Let’s start CLIL

Il termine CLIL è stato introdotto da David Marsh e Anne Maljers nel 1994 ed è acronimo di Content Language Integrated Learning, ovvero una metodologia che integra l’apprendimento di una lingua straniera con una disciplina curricolare. La scelta del primo termine dell’acronimo da parte di Marsh non è stata casuale; nella metodologia CLIL, infatti, l’attenzione è focalizzata sul Content (C), con tale termine si indicano i contenuti-conoscenze di una disciplina non linguistica (DNL) che vengono “veicolati” in lingua straniera.

La distanza tra l’apprendimento tradizionale delle lingue straniere (soprattutto in Italia) e l’apprendimento delle lingue in un contesto CLIL è siderale.

“L’apprendimento delle lingue straniere si è spesso tradotto in una conoscenza formale con una forte carenza dell’aspetto comunicativo” (Mario Cardona).

Gli studenti italiani risultano avere scarse speaking skills e, come fa notare Marcella Menegale, hanno scarse possibilità di migliorarle durante una lezione tradizionale in cui il docente occupa la scena per il 90% del tempo. Una lezione CLIL, invece, crea un ambiente d’apprendimento diverso, ovvero, una lezione non focalizzata sul docente, ma sul discente.

Nel CLIL Learning environment gli studenti manipolano informazioni (ovviamente in L2), risolvono problemi, condividono idee e conoscenze, discutono soluzioni ed esaminano ipotesi: doing things through language. In tal modo, le communication skills vengono acquisite in modo più naturale e disinvolto (learning by doing).

Il Consiglio europeo di Lisbona 2000 e il Consiglio di Barcellona 2002 hanno individuato nella didattica CLIL uno strumento efficace per la diffusione del multilinguismo. Gli Stati membri si sono assunti, all’inizio del 3° millennio, l’impegno non più rinviabile di migliorare le opportunità di vita dei cittadini, aumentando la mobilità grazie a un migliore dialogo interculturale. Oggi la metodologia CLIL fa parte dell’offerta formativa a livello primario e secondario nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea.

L’introduzione del CLIL nella scuola italiana trova attuazione nelle Indicazioni Nazionali 2012 della scuola del 1° ciclo e nei D.P.R. 88 e 89/2010 (Regolamenti dell’assetto ordinamentale degli istituti tecnici e dei licei).

Nella scuola del 1° ciclo le Indicazioni nazionali 2012 sfiorano appena il CLIL, si legge infatti: “Si potranno inoltre creare situazioni in cui la lingua straniera sia utilizzata, in luogo della lingua di scolarizzazione, per promuovere e veicolare apprendimenti collegati ad ambiti disciplinari diversi”.

Nelle Indicazioni nazionali 2018 il CLIL diventa un auspicio e vi è scritto: “Viene quindi auspicata l’introduzione graduale della metodologia CLIL in tutti i gradi e ordini di scuola”.

L’esiguità di dettagli nelle Indicazioni nazionali lascia molto spazio alla libera iniziativa dei docenti italiani nell’implementazione dei moduli CLIL. Anche C. M. Coonan mette in risalto l’esistenza di “no ministerial (national or local)  indications that define standards and set up benchmarks for the CLIL programmes” e, esaminando la questione italiana, per non dire “all’italiana”, continua sostenendo: “Clil programmes are not submitted to a local board of experts for approval, thus the school that propose them are self referential. On account of this, any teacher can decide to set up CLIL”.

Il problema dell’aleatorietà dei programmi CLIL non cambia nella scuola del 2° ciclo. Anzi, nella scuola secondaria di 2° grado vi è anche una querelle tra docenti e dirigenti e tra docenti di DNL con specializzazione CLIL e docenti di lingua straniera.

Per dileguare qualche dubbio, si segua letteralmente il D.P.R. 88/2010, art 8, comma 2, lett.B, dove si parla di “Insegnamento in lingua inglese di una disciplina non linguistica compresa nell’area di indirizzo del quinto anno”; quindi, il CLIL negli istituti tecnici va adottato dai docenti che insegnano una disciplina dell’area di indirizzo. Negli istituti tecnici la metodologia CLIL viene adottata solo al 5° anno e solo in inglese. Il D.P.R. 89/2010, art. 10, comma 5 e 6 recita: “Nel 5° anno è impartito l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica compresa nell’area delle attività e degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle istituzioni scolastiche nei limiti…”.

Si desume che nei licei le discipline che possono adottare la metodologia CLIL sono tutte le DNL (dalla storia dell’arte alle scienze motorie) e in qualsiasi lingua straniera. In tutti i percorsi liceali è prevista la metodologia CLIL al 5° anno, fa eccezione il liceo linguistico.

Nell’allegato D delle Indicazioni Nazionali dei Licei 2010 si dice testualmente: “Dal primo anno del secondo biennio è previsto l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica (CLIL), compresa nell’area delle attività e degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle istituzioni scolastiche… Dal secondo anno del secondo biennio è previsto inoltre l’insegnamento, in una diversa lingua straniera, di una disciplina non linguistica”.

