’interessato. Di conseguenza il consenso non è un presupposto necessario per la liceità della stragrande maggioranza dei trattamenti da parte della PA, perché sono le norme che individuano gli ambiti dei trattamenti stessi. Inoltre, se è vero che il Regolamento europeo prevede il diritto di opposizione, è però altrettanto vero che la PA può neutralizzarlo con adeguata motivazione. A tale riguardo, come messo in luce dal “Considerando 43”, ogni volta che il “controller” (ossia il “titolare del trattamento”) è un’Autorità pubblica, c’è spesso un evidente squilibrio di potere nella relazione tra il “responsabile del trattamento” e l’interessato. E’ del resto chiaro che, nella maggior parte dei casi, l’interessato non avrà alcuna alternativa rispetto all’accettazione del trattamento da parte dell’Autorità pubblica. Il consenso deve essere, ad ogni modo, espresso mediante un atto con il quale l’interessato manifesta l’intenzione libera, specifica, informata e inequivocabile di accettare il trattamento dei dati personali (mediante dichiarazione scritta). I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali. Il trattamento dei dati personali deve essere lecito e corretto.

Nella sintesi richiesta dal presente contributo, sono stati messi in evidenza, in linea generale, solo alcuni dei principali elementi caratterizzanti il GDPR. Va ad ogni modo considerato che si tratta di un diritto in fieri, da tenere costantemente sotto controllo alla luce di Linee Guida e di strumenti interpretativi che verranno sicuramente resi noti dal Garante della Privacy nel corso dei prossimi mesi.

Dall’esame della materia emerge come sia, oramai, imprescindibile un cambiamento di mentalità che porti alla piena tutela della privacy, da considerare non tanto come un oneroso rispetto di adempimenti burocratici, quanto piuttosto come garanzia, per il cittadino che si rivolge alle pubbliche amministrazioni, di una riservatezza totale dal punto di vista reale e sostanziale.

Il diritto alla privacy è un diritto inviolabile della persona che non si limita alla tutela della riservatezza o alla protezione dei dati, ma implica il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona. Per questi motivi la cultura della privacy necessita di crescere e rafforzarsi, principalmente fra gli operatori delle pubbliche amministrazioni, perché solo con la conoscenza consapevole dei principi fondamentali che stanno alla base della vigente normativa potranno essere adottati correttamente tutti gli adempimenti di legge, nel trattamento di dati di competenza, con la consapevolezza di non affrontare un inutile gravame, bensì di contribuire concretamente al miglioramento della qualità del rapporto con l’utenza.

Privacy: raccomandazione europea 679/2016

Salve a tutti! Sono Barbara Maduli, docente di lungo corso (sono di ruolo dal lontano 1992 …) e avvocato. Nel corso della mia esperienza ho avuto occasione di trattare varie tematiche giuridiche attinenti al mondo della scuola in materia sia civile che penale che amministrativa e mi sono resa conto che avere un punto di riferimento e/o qualche consiglio pratico può essere utile per risolvere le varie situazioni in cui un insegnante e, più ancora, un dirigente scolastico, può essere chiamato a prendere decisioni anche di grande responsabilità.

Con questo numero della rivista ho quindi il piacere e l’onore di inaugurare la rubrica di diritto applicato alle istituzioni scolastiche. Com’è noto a tutti, la materia è veramente vasta, e spazia dalle obbligazioni contrattuali agli atti e ai procedimenti amministrativi, al contenzioso avanti al Giudice Civile e Amministrativo e al procedimento disciplinare, alle responsabilità penali, civili e amministrative nascenti da atti illeciti o da reati commessi dal personale scolastico. In sostanza, non c’è aspetto della vita delle Istituzioni scolastiche che non sia permeato di connotazioni giuridiche.

Senza avere alcuna pretesa di esaustività o di sistematicità, né tanto meno di voler dispensare pareri professionali, in questa sede cercherò ad ogni modo di affrontare questioni che interessano l’esperienza concreta di ciascun operatore della scuola, dal Dirigente Scolastico ai docenti e al personale ATA, e di illustrare i profili problematici inerenti ai diritti, agli obblighi e alle responsabilità che gravano sulle figure professionali della scuola. Cercherò anche, nei limiti del possibile, di rispondere ai dubbi dei lettori, facendo capo alla Redazione della rivista e dando la precedenza alle domande di carattere generale e di interesse comune.

Per iniziare, vorrei prendere in considerazione le ipotesi nelle quali un docente rischia di violare le norme sulla privacy. Com’è noto, la materia della tutela del diritto alla privacy, regolata dal D. Lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali) è stata di recente radicalmente riformata dall’entrata in vigore, in tutti gli stati membri dell’Unione Europea, del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali (Regolamento UE  679/ 2016 – RGDP, in inglese “General data protection regulation”, GDPR). Il testo normativo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 4 maggio 2016, è diventato definitivamente applicabile, in via diretta e uniforme, in tutti i paesi UE a partire dal 25 maggio 2018. In Italia, l’adeguamento con la normativa europea è avvenuto tramite il D. Lgs. n. 101/2018, entrato in vigore il 19 settembre scorso, che ha parzialmente abrogato il D. Lgs. 196/2003.

L’attività della scuola, alla stregua di qualsiasi altra attività svolta dagli organi della Pubblica Amministrazione, ricade pienamente nella sfera di applicazione della normativa sulla privacy, poiché raccoglie, detiene e gestisce dati personali degli allievi, dei genitori, del personale dipendente, dei fornitori e di altri soggetti, pubblici e privati, che hanno a che fare a vario titolo con l’istituzione scolastica o che si rivolgono alla scuola per richiedere notizie sugli allievi o sul personale dipendente. Generalmente gli uffici di segreteria gestiscono informaticamente i dati relativi sia al personale docente ed ATA, sia quelli relativi agli studenti, utilizzando delle banche dati più o meno corpose, in rapporto alle dimensioni dell’istituzione scolastica. Le informazioni trattate sono le più varie, da luogo e data di nascita, residenza e domicilio, alla progressione di carriera, ai motivi delle assenze, ai dati fiscali. Per quanto concerne gli alunni, i dati possono essere relativi alla frequenza o meno dell’insegnamento della religione cattolica, al perdurare di determinate patologie e al nome del medico curante.

In materia, i principi fondamentali su cui si basa il diritto alla riservatezza sono, in estrema sintesi, due. In primo luogo, le scuole non possono divulgare i dati in loro possesso, a meno che non adempiano agli obblighi imposti dalla normativa sulla privacy e solo nei casi previsti dalla legge, previa informativa ed in seguito all’ottenimento del consenso da parte dell’interessato (artt. 13 e 18 Codice sulla privacy). Va al riguardo osservato che la prestazione del consenso integra una vera e propria fattispecie contrattuale. La Scuola, del resto, non ha bisogno di consenso, quando versa in attività istituzionale. Va altresì osservato che il consenso/autorizzazione non serve per la stragrande maggioranza dei trattamenti, perché sono le norme che individuano gli ambiti dei trattamenti stessi. Il consenso deve essere, ad ogni modo, espresso mediante un atto con il quale l’interessato manifesta l’intenzione libera, specifica, informata e inequivocabile di accettare il trattamento dei dati personali (mediante dichiarazione scritta). I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali. Il trattamento dei dati personali deve essere lecito e corretto.

In secondo luogo, non possono essere divulgati i cd. “dati particolari” (art. 9 GDPR), vale a dire quei dati che possono rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, lo stato di salute e la vita sessuale. Rientrano in questa categoria i cd. dati “sensibili” e i cd. dati “giudiziari”, che, a loro volta, possono rivelare l’esistenza di determinati provvedimenti giudiziari penali (ad esempio, i provvedimenti penali di condanna definitivi, la liberazione condizionale, il divieto od obbligo di soggiorno, le misure alternative alla detenzione) e amministrativi o la qualità di imputato o di indagato. Va notato che nel GDPR non si fa più distinzione tra dati sensibili e non, ma tutti i dati personali vanno trattati in base alla rilevanza ed all’impatto che hanno sulla privacy del soggetto.

Un particolare riferimento viene fatto dal Codice sulla privacy al settore della pubblica istruzione e, quindi, alle istituzioni scolastiche. L’art. 95 precisa che devono considerarsi di rilevante interesse pubblico le finalità di istruzione e di formazione in ambito scolastico, professionale, superiore o universitario, con particolare riferimento a quelle svolte anche in forma integrata. Come tutti gli operatori scolastici, anche i docenti, trattando quotidianamente con gli studenti, oltre a essere soggetti agli obblighi di riservatezza inerenti al segreto d’ufficio o professionale, devono porre particolare attenzione al rispetto della normativa sulla privacy, a maggior ragione se si considera che essi hanno a che fare quotidianamente con adolescenti minorenni e con l’utilizzo delle nuove tecnologie, tramite le quali lo scambio di dati sensibili è all’ordine del giorno ed è quindi effettivo il rischio di cadere in errore, pur operando in buona fede.

Ad esempio, va tenuto conto che le scuole devono prestare particolare attenzione a non diffondere, anche per mero errore materiale, dati idonei a rivelare lo stato di salute degli studenti, così da non incorrere in sanzioni amministrative o penali. Non è infatti consentito pubblicare in qualsivoglia modalità (cartacea o digitale) documenti contenenti i nomi e i dati degli studenti portatori di handicap; occorre inoltre fare attenzione anche a chi ha accesso ai nominativi degli allievi con DSA, limitandone la conoscenza ai soli soggetti legittimati, ad esempio agli insegnanti che devono predisporre il piano didattico personalizzato (PDP). Di conseguenza, se un insegnante divulga, per quanto in buona fede ed in modo erroneo, i dati relativi agli studenti con handicap o con DSA di cui è a conoscenza in ragione della sua funzione docente, commette una grave violazione al diritto alla privacy dello studente interessato. Ancora, la divulgazione da parte del docente di informazioni relative ad una specifica dieta praticata dagli studenti per motivi di salute o religiosi (ad esempio rendendo noto a terzi che uno studente non mangia un determinato cibo perché segue uno specifico orientamento religioso o per una determinata patologia, intolleranza o allergia) comporta la lesione del diritto alla privacy dello studente in questione, perché rivela le sue convinzioni religiose o il suo stato di salute.

Non commette invece violazione della privacy l’insegnante che assegna ai propri alunni lo svolgimento di temi in classe riguardanti il loro mondo personale o familiare. Nel momento in cui gli elaborati vengono letti in classe, specialmente se sono stati affrontati argomenti delicati, è affidata alla sensibilità di ciascun insegnante la capacità di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze didattiche e la tutela dei dati personali. Restano comunque validi gli obblighi di riservatezza già previsti per il corpo docente riguardo al segreto d’ufficio e professionale, nonché quelli relativi alla conservazione dei dati personali eventualmente contenuti nei temi degli alunni. Pertanto deve ritenersi assolutamente lecita l’assegnazione di temi, da parte degli insegnanti, che comportano la rivelazione di dati e fatti personali e familiari a volte anche sensibili, pur rimanendo fermi per il corpo docente l’obbligo del segreto d’ufficio e professionale e l’adozione di cautele nella lettura in classe degli elaborati su tali argomenti (Garante per la Privacy, Provvedimento del 4 marzo 1999).

Ben diverso è, però, il caso in cui il docente pubblichi (ad esempio su un “social media”, come Instagram, What’s up, FaceBook et similia) o faccia pubblicare da terzi (ad esempio da una testata giornalistica) l’elaborato scritto di un suo studente nel quale sono riportati riferimenti ai dati personali o particolari della sua vita privata, senza aver previamente chiesto ed ottenuto dallo studente o, se questo minorenne, dai genitori, il consenso alla pubblicazione. Tale comportamento, per quanto in perfetta buona fede o dettato da motivazioni condivisibili (si pensi al caso in cui il docente abbia voluto non dileggiare lo studente ma metterne in luce la bravura e le competenze espressive), espone l’operatore scolastico non solo a responsabilità penale e al rischio di una denuncia per violazione della privacy, ma anche a un procedimento disciplinare.

Dirigente ispettore

Il ruolo dell’ispettore tecnico nelle verifiche e ispezioni concernenti specifiche situazioni disposte dal Ministro e dagli uffici dell’Amministrazione scolastica

La funzione tecnico-ispettiva concorre – secondo l’Atto di Indirizzo emanato con D.M. n. 60 del 23 luglio 2010 e nel quadro delle norme sull’istruzione – alla realizzazione delle finalità di istruzione e di formazione affidate alle istituzioni scolastiche ed educative. Essa si svolge in collaborazione con gli uffici centrali, regionali e provinciali dell’Amministrazione scolastica ed è diretta alla realizzazione delle finalità di istruzione e di formazione affidate alle istituzioni scolastiche ed educative.

Il quadro normativo di riferimento, oltre al citato DM 60/2010, comprende le seguenti disposizioni: D. Lgs. 16/4/1994, n. 297 (art. 397: Funzione ispettiva; art. 419: Ruolo degli ispettori tecnici; art. 285: Consulenza tecnico-scientifica); Direttiva PCM 2/7/2002 Attività d’ispezione; DM 29/12/2009 (art. 4: Dirigenti con funzioni tecnico-ispettive); DPCM 11/2/2014, n. 98 (art. 9: Corpo ispettivo); DPR 28/3/2013, n. 80 (art. 5: Contingente ispettivo nel SNV).

La funzione tecnico-ispettiva è esercitata da ispettori tecnici che, più in particolare, svolgono i seguenti compiti:

  • elaborazione di progetti per attuare gli obiettivi indicati dal ministro in materia di politica scolastica;
  • consulenza in merito a programmi scolastici, sussidi didattici e tecnologie educative;
  • promozione delle attività di aggiornamento del personale direttivo e docente della scuola di ogni ordine e grado;
  • attività di assistenza tecnico-didattica, studio e ricerca e consulenza sui progetti di sperimentazione;
  • verifiche e ispezioni concernenti specifiche situazioni disposte dal Ministro e dagli uffici dell’Amministrazione scolastica.

Al termine di ogni anno scolastico il corpo ispettivo redige una relazione sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei relativi servizi.

Attività di verifica e vigilanza

In particolare, le attività di verifica e di ispezione costituiscono un fondamentale momento di integrazione del sistema, nonché uno strumento per il perfezionamento dell’azione dei singoli e delle organizzazioni.

Le attività previste sono le seguenti:

  • visite ispettive disposte dal Direttore Generale dell’USR e dall’Amministrazione Centrale;
  • vigilanza sugli esami di stato conclusivi del 1° e 2° ciclo;
  • verifiche sul funzionamento delle scuole paritarie;
  • partecipazione alla Commissione Medica di Verifica;
  • verifica dei requisiti delle sezioni “Primavera” con ispezioni a campione;
  • vigilanza sui corsi di differenziazione didattica secondo il metodo Montessori.

Visite ispettive disposte dal Direttore Generale dell’USR o dall’Amministrazione Centrale

Le visite vengono assegnate, di norma, in relazione alle aree tematiche e/o al settore di competenza di ciascun ispettore o – qualora ciò non sia possibile – a rotazione, in modo da assicurare un’equa ripartizione dei carichi di lavoro e salvaguardare l’opportunità degli interventi sul territorio, secondo le indicazioni fornite più avanti.

Verifiche sul funzionamento delle scuole paritarie

Accanto agli accertamenti finalizzati alla verifica dei requisiti previsti per il riconoscimento e il mantenimento della parità (punti 4.1 e 5.7 del D.M. 10/10/2008, n. 83), sono previste specifiche azioni di monitoraggio del regolare funzionamento delle istituzioni scolastiche paritarie, con particolare riferimento allo svolgimento degli esami di idoneità e, nell’ambito della più generale attività di vigilanza di cui al punto successivo, degli esami di stato, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 1, comma 152 della legge 13/07/2015, n. 107. Anche per le scuole non paritarie sono previsti accertamenti ispettivi, finalizzati all’inclusione e mantenimento nell’apposito elenco regionale (punto 1.5 del D.M. 10/10/2008, n. 83). Le azioni e gli accertamenti di cui al presente punto sono effettuati normalmente in relazione al settore di competenza.

Vigilanza sugli Esami di Stato conclusivi del 1° e del 2° ciclo

La sessione degli esami di stato, del 1° e del 2° ciclo, vede impegnati i dirigenti tecnici, in relazione al settore di competenza, in un’azione di vigilanza e supporto ai presidenti e ai membri delle commissioni d’esame, ed è preceduta da sessioni di attività di formazione previste nell’ambito delle attività di sviluppo della tematica di cui al successivo punto (valutazione degli alunni e del sistema formativo).

Visite ispettive

A tale riguardo, i Dirigenti degli Uffici Scolastici Territoriali, di concerto con i Dirigenti tecnici incaricati di svolgere attività di consulenza e supporto nel territorio, possono contribuire a raffreddare precocemente conflitti e risolvere criticità. Gli accertamenti ispettivi costituiscono uno strumento di ausilio tecnico a supporto dell’attività dell’Amministrazione e sono organizzati come di seguito.

a. Richiesta di accertamento ispettivo

Nel caso in cui si reputi necessario attivare un’indagine ispettiva, i dirigenti scolastici inviano un’apposita richiesta al Coordinamento del Servizio Ispettivo per il tramite del dirigente dell’Ufficio Scolastico Territoriale di competenza che provvede ad una prima istruttoria degli atti e a una prima valutazione del caso. Solo ove effettivamente necessario, e comunque nel caso di documentate problematiche inerenti al profilo didattico e/o relazionale, il dirigente dell’UST avanza richiesta di accertamento ispettivo al Direttore Generale trasmettendo gli atti al Coordinatore del Servizio Ispettivo per un accertamento tecnico mirato, unitamente ad una relazione informativa dei fatti e agli gli allegati ritenuti necessari, oltre che ad una personale valutazione del caso. Di norma non si dà corso a indagini ispettive per fatti sanzionabili disciplinarmente, in quanto la gestione degli stessi è in capo al dirigente scolastico o all’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari a seconda della gravità dei fatti medesimi.