Anche la Legge 107/2015, comma 7, pone come obiettivo formativo prioritario “la valorizzazione e il potenziamento delle competenze linguistiche, con particolare riferimento all’italiano nonché alla lingua inglese e ad altre lingue dell’Unione europea, anche mediante l’utilizzo della metodologia Content language integrated learning”.

Urge sottolineare, tuttavia, che l’obbligatorietà dei Regolamenti e delle Indicazioni Nazionali è rimasta inattuata. Dalle ultime rilevazioni solo un quarto dei licei e degli istituti tecnici hanno ottemperato alla norma. Le motivazioni di tale inadempienza non sono un arcano tra docenti e politici italiani, ma si rinvia ad altri momenti e luoghi la spiegazione delle stesse. Si coglie solo l’occasione per sottolineare che se si vogliono fornire alle future generazioni le chiavi per un’interpretazione autentica della complessità della società contemporanea si deve essere in sintonia con quanto sostiene Siv. Bjorklund: “Access to knowledge was once for building our modern society; now access to knowledge through languages is important for giving people equal opportunities of being an active part of the pervasive internationalisation of all domains of life”.

Banzi: riflessioni su un’esperienza di scambio interculturale

di Marta Negro

4^B Liceo Scientifico G. Banzi Bazoli

Lecce

Una settimana  in una famiglia e in una scuola tedesca a Mainz

La terra ci offre di entrare in relazione reciproca” scrisse Immanuel Kant nel 1795. Oggi, a più di duecento anni di distanza sono ancora troppi gli uomini che vivono sulla terra come inquilini, senza sentirsi cittadini del mondo. C’è però anche chi si sente portatore dello “Ius cosmopoliticum” e che, pertanto, è spinto a  formarsi all’insegna di un’educazione interculturale. Cogliere l’occasione di partecipare ad uno scambio classe con una scuola estera rientra certamente in tale modus vivendi.

Lo scambio di classe non è tra i più conosciuti dei programmi della Onlus Intercultura, ma non per questo è da considerarsi meno entusiasmante. Durante quest’anno scolastico insieme con altri venti studenti, frequentanti come me il Liceo scientifico Banzi di Lecce, ho avuto la possibilità di essere accolta  per una settimana presso una famiglia di Mainz, in Germania e di ricambiare quindi l’ospitalità. Nonostante la permanenza all’estero abbia una durata paragonabile a quella di un comune viaggio di istruzione, è bene saper discernere e dunque sottolineare come le due esperienze non siano assimilabili. Partecipare allo scambio con la consapevolezza  di tale differenza è stato per me di fondamentale importanza, in quanto mi ha consentito di cogliere a pieno il significato autentico del progetto.

Poter instaurare un rapporto diretto con uno studente di altra nazionalità, relazionarsi all’interno di un gruppo eterogeneo di italiani e stranieri, essere accolta da una famiglia ospitante e farne la conoscenza, entrare in contatto con la realtà scolastica di un altro paese, lasciarsi accompagnare nella visita e nella conoscenza di luoghi, tradizioni, costumi, mentalità dagli stessi studenti del luogo e non come turisti… Tutto ciò rappresenta per me il valore aggiunto dell’esperienza vissuta in Germania, ma penso che possa essere considerato comune denominatore di ogni altro programma interculturale.

Accogliere significa anche saper pensare “largo”, incontrare le aspettative dell’ospite, cercando di adottare un punto di vista diverso dal proprio. Tuttavia ricevere una calorosa accoglienza non è mai scontato, e quando la si riceve non si può che rimanerne piacevolmente sorpresi. Infatti ho molto apprezzato l’ospitalità tutt’altro che formale della famiglia tedesca, che ha manifestato un  reale desiderio di conoscermi, facendomi sentire parte integrante della loro quotidianità, seppure per pochi giorni. Questa disposizione favorevole nei miei riguardi si è estrinsecata in atteggiamenti, gesti, accortezze, che hanno dimostrato una grande apertura mentale, propria di chi non vuole limitarsi a dare vitto e alloggio ad una persona estranea, ma intende sinceramente accettarla e integrarla nella propria famiglia.

Lo scambio è stato anche occasione di riflessione per fare un paragone tra le due città interessate dallo stesso, Lecce e Mainz, che si possono considerare centri di media grandezza nel rispettivo panorama nazionale. Mainz rappresenta a pieno titolo il modello positivo di città europea che abbiamo nella nostra mente. Esemplare per il nostro gruppo di italiani è stata  la grande considerazione del tedesco medio per i luoghi pubblici, per il rispetto dell’ambiente. Degna di nota anche l’autonomia nei movimenti di cui gode ogni abitante di Mainz, disponendo sia di una efficientissima rete di trasporto pubblico a portata di app, ma anche di grande sicurezza, percepibile camminando per le strade cittadine.

A nostra volta, è stato estremamente stimolante immedesimarsi negli studenti tedeschi in visita, interrogare noi stessi sul nostro territorio, sui nostri punti di forza e di debolezza, cercando di individuare elementi significativi e caratterizzanti la nostra realtà.

Infine, affinché tali esperienze siano di stimolo per generare circoli virtuosi, o quantomeno abbiano una qualche ripercussione nel tessuto sociale, è prioritario mettere a disposizione degli altri il proprio arricchimento culturale, farsi testimone del proprio vissuto, nell’auspicio della realizzazione di un’etica cosmopolita.