b. Conferimento dell’incarico ispettivo e relativo svolgimento

Il Direttore Generale, sulla base delle valutazioni formulate dal Coordinatore del Servizio Ispettivo e di quelle trasmesse dal Dirigente dell’UST, valuta l’opportunità di disporre un incarico ispettivo. Il Dirigente tecnico incaricato può chiedere al Direttore Generale, previo parere del Coordinatore del Servizio Ispettivo, di avvalersi delle collaborazioni di personale della scuola o amministrativo fornito di specifiche competenze in relazione alla natura dell’incarico. Apposita comunicazione di avvio dell’accertamento è notificata – a cura del Coordinatore del Servizio Ispettivo – contestualmente a tutti i soggetti interessati.  Il Dirigente tecnico incaricato conclude l’accertamento e produce la relazione ispettiva di norma nel termine di 30 giorni dal conferimento dell’incarico stesso, salvo diversa disposizione contenuta nell’atto di conferimento. Eventuali proroghe che in caso di necessità dovessero essere richieste sono autorizzate, previa istruttoria del predetto Coordinatore, dal Direttore Generale e non eccedono di norma i 90 giorni dal conferimento dell’incarico.

c. Conclusione dell’incarico ispettivo

Il Coordinatore del Servizio Ispettivo cura il monitoraggio, la documentazione e l’archiviazione delle situazioni sottoposte ad indagine ispettiva. A conclusione dell’accertamento ispettivo, il Dirigente tecnico incaricato trasmette, in riservata originale, relazione con esauriente analisi dei fatti, siglata su tutte le pagine e completa dei necessari allegati, agli Uffici indicati nella lettera di incarico e al Coordinatore del Servizio Ispettivo.

d. Proposte tecniche dei Dirigenti incaricati di accertamento ispettivo

Le relazioni ispettive esplicitano nelle conclusioni le proposte tecniche degli eventuali interventi da mettere in atto o provvedimenti da assumere. Ove le proposte riguardino l’avvio di procedimenti disciplinari, esse non si configurano quale tipologia di sanzione da irrogare considerato che, come noto, i procedimenti disciplinari necessitano di ulteriore attività istruttoria in contraddittorio con gli interessati. Per quanto concerne i casi nei quali emergano comportamenti di rilevanza disciplinare in capo a personale docente o Ata delle Istituzioni scolastiche, va ricordato che l’art. 3 del D.M. 912 del 18 dicembre 2014 prevede che la gestione dei procedimenti disciplinari di pertinenza dell’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari (cfr. art. 55 bis, comma 4 D. Lgs. 165/2001) è tra le funzioni assegnate agli Uffici Scolastici Territoriali, mentre per i dirigenti scolastici la competenza è dell’Ufficio disciplinare presso l’USR.

e. Provvedimenti amministrativi in esito ad accertamenti ispettivi

I Dirigenti gli Uffici Scolastici Territoriali sono tenuti, all’esito della visita ispettiva, ad assumere eventuali provvedimenti amministrativi – che non rientrano nell’ambito delle procedure disciplinari – relativi a:

  • personale comparto scuola del territorio di pertinenza (ad esclusione dei Dirigenti scolastici);
  • personale comparto ministeri dell’Ufficio Scolastico Territoriale di pertinenza.

Rimangono in capo al Direttore Generale eventuali provvedimenti amministrativi all’esito di visita ispettiva, relativi a:

  • Dirigenti scolastici (area V);
  • ritiro del “Decreto di parità scolastica” di cui alla legge 62/2000.

Ricevute le relazioni ispettive, gli Uffici competenti si attivano tempestivamente per l’adozione dei provvedimenti consequenziali. I provvedimenti assunti devono essere trasmessi, oltre che ai destinatari, anche al Coordinatore del Servizio Ispettivo per consentire l’archiviazione della pratica, e, per conoscenza, ai Dirigenti tecnici interessati. La comunicazione riguarda altresì gli esiti dell’eventuale contenzioso.

Ove ad esito della visita ispettiva non si reputi di assumere alcun provvedimento amministrativo, occorre comunque che i Dirigenti di cui sopra, nell’ambito delle competenze elencate, attestino la chiusura del procedimento amministrativo avviato con il conferimento di incarico ispettivo, dichiarando essere l’ispezione senza esito amministrativo e dandone comunicazione al Coordinatore del Servizio Ispettivo e ai Dirigenti tecnici interessati.

f. Incarichi ispettivi riguardanti scuole paritarie, non paritarie e scuole straniere

Gli accertamenti ispettivi riguardanti le Scuole non statali (scuole paritarie, scuole non paritarie iscritte nei relativi elenchi regionali, attività di insegnamento gestite da Enti stranieri in Italia) sono effettuati in relazione al settore di competenza degli ispettori e sono, in linea generale, riferibili alle seguenti tipologie:

  • accertamento del possesso dei requisiti previsti dalle norme di riferimento per il riconoscimento della parità scolastica, per l’iscrizione all’elenco delle scuole non paritarie o per il rilascio dell’autorizzazione o del nulla osta per le scuole straniere operanti in Italia;
  • verifica del permanere dei requisiti soggettivi ed oggettivi connessi con il precedente punto;
  • accertamenti in ordine al rispetto delle norme generali dell’istruzione, degli ordinamenti, ecc.;
  • accertamento di altre eventuali particolari situazioni non connesse agli aspetti sopra indicati.

g. Gestione delle istanze di accesso di atti connessi ad accertamenti ispettivi

Le istanze di accesso di cui alla L. 241/1990 sono gestite dagli Uffici territoriali cui la visita ispettiva si riferisce, anche per facilitare il coinvolgimento degli eventuali controinteressati. Fanno eccezione le sole istanze di accesso strumentali al diritto di difesa nei procedimenti disciplinari avviati a carico dei Dirigenti scolastici. In tal caso la competenza è in capo ad apposito Ufficio.

Si rammenta infine che, ai sensi dell’art. 3 del D.M. 10 gennaio 1996, n. 60, “in caso di incarichi ispettivi nei confronti di personale dipendente di istituzioni scolastiche o di enti vigilati, l’accesso alla relazione finale e alla documentazione in essa richiamata è consentito, limitatamente alla parte riguardante il richiedente, dopo la conclusione dei procedimenti ispettivi”.

(Le suindicate informazioni sono state tratte dalla Nota Prot. n. MIUR AOO DRLO R.U. 2859 dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia – Coordinamento Dirigenti Tecnici, del 24 febbraio 2016, avente ad oggetto “Articolazione della funzione tecnico-ispettiva – USR Lombardia”, a firma del Direttore Generale Delia Campanelli).

Politiche d’inclusione: D. Lgs. 66/2017: un’occasione mancata?

Aspetti critici da risolvere in quarant’anni di integrazione scolastica

Degli otto decreti attuativi della Legge “La Buona Scuola”, il D. Lgs. 66/2017, recante “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità” (articolo 1, commi 180 e 181, lettera c, legge 13 luglio 2015, n. 107), è senza dubbio uno dei più controversi. Lo stesso iter di approvazione del provvedimento, dallo “schema” legislativo fino alla stesura definitiva, è stato oggetto di dibattiti anche accesi.

In effetti, se da una parte erano molte le aspettative che hanno portato alla stesura del D. Lgs. 17 aprile 2017, n. 66, dall’altra questo provvedimento è stato letto da alcuni come foriero di una involuzione del processo inclusivo che ha avuto avvio in Italia sin dai primi anni ’70, grazie ad una legislazione all’avanguardia in Europa (basti pensare alla Legge 517/1977 e alla Legge Quadro 104/1992). Non va infatti dimenticato che da almeno quarant’anni la scelta dell’integrazione è stata fatta propria dall’opinione pubblica italiana e la scuola è certamente in prima linea in questa consapevolezza culturale.

Il testo del decreto definitivamente approvato recepisce solo parzialmente i rilievi che sono stati fatti e, nel suo complesso, si rivela di problematica applicazione. L’intervento riformatore varato dalla Legge “La Buona Scuola” risponde, ad ogni modo, al bisogno di ridare nuova linfa a un processo in crisi e all’esigenza di risolvere alcune criticità, inefficienze e “cattive prassi” che hanno caratterizzato nel tempo l’esperienza di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, come la scarsa formazione dei docenti curricolari – e talvolta anche di quelli specializzati per il sostegno – , la loro deresponsabilizzazione e la tendenza a delegare al solo docente di sostegno, vissuto come insegnante “speciale”, la gestione dell’intervento didattico nei confronti degli alunni con disabilità, il più delle volte scarsamente integrati nel contesto del gruppo-classe; per non parlare della prassi dei cd. trattenimenti “maturativi” o delle “bocciature strumentali”.

Tra gli ulteriori aspetti critici, che coinvolgono tutte le fasi del modello di integrazione definito dalla L. 104/1992, vanno annoverati:

  • l’approccio, ancora prevalentemente medico e clinico, al fenomeno della disabilità intesa come uno stato di invalidità che necessita di una certificazione per essere meritevole di tutela e riconoscimento da parte delle istituzioni a ciò preposte (in primis la scuola, ma anche l’ASL e l’ente locale di riferimento, ossia il Comune);
  • la tendenza a tener distinti e separati il ruolo del soggetto certificatore (in precedenza l’ASL, ora l’INPS) e quello dell’ente (Amministrazione scolastica) responsabile dell’assegnazione delle risorse professionali al sostegno;
  • l’eccessiva mobilità degli insegnanti di sostegno, il cui incarico, di anno in anno, dipende dal numero degli studenti con disabilità iscritti a scuola (ed è inoltre connesso alla tipologia di deficit e alla sua gravità);
  • la scarsità delle risorse specializzate, dovuta soprattutto all’inadeguatezza della preparazione professionale degli insegnanti curricolari, per lo più totalmente digiuni della formazione di base nella didattica speciale;
  • lo scarso coinvolgimento delle famiglie, per la strutturale carenza di informazioni circa le reti di servizi e le risorse disponibili per il sostegno;
  • le limitate e insufficienti iniziative di orientamento professionale sino ad ora rivolte agli alunni con disabilità.

Le risposte del nuovo decreto per rilanciare l’inclusione: un passo in avanti o una battuta d’arresto?

Il decreto attuativo della delega potrà cambiare questo complesso stato di fatto? E’ ancora presto per dirlo, tenuto anche conto del fatto che è stata prevista dal Legislatore una gradualità degli interventi, per consentire l’adozione dei necessari provvedimenti attuativi e per assicurare idonee misure di accompagnamento.

L’assetto complessivo (con particolare riferimento alle innovazioni introdotte in materia di certificazione e quantificazione delle risorse per il sostegno didattico), entrerà infatti a regime dal 1° gennaio 2019.  Senza dubbio, però, sin da una prima lettura dell’articolato è possibile comprendere che il decreto 66/2017, nel presentarsi come un piccolo testo unico che ambisce a regolamentare le politiche dell’integrazione, cerca di dare una soluzione organica ed esaustiva ai numerosi motivi di insoddisfazione per la scarsa qualità delle pratiche inclusive emersi negli ultimi anni.

L’obiettivo principale dell’intervento riformatore avviato con la “Buona Scuola”, nelle intenzioni del MIUR, è infatti quello di rilanciare l’inclusione scolastica e di rafforzare il concetto di “scuola inclusiva”, come emerge nell’enunciazione dei principi e delle finalità del provvedimento enucleati nell’art. 1. Ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. a), “l’inclusione scolastica… si realizza attraverso strategie educative e didattiche finalizzate allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno nel rispetto del diritto all’autodeterminazione e all’accomodamento ragionevole, nella prospettiva della migliore qualità di vita”.

Tale obiettivo va perseguito attraverso il rinnovamento delle politiche per l’inclusione scolastica e la promozione di una più incisiva partecipazione delle famiglie e delle associazioni di riferimento, quali interlocutori principali dei processi di inclusione nel contesto scolastico e sociale (art. 1, co.2).

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione (art. 2), va però osservato che l’intervento del provvedimento è circoscritto alle sole disabilità certificate: esso infatti si applica esclusivamente agli allievi di tutti gli ordini e gradi scolastici (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di 2° grado) con disabilità certificata ai sensi dell’art. 3 della L. 104/1992, al fine di promuovere e garantire loro il diritto all’educazione, all’istruzione e alla formazione.

Il decreto legislativo 66/2017 risponde quindi a una precisa scelta di politica “inclusiva”, volta ad escludere – mi si passi il gioco di parole ma tale scelta, di per sé, potrebbe sembrare paradossale, trattandosi di un provvedimento finalizzato al rilancio dell’inclusione scolastica – dall’ambito di applicazione della riforma le ulteriori categorie degli alunni certificati con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) o con BES (bisogni educativi speciali): vale a dire tutta quell’ampia casistica di alunni che, a causa di deficit, carenze o disturbi di diversa natura, hanno difficoltà a seguire il percorso curricolare di classe senza aiuti supplementari e rischiano di rimanere ai margini dei processi di apprendimento e di partecipazione.

Sarebbe quindi stato auspicabile che la riforma della “Buona Scuola” proponesse una normativa più complessa e articolata, che tenesse conto anche di questi soggetti deboli che, in passato, hanno ottenuto visibilità e tutela giuridica in seguito all’emanazione della legge 8 ottobre 2010, n. 170 e alla pubblicazione delle Linee Guida del 27 dicembre 2012 (direttiva sui BES).

Il provvedimento invece, ponendosi entro i ristretti confini imposti dalla legge delega 107/2015, sembra concentrarsi su alcune garanzie ormai consolidate nella logica del “sostegno” agli studenti disabili in senso tradizionale, mettendo a sistema tutti i principali interventi a sostegno dell’inclusione scolastica, come i servizi di assistenza e l’utilizzazione delle risorse professionali, finanziarie e strumentali disponibili, la certificazione funzionale e la previsione di figure professionali specializzate, di cui si cerca di salvaguardare una continuità di presenza e di intervento.

Nel complesso, dunque, il decreto legislativo 66/2017 parrebbe segnare una battuta d’arresto rispetto alla normativa in materia di DSA e BES e, al tempo stesso, sviluppare e regolamentare aspetti già previsti dalla Legge quadro (L. 104/1992), pur valorizzando la cultura inclusiva relativa ai disabili così come si è andata evolvendo nel tempo (quanto meno a partire dagli anni Novanta) alla luce della normativa sull’autonomia e sul decentramento e armonizzando le politiche per l’inclusione messe in campo da tutti gli attori istituzionali coinvolti.

L’obiettivo complessivo del nuovo decreto è infatti il tentativo di migliorare la qualità dell’integrazione scolastica, attraverso il coordinamento delle numerose norme che si sono succedute – a volte disordinatamente – nel corso degli anni. In effetti, più che puntare sugli elementi di novità, che comunque sono significativi (come l’introduzione dell’ICF e i nuovi percorsi di formazione dei docenti specializzati), prevale l’idea che, con il provvedimento in questione, il Legislatore voglia dare una sistemazione organica a elementi spesso frammentari e scarsamente coordinati tra loro.

I punti di forza e le principali novità introdotte dal decreto.

Senza avere la pretesa di esaminare in modo analitico il provvedimento (non essendo questa la sede più opportuna, per esigenze di brevità), vale però la pena, a questo punto, mettere sinteticamente in luce alcuni contenuti innovativi dell’articolato, per coglierne tutte le possibili opportunità e i futuri sviluppi applicativi.

  1. Stato, Scuola, Regioni, Enti locali: a chi spetterà cosa?

Il primo aspetto innovativo è dato proprio dalla puntuale definizione dei compiti spettanti a ciascun attore istituzionale (Stato, Regioni, Istituzioni Scolastiche ed Enti locali). A norma dell’art. 3 del D. Lgs. 66/2017 (Prestazioni e competenze), le prestazioni e i servizi necessari per garantire l’inclusione scolastica sono assicurati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti Locali e le competenze in materia di inclusione degli alunni disabili vengono ripartite nel seguente modo.

Lo Stato provvede, per il tramite dell’Amministrazione Scolastica:

  • all’assegnazione nella scuola statale dei docenti per il sostegno didattico;
  • all’assegnazione dei collaboratori scolastici nella scuola statale, anche per lo svolgimento dei compiti di assistenza previsti dal profilo professionale;
  • alla definizione dell’organico del personale ATA, tenendo conto, tra i criteri per il riparto delle risorse professionali, della presenza di alunni e di studenti con disabilità certificata presso ciascuna istituzione scolastica statale;
  • all’assegnazione alle istituzioni scolastiche di un contributo economico, parametrato al numero degli alunni e studenti disabili rispetto al numero complessivo degli alunni frequentanti;
  • alla costituzione delle sezioni per la scuola dell’infanzia e delle classi prime per ciascun grado di istruzione, in modo da consentire, di norma, la presenza di non più di 22 allievi ove siano presenti studenti con disabilità certificata, fermo restando il numero minimo di alunni o studenti per classe, ai sensi della normativa vigente.

Gli Enti Locali, nei limiti delle risorse disponibili, assicurano:

  • l’assegnazione del personale dedicato all’assistenza educativa e all’assistenza per l’autonomia e per la comunicazione personale, in coerenza con le mansioni dei collaboratori scolastici;
  • i servizi per il trasporto per l’inclusione scolastica;
  • l’accessibilità e la fruibilità degli spazi fisici delle istituzioni scolastiche statali previsti dall’articolo 8, comma 1, lettera c), della legge 104/1992 e dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23/1996.

Lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali garantiscono l’accessibilità e la fruibilità dei sussidi didattici, degli strumenti tecnologici e digitali necessari a supporto dell’inclusione scolastica agli alunni e agli studenti con disabilità.

  1. Il ruolo determinante dell’INVALSI nell’individuare gli indicatori per la valutazione della qualità del delicato processo relativo all’inclusione scolastica.

Un altro aspetto significativo, che senza dubbio rappresenta una delle principali novità della riforma, è rappresentato dall’introduzione nel processo di valutazione delle istituzioni scolastiche di quello che viene definito il “livello di inclusività” – vale a dire la misurazione della qualità dell’inclusione scolastica – raggiunto da ciascuna istituzione scolastica.

Grazie alla riforma, quindi, la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica diventa parte incisiva del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche. Ogni scuola deve infatti predisporre, nell’ambito del PTOF, un Piano specifico per l’Inclusione (PI), per il quale vengono definiti dalla legge contenuti e modalità attuative (art. 8) e che rappresenta il principale documento programmatico e operativo in materia di inclusione.

Il Piano per l’Inclusione è quindi parte integrante del Piano Triennale dell’Offerta Formativa e definisce l’utilizzo integrato delle risorse (strumentali, professionali, progettuali) per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni disabili: aspetto, questo, che entra così a pieno titolo nei processi di valutazione delle scuole. L’art. 4 del provvedimento, avente ad oggetto la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, stabilisce infatti che la valutazione del “livello di inclusività” è parte integrante del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche previsto dall’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80 (“Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione”).

Ogni scuola è quindi tenuta ad inserire nel proprio rapporto di autovalutazione (RAV) una serie di descrittori rispetto ai quali esprimere un posizionamento autovalutativo, nonché ipotesi di miglioramento, in riferimento “livello di inclusività” raggiunto.

Nella valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, come stabilisce l’art. 4, co. 2, un ruolo determinante spetta all’INVALSI che, in fase di predisposizione dei protocolli di valutazione e dei quadri di riferimento dei rapporti di autovalutazione, ha l’importante compito di definire gli specifici indicatori di inclusività sui principali aspetti dell’integrazione, di carattere organizzativo, didattico e professionale, sulla base dei seguenti criteri:

  1. livello di inclusività del Piano Triennale dell’Offerta Formativa come concretizzato nel Piano per l’inclusione scolastica;
  2. realizzazione di percorsi per la personalizzazione, individualizzazione e differenziazione dei processi di educazione, istruzione e formazione, definiti ed attivati dalla scuola, in funzione delle caratteristiche specifiche delle bambine e dei bambini, delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti;
  3. livello di coinvolgimento dei diversi soggetti nell’elaborazione del Piano per l’inclusione e nell’attuazione dei processi di inclusione;
  4. realizzazione di iniziative finalizzate alla valorizzazione delle competenze professionali del personale della scuola, incluse le specifiche attività formative;
  5. utilizzo di strumenti e criteri condivisi per la valutazione dei risultati di apprendimento delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, anche attraverso il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione;
  6. grado di accessibilità e di fruibilità delle risorse, attrezzature, strutture e spazi, in particolare, dei libri di testo adottati e dei programmi gestionali utilizzati dalla scuola.

Di questi criteri le istituzioni scolastiche dovranno tener conto nell’ambito dei processi di autovalutazione e di valutazione di sistema (SNV). Gli indicatori utilizzati per la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica vengono definiti dall’INVALSI in collaborazione con l’Osservatorio Permanente per l’Inclusione Scolastica, istituito presso il MIUR (art. 15), con compiti di analisi, monitoraggio, proposte di sperimentazione, pareri. Presieduto dal Ministro o da un suo delegato, questo nuovo organismo è composto da rappresentanti delle Associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative sul territorio nazionale nel campo dell’inclusione scolastica, da studenti e da altri soggetti pubblici e privati, comprese le istituzioni scolastiche, nominati dal MIUR.

In merito alla misurazione della qualità dell’integrazione scolastica e alla valutazione del “livello di inclusività”, è però necessario sviluppare alcune ulteriori considerazioni. Appare infatti particolarmente degna di nota l’attenzione alle scelte della scuola in materia di inclusione degli alunni con disabilità e alla centralità del progetto inclusivo delle singole istituzioni scolastiche che, grazie alla riforma della “Buona Scuola”, diventa parte integrante nella valutazione di sistema.

Se, come si è già detto, l’obiettivo complessivo del nuovo decreto è il tentativo di migliorare la qualità dell’integrazione scolastica, la chiave di volta dell’impalcatura della “scuola inclusiva”, o meglio la “cartina di tornasole” del raggiungimento di un buon livello di inclusività è senza dubbio rappresentata dal rafforzamento dei sistemi di monitoraggio e valutazione dell’integrazione.

Occorre però considerare che la qualità dell’inclusione è, di per sé, un fenomeno di difficile misurazione quantitativa e che quindi un sistema di indicatori oggettivi che si affidi a benchmark quantitativi, a procedure valutative eccessivamente performative o a graduatorie tra istituzioni scolastiche in senso meramente comparativo, difficilmente potrà rappresentare uno strumento efficace per la misurazione e la valutazione di un sistema inclusivo che, all’opposto, implica la mobilitazione dal basso di risorse professionali e organizzative interne ed esterne, in un clima collaborativo e in un contesto di condivisione di valori basato soprattutto sul senso di appartenenza a una comunità educante ed inclusiva, sull’accoglienza, sulla promozione delle relazioni umane, sull’aiuto reciproco e sul sentimento di solidarietà.

Solo se si sarà in grado di coltivare e sviluppare un contesto del genere, la scuola potrà dirsi veramente “inclusiva”, ossia efficace per tutti e mirante al successo formativo degli allievi, nessuno escluso.

  1. Il nuovo iter dell’inclusione scolastica e la nuova documentazione: il Profilo di Funzionamento.

Importanti novità riguardano anche il percorso dell’inclusione e i documenti di riferimento. Il D. Lgs. 66/2017 infatti incrementa ulteriormente la qualificazione professionale specifica delle commissioni mediche preposte alla certificazione della disabilità, introduce una nuova e più articolata procedura per il sostegno didattico, in vista della redazione del Profilo di Funzionamento (PdF), e definisce una nuova dimensione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), che a sua volta diverrà parte integrante del Progetto Individuale (di competenza del Comune), aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione.

Si ricordi che alcune tra le maggiori novità del decreto – quelle che riguardano, nello specifico, la costituzione delle commissioni mediche per il riconoscimento della disabilità in età evolutiva e l’adozione del Profilo di Funzionamento, e che si intende in questa sede prendere conclusivamente in considerazione – entreranno in vigore dal 1° gennaio 2019.

Con alcune modifiche all’art. 4 della legge n.104 del 1992 (procedure per la certificazione dell’handicap), l’art. 5 del D. Lgs. 66/2017 disciplina un nuovo assetto delle commissioni mediche per il riconoscimento della disabilità in età evolutiva, istituite presso l’INPS, prevedendo che, nei casi di persone in età evolutiva, le stesse siano composte da: un medico specialista in medicina legale, con funzioni di presidente; due medici specialisti (in pediatria, in neuropsichiatria infantile  o nella specializzazione inerente la condizione di salute del soggetto); un assistente specialistico o operatore sociale, individuati dall’ente locale; un medico dell’INPS. La commissione medica decide sul diritto al sostegno didattico, sulla base di una richiesta che la famiglia rivolge all’INPS attraverso il proprio medico di base o pediatra. L’INPS è tenuto a dare riscontro entro e non oltre 30 giorni.

Per quanto riguarda il nuovo iter procedurale previsto del decreto, la procedura di certificazione e documentazione per l’inclusione prevede quindi le seguenti tappe:

  1. Innanzi tutto, i genitori (o chi ne esercita la responsabilità) fanno domanda di accertamento della disabilità in età evolutiva all’INPS.
  2. La Commissione Medica rilascia la certificazione di disabilità.
  3. I genitori trasmettono la certificazione di disabilità:
  • all’Unità (o équipe) di valutazione multidisciplinare, ai fini della predisposizione del PROFILO DI FUNZIONAMENTO (art. 5, c. 5), ai fini della formulazione del Progetto Individuale e del PEI (Piano Educativo Individualizzato);
  • all’ente locale competente (Comune) ai fini della predisposizione del PROGETTO INDIVIDUALE (il quale, per essere attivato, necessita di una formale richiesta da parte dei genitori del disabile);
  • all’Istituzione Scolastica, ai fini della predisposizione del PEI.

L’unità di valutazione multidisciplinare è a sua volta composta da: un medico specialista o un esperto della condizione di salute della persona; uno specialista in neuropsichiatria infantile; un terapista della riabilitazione; un assistente sociale o un rappresentante dell’Ente locale di competenza che ha in carico il soggetto.

Se la procedura, di per sé, non è stata innovata ma confermata dal decreto 66/2017 (pur con la modificazione della composizione dell’equipe multidisciplinare), un cambiamento radicale si ha invece in materia di Diagnosi Funzionale.

Il Profilo di Funzionamento (PdF), che deve essere redatto successivamente all’individuazione e alla certificazione della condizione di disabilità ad opera della Commissione medica dell’INPS, a far data dal 1 gennaio 2019 (art. 19, c. 1 e 2), sostituirà e accorperà in un unico documento la Diagnosi funzionale e il Profilo dinamico funzionale (art. 5, c. 2 sgg., del D. Lgs. 66/2017, che modifica il comma 5 dell’art. 12 della legge n. 104/1992): supporti documentali, questi ultimi, che attualmente definiscono la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica di cui lo studente ha bisogno per una piena integrazione e che rappresentano documenti essenziali per l’elaborazione del PEI e del Progetto individuale.

Va ricordato che la Diagnosi Funzionale è una certificazione di esclusiva competenza clinica: costituisce infatti una descrizione del funzionamento dell’alunno con disabilità nei diversi settori di sviluppo, con indicazioni rispetto alle potenzialità e ai deficit, all’evoluzione attesa, all’eventuale esigenza di attribuire un educatore ad personam (per le autonomie, la comunicazione, le relazioni sociali…).

Il Profilo Dinamico Funzionale è invece un documento la cui redazione coinvolge diverse ed eterogenee competenze professionali, dato che è elaborato da servizi clinici e dai docenti del Team/Consiglio di classe, in sinergia con i genitori, e ha lo scopo di sintetizzare i dati raccolti – a partire dalla Diagnosi Funzionale, dalle osservazioni sistematiche dei docenti, dalle informazioni dei genitori – facendoli confluire in un “profilo” complessivo dell’alunno, da cui partire per elaborare la progettazione didattico-educativa (P.E.I.).

Il Profilo Dinamico Funzionare era disciplinato dalla Legge Quadro N.104/92 e dal DPR 24 febbraio 1994 (atto di indirizzo), che così recitava: “Il profilo dinamico funzionale indica le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell’alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona”.

Rispetto alla previgente documentazione, la previsione normativa relativa al nuovo Profilo di Funzionamento rappresenta una vera e propria “rivoluzione copernicana” in materia di inclusione degli studenti con disabilità, non tanto e non solo per l’organismo legittimato a redigerlo, quanto, se non soprattutto, per i criteri che ne informano la redazione e per il nuovo modello bio-psico-sociale che ne rappresenta il punto di riferimento fondamentale.

Il nuovo documento è redatto a cura dell’Unità di valutazione multidisciplinare (già prevista dall’art. 3, c. 2, dell’Atto di indirizzo, emanato con D.P.R. 24 febbraio 1994), a forte componente medico-sanitaria, con la collaborazione della famiglia dell’alunno disabile, e vede la partecipazione di un rappresentante dell’amministrazione scolastica, individuato preferibilmente tra i docenti della scuola frequentata.

Propedeutico per la predisposizione del Progetto Individuale e del PEI, tale documento definisce le competenze professionali e la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica ed è aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione, a partire dalla scuola dell’infanzia, nonché in presenza di nuove e sopravvenute condizioni di funzionamento della persona.

In estrema sintesi, il Profilo di Funzionamento contiene la descrizione funzionale dell’alunno in relazione alle difficoltà che dimostra di incontrare e l’analisi dello sviluppo potenziale a breve e medio termine, desunto dall’esame di una serie di criteri e parametri di funzionamento, così come definiti dal modello I.C.F. (International Classification of Functioning) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

A tale riguardo, l’aspetto senza dubbio più innovativo e significativo del progetto di inclusione introdotto dal D. Lgs. 66/2017 consiste proprio nella scelta di adottare come riferimento per la redazione del Profilo di Funzionamento dell’alunno disabile il modello bio-psico-sociale della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della salute (ICF), adottata dall’OMS. Tale classificazione, che fa riferimento agli standard internazionali dell’ICD (International Classification of Diseases), è stata introdotta dall’OMS sin dal 2001, ma in Italia è stata applicata in modo generalizzato solo a partire dal 2006.

In effetti, sia a livello clinico che sotto il profilo didattico, questo modello di classificazione del funzionamento della disabilità e della salute è tuttora poco conosciuto: esso si basa su un criterio di analisi che prende in considerazione un “continuum” di riferimento, senza soluzioni di continuità tra “normalità” e “patologia”, in relazione al quale ogni persona ha un suo “funzionamento” che dipende sia dalle sue condizioni personali (il suo stato di salute, la sua condizione di benessere, gli effetti della sua malattia) sia dai contesti di vita e di relazione (sociale, familiare, lavorativo) in cui si trova a vivere e a operare.

Ed è proprio la combinazione, che varia da soggetto a soggetto, tra le condizioni personali e il contesto ambientale ed esistenziale a determinare il cd. “profilo di funzionamento”. Dato che ogni persona ha un suo specifico e peculiare “funzionamento”, non è quindi più possibile – se mai lo è stato – determinare un confine netto e rigido tra la “normalità” e la “patologia”.

Tutte le condizioni biologiche e psicologiche che caratterizzano il “funzionamento” degli individui sono quindi ricomprese in uno spettro molto ampio e diversificato, in un “continuum” dove la condizione di ciascun soggetto trova una sua collocazione a seconda delle sue caratteristiche personali e di quelle del contesto in cui si trova a vivere. Il Profilo di Funzionamento rappresenta quindi una sorta di screening delle condizioni della persona (di qualsivoglia persona, non solo del soggetto disabile) e del suo modo di “funzionare”.

Considerando la disabilità come un fenomeno che non solo va analizzato sotto un profilo eziologico-medicale ma anche, se non soprattutto, inserito in un contesto biologico, esistenziale e sociale in cui entrano in gioco molteplici fattori inerenti le caratteristiche del soggetto, le sue capacità residue, il suo benessere, ma anche il suo ambiente di vita, le sue relazioni, le sue potenzialità di crescita, il profilo di funzionamento diventa dunque il nuovo documento “dinamico” da cui prende avvio non solo la progettazione dell’intervento educativo che sfocerà nell’elaborazione e condivisione del Piano Educativo Individualizzato (PEI), ma anche un “progetto individuale” in cui far confluire i diversi momenti della vita di una persona disabile (i trattamenti terapeutici e riabilitativi, il tempo libero, l’inserimento lavorativo, la vita sociale, ecc.).

Sotto questo profilo, la riforma voluta della “Buona Scuola” rappresenta senza dubbio una sfida alla piena realizzazione di una scuola inclusiva: l’adozione del nuovo Profilo di Funzionamento non potrà infatti risolversi in un mero adempimento burocratico e amministrativo ma, per essere coerente con l’idea di piena inclusione e con il riconoscimento in positivo della diversità auspicati dalla L. 107/2015, dovrà tradursi in uno strumento operativo che concorra ad attuare un intervento educativo efficace, di tipo olistico e proattivo, in grado di incidere concretamente e positivamente sul livello di human functioning dell’alunno disabile, sostenendolo nel suo personale percorso di crescita esistenziale e di sviluppo cognitivo e favorendone in concreto la libertà di espressione nel contesto esistenziale e sociale in cui vive, a partire da un ambiente scolastico accogliente e inclusivo a tutti gli effetti.

Questo nuovo percorso richiederà, ovviamente, anche adeguati interventi di formazione e di preparazione delle diverse professionalità chiamate a elaborare il Profilo di Funzionamento e del personale scolastico (docenti curricolari e di sostegno) che lo dovrà rendere operativo trasfondendolo nel P.E.I.  A tale proposito, in conclusione, sembrano particolarmente significative e illuminanti le seguenti osservazioni: «Non si può delegare la Diagnosi funzionale esclusivamente ai tecnici specialisti, con l’aspettativa illusoria che essi forniscano agli insegnanti un “distillato” prodigioso di conoscenze e di linee operative, miracolosamente capace di metterli in condizione di lavorare adeguatamente risolvendo ogni dubbio e difficoltà.

La conoscenza approfondita della situazione dell’alunno, l’esplorazione delle sue capacità, dei suoi deficit e delle varie cause che portano a questa situazione devono coinvolgere una gamma molto ampia di persone e professionalità che, naturalmente, si pongono da prospettive e con metodologie di valutazione diverse, necessariamente da integrare e completare a vicenda».

Responsabilità penale del ds per omessa manutenzione degli edifici scolastici. Il caso del crollo del Convitto Nazionale di L’Aquila a seguito del terremoto del 2009

Quello della sicurezza nella scuola, ambiente di frequentazione quotidiana per gli alunni e di lavoro per il personale, è un tema molto delicato, spesso associato anche a situazioni di rischio connesse alla vulnerabilità degli edifici scolastici, soprattutto in aree ad alto impatto sismico, ma non solo. Le questioni inerenti la sicurezza strutturale, igienica e impiantistica sono infatti all’ordine del giorno in riferimento alla manutenzione e alla messa in sicurezza degli edifici scolastici, la cui costruzione è spesso piuttosto datata, per non dire obsoleta.

Sotto questo profilo, la responsabilità del DS può apparire oggi eccessivamente gravosa, anche in considerazione del fatto che gli attuali orientamenti giurisprudenziali in materia di sicurezza dei lavoratori e degli ambienti di lavoro scolastici sembrano tendere a riconoscere la titolarità delle relative responsabilità penali non solo in capo ai dirigenti degli enti locali proprietari degli edifici, ma anche in capo ai dirigenti delle istituzioni scolastiche.

Alla luce del recentissimo dibattito sorto intorno alla necessità di modificare il D. Lgs. 81/2008 relativamente alle responsabilità attribuite ai DS in qualità di “datori di lavoro” delle istituzioni scolastiche che dirigono, appare quindi interessante, in questa sede, prendere sinteticamente in considerazione le motivazioni contenute in una recente sentenza della Corte di Cassazione in materia di sicurezza nelle scuole, per mettere in luce l’iter logico e argomentativo seguito dalla Suprema Corte in tale pronuncia, i principali aspetti giuridici affrontati e la ratio sottesa ad un orientamento giurisprudenziale che appare ormai maggioritario.

Tale pronuncia risale all’anno 2016, a conclusione di una vicenda processuale che ha suscitato enorme risonanza mediatica presso l’opinione pubblica per la gravità dell’evento occorso – avendo il crollo di una parte dell’edificio scolastico provocato la morte di tre studenti e lesioni gravi a carico di altri due – e per le drammatiche vicende personali, oltreché professionali, che hanno visto protagonista il Dirigente all’epoca dei fatti a capo dell’Istituzione Scolastica coinvolta, il Convitto Nazionale di L’Aquila, crollato a seguito del devastante terremoto che nel 2009 ha colpito la città capoluogo abruzzese.

Data la complessità e la densità delle argomentazioni emerse in questa pronuncia, oltreché per la rilevanza della tematica affrontata, si fa necessariamente rinvio al testo integrale della sentenza (allegata al presente contributo).

Il commento proposto in questa sede, sarà di conseguenza, necessariamente, sintetico e centrato esclusivamente sulla responsabilità penale del DS; non verrà quindi presa in considerazione la parte motiva relativa alla sussistenza della responsabilità, ex art, 40 cpv. cod. pen., anche in capo al soggetto che all’epoca dei fatti era dirigente tecnico dell’edilizia scolastica della Provincia, ritenuto dalla Suprema Corte titolare di una peculiare posizione di garanzia, complementare rispetto al ruolo di garanzia assunto in primis sul dirigente dell’Istituzione scolastica, e parificabile a quella dell’RSPP.

Va altresì osservato che la pronuncia in parola fa parte di una serie di sentenze emanate nel 2016 dalla Cassazione in materia di sicurezza nelle scuole: pronunce che non vale qui la pena ricordare se non in modo cursorio, e che semmai saranno esaminate in successivi interventi, ai quali faccio rinvio per gli opportuni approfondimenti.

  • Premessa. Responsabilità e obblighi del Dirigente scolastico come “datore di lavoro” nell’istituzione scolastica.

Per analizzare la pronuncia della Cassazione relativa al crollo del Convitto Nazionale di L’Aquila a seguito del terremoto del 2009, è necessario prendere la mosse dalla rilevante posizione di garanzia del DS in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, anche, se non soprattutto, in tema di incolumità delle persone, per comprendere come essa si atteggia e si declina, nel caso di specie, in relazione all’ipotesi di verificazione – più o meno prevedibile ex ante e governabile – di eventi catastrofici, come i terremoti, in zone ad elevato rischio sismico.

A tale proposito, pur rinviando ad un ulteriore approfondimento la complessa e frammentaria normativa vigente in materia di edilizia scolastica pubblica, che ha recentemente avuto un impulso particolarmente significativo, in termini di sicurezza e riqualificazione, proprio a seguito degli eventi sismici che hanno colpito l’Italia centro-meridionale del 2009, bisogna ricordare che, ai sensi dell’art. 1 del D.M. n. 292/1996, ai fini degli obblighi e delle responsabilità prevenzionistiche in materia di sicurezza nelle istituzioni scolastiche, il Dirigente Scolastico assume la qualifica di “datore di lavoro” nell’Istituto cui è preposto. In riferimento a tale profilo di responsabilità, l’individuazione del DS quale destinatario degli obblighi di legge avviene in relazione agli istituti scolastici ed educativi statali, di ogni ordine e grado.

Questa rilevante posizione di garanzia è messa in evidenza anche dalla Corte di Cassazione, nel riprendere i passaggi salienti della sentenza di primo grado, che a sua volta richiamava la normativa vigente in materia: “… Il dirigente scolastico ha numerosi obblighi definiti dall’art. 2 del D.Lgs.n.81 del 2008, e dall’art. 1 del D.M. n. 292 del 1996: egli riveste la qualità di datore di lavoro. […] La rilevanza di tale normativa è stata recepita dalla circolare ministeriale n. 119 del 29 aprile 1999che a sua volta “si inserisce nella normativa di riferimento costituita dal richiamato D.Lgs.n.81 e da alcuni decreti ministeriali attuativi.”

Per i dirigenti scolastici, parificati ai datori di lavoro, sussiste quindi una responsabilità diretta e non delegabile, in relazione agli specifici adempimenti ed agli obblighi datoriali che la legge prevede a loro carico.

Tra gli adempimenti, come ricorda la Corte, sulla scorta di quanto già evidenziato dal Giudice di Prime Cure, “vi è dunque in primo luogo un obbligo di valutazione dei rischi da esprimere in apposito documento con la collaborazione del responsabile della sicurezza.”

Importanza fondamentale riveste anche l’obbligo di segnalazione dei rischi all’ente locale proprietario o all’ente locale – nel caso di specie, la Provincia di L’Aquila – gestore dell’immobile, gravato a sua volta degli oneri inerenti alla manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché di quelli relativi ai necessari interventi di ristrutturazione e di messa in sicurezza dell’edificio. Tenendo conto della reale situazione delle strutture pubbliche, nelle quali i dirigenti non hanno potestà di spesa e di intervento, la normativa vigente limita infatti la responsabilità del dirigente scolastico alla segnalazione dei rischi all’ente locale competente, come rimarcato anche nella sentenza del Tribunale richiamata dalla Suprema Corte: “Gli obblighi in questione si intendono assolti, ai sensi del D.Lgs.n.81, art.18, comma 3, con la richiesta di opportuni interventi nei confronti delle amministrazioni competenti; fermo restando l’obbligo di garantire nelle more dell’intervento richiesto un equivalente livello di sicurezza e, nel caso in cui ciò non sia possibile, di interrompere l’attività.” Su questo, “ulteriore conferma si rinviene nel D.M. 29 settembre 1998, n. 382.”

La pregnante posizione di garanzia che, in tema di sicurezza e incolumità delle persone, si configura in capo al Dirigente dell’istituzione scolastica viene infine ribadita dalla già menzionata circolare ministeriale n. 119 del 29 aprile 1999 che, “proprio per ciò che concerne gli interventi sulle strutture, prevede l’obbligo del capo di istituto di adottare ogni misura idonea e contingente in caso di grave e immediato pregiudizio per l’incolumità dell’utenza”.

  1. La motivazione della Cassazione, prima parte: analisi dei profili della vicenda afferenti all’imputazione oggettiva dell’evento. a) Rischio sismico e prevedibilità dei terremoti quali “eventi con i quali i professionisti competenti sono chiamati a confrontarsi”.

Dopo aver esposto in modo analitico il contenuto delle (parzialmente divergenti) pronunce dei giudici di merito, la Corte di Cassazione affronta, nella parte motiva, un complesso e articolato  iter logico e argomentativo volto a ribadire gli elementi probatori già acquisiti, nella direzione del riconoscimento della piena responsabilità penale sia dell’allora Rettore del Convitto Nazionale di L’Aquila B. sia del dirigente del settore “edilizia scolastica pubblica istruzione” della Provincia di L’Aquila M., in quanto titolari entrambi di una specifica e concorrente posizione di garanzia in relazione alla verificazione dell’evento lesivo. Lo sviluppo dell’argomentazione della Suprema Corte si struttura in due parti: si procede innanzitutto all’analisi dei profili afferenti all’imputazione oggettiva dell’evento (pp. 20-28), per poi affrontare, conclusivamente, le questioni relative all’elemento soggettivo, ossia alla colpa (pp. 29-30).

In relazione al primo punto, nel ripercorrere le argomentazioni già sviluppate nelle due sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello, la Cassazione ribadisce innanzitutto il principio della oggettiva prevedibilità ex ante del rischio sismico, nel caso di specie drammaticamente concretizzatosi nelle scosse di terremoto che, in quella tragica notte del 6 aprile 2009, hanno provocato il crollo di parti del Convitto Nazionale, con il conseguente grave e immediato pregiudizio per l’incolumità dell’utenza dell’Istituzione scolastica.

Partendo dal presupposto che “il terremoto non rappresenta un fatto eccezionale nel quadro della sismicità dell’area”, la Corte osserva che “la ponderazione del giudice di merito è basata su plurime e significative acquisizioni probatorie”, che concorrono tutte a far emergere oggettivamente, a posteriori, a seguito dei rilevantissimi crolli, la fragilità della struttura edilizia del Convitto Nazionale, la sua fatiscenza e la sua inadeguatezza a fronteggiare significativi eventi sismici. Tali criticità strutturali erano state, del resto, constatate e denunciate dagli esperti già da tempo. Infatti, a più riprese, tra il 2000 e il 2009, “i consulenti hanno posto in luce la vetustà costruttiva e la scadente qualità del manufatto, come documentato anche dal crollo di numerosi solai, del tetto, di murature portanti. Coerenti in tal senso sono anche le relazioni di C. Engineering, del Responsabile del Servizio di prevenzione e protezione ing. I., dei tecnici dell’Università di l’Aquila: essi hanno relazionato le amministrazioni interessate alla gestione e sicurezza dell’edificio.”

In una zona ad elevato rischio sismico quale quella di L’Aquila, quindi, il terremoto deve essere valutato e gestito come un fenomeno del tutto “fisiologico”, per nulla eccezionale ma del tutto prevedibile, soprattutto in occasione della verificazione di uno “sciame sismico” quale quello che si era verificato nei giorni immediatamente precedenti al crollo del Convitto Nazionale.

In riferimento al rischio sismico e la sua prevedibilità, si riporta il passaggio “chiave” della sentenza, in quanto particolarmente significativo: “Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che i terremoti, anche di rilevante intensità, sono eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possono essere considerati come accadimenti eccezionali ed imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente classificate come sismiche (particolarmente Sez. IV, del 27/01/2010 n. 24732, Rv. 248115). In breve, si tratta di eventi con i quali i professionisti competenti sono chiamati a confrontarsi (Sez.IV, 16/11/1989 n.17492, Rv.182859).” In ogni caso, “qualunque valutazione in tale delicata materia va naturalmente rapportata anche a ciascuna peculiare situazione concreta; e di ciò pure il giudice è chiamato a tener conto, come sempre è del resto richiesto nella delicata valutazione sulla colpa. Si vuol dire che la adeguatezza del comportamento dell’agente chiamato a gestire il rischio sismico andrà in ogni caso rapportata alle caratteristiche dell’edificio, alla sua utilizzazione, alle informazioni scientifiche, specifiche e di contesto, disponibili in ordine a possibilità o probabilità di verificazione di eventi dirompenti. Insomma, riassuntivamente, si tratterà di valutare tutte le contingenze proprie del caso concreto.”

  1. La motivazione della Cassazione, prima parte: analisi dei profili della vicenda afferenti all’imputazione oggettiva dell’evento. b) la posizione di garanzia rivestita dai due imputati, e, nello specifico, dal Rettore del convitto Nazionale.

Ancora, ad avviso del giudice di legittimità, la peculiare posizione di garanzia rivestita dal Rettore B., oltre a trovare il suo fondamento giuridico negli obblighi gravanti su di lui, ai sensi dell’art. 2 del D. Lgs. 81/2008, in quanto dirigente scolastico assimilato al “datore di lavoro”, deriva anche da altre rilevanti fonti giuridiche.

Innanzi tutto, come era già stato messo in evidenza nelle pronunce dei giudici di merito,  “analogo obbligo derivava dalla qualifica di organo di vertice dell’ente proprietario e quindi custode dell’immobile, secondo quanto previsto dalla normativa civilistica.” Nel caso di specie, infatti, la proprietà dell’edificio scolastico non è della Provincia, che assume il ruolo di gestore in virtù di una convenzione sottoscritta col Convitto nazionale  nel 2002 e a cui è demandata la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile, ma del Convitto stesso, ente giuridico pubblico presieduto da un Rettore. Il peculiare statuto giuridico del Convitto Nazionale, il cui fine consiste nell’educazione e nello sviluppo intellettuale e fisico dei giovani, ai sensi del D. Lgs. 297/1994, comporta che l’ente in questione abbia la diretta titolarità del diritto di proprietà sull’immobile, dove sono allocate non solo le aule per lo svolgimento delle attività didattiche, ma anche gli spazi destinati al vitto e all’alloggio dei convittori e dello stesso Rettore, il quale nell’edificio ha in uso un appartamento di servizio. Da ciò deriva in capo a B., soggetto responsabile dell’ente proprietario dell’edificio, oltre che dirigente dell’istituzione scolastica, un peculiare obbligo di custodia dell’immobile. Proprio in virtù di tale obbligo, egli avrebbe dovuto non solo attivarsi nell’inviare alla Provincia una richiesta di opportuni interventi di messa in sicurezza dell’edificio, ma anche attuare, nelle more di un intervento da parte della Provincia, tutte le misure necessarie a prevenire ed evitare la verificazione di eventi lesivi, compresa l’extrema ratio, a titolo precauzionale, della sospensione delle attività didattiche, dell’evacuazione degli studenti e della chiusura del Convitto.

In ordine ai mancati interventi di consolidamento della struttura da parte della Provincia, inoltre, come già aveva rilevato la sentenza d’Appello, “l’obbligo della Provincia non esclude quello del dirigente scolastico di interessarsi della solidità della struttura e di assumere iniziative di controllo autonome, da segnalare anche all’ente deputato alla manutenzione, e di assumere comunque le decisioni conseguenti per la tutela degli ospiti. Al riguardo viene richiamato il decreto ministeriale 30 settembre 1977 recante norme cautelari volte a garantire la sicurezza statica di tutte le costruzioni scolastiche”.

Ma gli obblighi del dirigente scolastico per garantire e tutelare la sicurezza e l’incolumità degli studenti convittori residenti nell’edificio scolastico non si esauriscono nei profili sinora esaminati. Molteplici sono infatti le fonti giuridiche che individuano e modellano, in riferimento al DS, l’obbligo giuridico di agire per evitare l’evento dannoso. Bisogna infatti considerare che il Convitto, pur con le sue peculiarità, è pur sempre un’istituzione scolastica (nel caso specifico, una scuola Secondaria di secondo grado) e tale qualificazione pone in capo al Rettore, innanzi tutto, l’obbligo di garantire la sicurezza degli studenti ospiti della struttura. Come osserva la Corte, “tale obbligo si aggiunge e sovrappone a quello che deriva dal rapporto contrattuale […]” individuabile nella convenzione di ospitalità, che “obbligava il vertice dell’istituto a garantire che essa fosse prestata in una condizione di sicurezza”. Inoltre, la presenza all’interno dell’istituto scolastico di studenti minorenni, “comporta un ulteriore obbligo di protezione che deriva proprio dalla funzione educativa” rivestita non solo dai docenti, nell’espletamento della loro funzione didattica, ma anche dal DS in quanto titolare di una posizione verticistica all’interno dell’Istituzione stessa. Che poi, in caso di danno, la responsabilità sia di natura contrattuale, “atteso che l’accoglimento della domanda di iscrizione determina l’instaurazione di un vincolo negoziale”, si è già espressa a più riprese la stessa Corte di Cassazione.

Infatti, in generale, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, “la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che, quanto all’istituto scolastico, l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni”. Inoltre, “tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza”. Obbligo che incombeva, a fortiori, sul Rettore B. il quale, proprio per la sua qualifica dirigenziale nell’ambito dell’istituzione scolastica, aveva assunto un ruolo che, in relazione ai minori, sostituiva la figura genitoriale.

  1. La motivazione della Cassazione, seconda parte: questioni afferenti all’elemento soggettivo, ossia alla colpa.

Nella parte finale della motivazione la Cassazione ripercorre sinteticamente la serrata e articolata analisi condotta dal Giudice di merito in riferimento all’elemento soggettivo del reato, sulla base dei dati emersi sul piano probatorio, tutti concorrenti in modo univoco nel delineare una situazione di reale e obiettiva pericolosità e di grave rischio per l’incolumità dei giovani studenti convittori, per altro anche nei giorni precedenti all’evento sempre più terrorizzati dal continuo e inquietante “stillicidio” delle scosse di terremoto.

La Suprema Corte concorda quindi nel rilevare la totale inerzia del B. e la sua incapacità di prendere una decisione risolutiva nel corso di quella tragica notte, essendogli per altro anche in precedenza mancata del tutto una lucida capacità di valutazione della totale inadeguatezza dell’edificio dal punto di vista statico e del concreto rischio di una sua esposizione a crolli anche in occasione di scosse di lieve o media entità. In definitiva, in una situazione nella quale “la chiusura dell’istituto appariva assolutamente improcrastinabile”, del tutto sordo alle richieste degli studenti di lasciare l’edificio, “l’imputato operò una scelta precisa in totale spregio del piano di sicurezza vigente e delle più elementari regole cautelari”.

Appare quindi, in modo incontrovertibile, la condotta colposa e assurdamente negligente dell’imputato, che avrebbe “omesso di adottare sin dall’epoca del primo manifestarsi delle scosse risalente all’anno precedente l’unico provvedimento che la situazione imponeva: la chiusura del Convitto. La sua responsabilità è cresciuta in modo esponenziale man mano, con il ripetersi delle scosse sino al culmine nella tragica notte, dopo le forti scosse delle 22,40 e delle 00,39”.

E proprio in questo sarebbe consistito, ad avviso del Giudice di Prime Cure, il vero tema da esaminare: la condotta dell’imputato in riferimento alla mancata chiusura ed evacuazione del Convitto: “Qui, secondo il Tribunale, è il cuore del processo. La reale causa, insieme al terremoto, degli eventi lesivi”.

Del resto, anche “sul piano controfattuale, non vi è dubbio che la condotta omessa avrebbe senz’altro evitato l’evento”. Conclude la Suprema Corte: “Per costui il piano di sicurezza prevedeva espressamente il potere-dovere di evacuazione in caso di necessità. D’altra parte, in quella notte fatale si era in presenza di indicazioni drammatiche ed incalzanti che imponevano di corrispondere con immediatezza alle pressanti richieste dei giovani allievi e particolarmente di quelli minori. L’’imputato manifestò, argomenta ragionevolmente la Corte d’Appello, una conclamata insensibilità, una grave negligenza ed imprudenza, imponendo ai ragazzi di sopportare un rischio intollerabilmente elevato che si concretizzò nel breve volgere di poche ore. Di qui il ben fondato addebito colposo”.