L’istruzione nell’Unione Europea

Nel corso del Novecento gli stati europei portano a compimento l’aspirazione illuminista di un livello di istruzione sempre più generalizzato tra la popolazione attraverso una democratizzazione dell’istruzione e formazione permanente, realizzando sistemi istituzionali di insegnamento organizzati e programmati.

Nel secondo dopoguerra, nell’Europa occidentale, assistiamo ad un impressionante aumento della popolazione scolastica.

Tra gli anni Sessanta e Settanta gli studenti dei corsi secondari raddoppiano, anzi, triplicano in tutti i Paesi europei.

Negli ultimi decenni del «secolo breve», in tutta Europa si assiste ad un innalzamento medio della qualità dell’istruzione, che produce una parziale mobilità sociale.

In Europa, ogni Paese ha la responsabilità di elaborare proprie politiche in materia di istruzione e formazione, decidere i contenuti dell’insegnamento e organizzare il sistema scolastico nazionale.

Il Trattato di Roma (1957) non disciplina la materia di istruzione e formazione. Solamente l’art. 128 prevedeva una politica comune di «formazione professionale» avente come unico fine la risoluzione dei problemi occupazionali.

Nel 1976, il Consiglio Europeo, nella consapevolezza di intervenire nel settore dell’istruzione indica le seguenti priorità d’azione:

  • l’istruzione dei figli dei lavoratori immigrati
  • l’integrazione di sistemi europei di istruzione
  • l’insegnamento delle lingue straniere

È con il Trattato di Maastricht (1992) che l’istruzione viene formalmente riconosciuta come area di competenza dell’Unione Europea (cfr. l’art. 126, paragrafo 1).

Per ogni Stato membro la qualità dell’istruzione costituisce una priorità politica perseguita a livello nazionale al cui sviluppo la Comunità europea può contribuire.

Il 1996 è l’anno della pubblicazione del Libro verde sull’innovazione, ma è anche l’anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita. Il messaggio chiave è che: «non bisogna mai smettere di formarsi». Il progetto di apprendimento permanente (lifelong learning) costituirà uno dei pilastri attorno ai quali si sviluppa a partire dall’anno 2000 il processo di Lisbona considerato a ragione il punto nodale per lo sviluppo delle politiche di istruzione e formazione in Europa.

Il 19 giugno 1999, i Ministri dei Paesi membri si riuniscono per sottoscrivere un importante documento: la Dichiarazione di Bologna con lo scopo di armonizzare i sistemi di istruzione superiore in Europa.

Il Trattato di Amsterdam (1997) apporta modifiche e integrazioni al Trattato di Maastricht. Il 10 gennaio 2003 entra in vigore il Trattato di Nizza che costituisce parte integrante del trattato di Lisbona (particolarmente importante per noi l’art. 9), che dal 10 gennaio 2009 rappresenta la base costituzionale dell’UE.

Inoltre, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che lo stesso valore giuridico dei Trattati, stabilisce all’art. 14 che «ogni persona ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua» e l’art. 15 che «ogni persona ha il diritto di lavorare ed esercitare una professione liberamente scelta o accettata».

Gli stati membri dell’UE sono quindi responsabili dei contenuti e dell’organizzazione dei sistemi di istruzione e formazione professionale. L’UE rispetta la diversità delle norme legislative nazionali e non ha la competenza per armonizzarle ma contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra i Paesi sostenendone ed integrandone la loro azione.

Per una lettura esauriente, scientifica ed integrale dei diversi sistemi educativi europei invito alla lettura del Quaderno di Eurydice Italia sulle diverse strutture dei Paesi membri dell’UE.

Con l’agenda 2030 la scuola fa goal

Il programma d’azione l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile firmata da 193 paesi dell’ONU nel settembre 2015 ingloba 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile in un grande programma d’azione per un totale di 169 target o traguardi intende assicurare a tutti coloro che vivono sulla terra la soddisfazione di bisogni essenziali attraverso uno sviluppo economico che salvaguardi l’ambiente. In questo programma sono condensati le questioni importanti per lo sviluppo: lotta alla povertà, eliminazione della fame, contrasto al cambiamento climatico. Tutti sono coinvolti, nessuno è escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il cammino per andare il mondo sulla strada della sostenibilità.

Il quarto obiettivo riguarda la scuola “Assicurare un’istruzione di qualità equa ed inclusiva e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti”. Un futuro migliore per tutti è possibile attraverso stili di vita sostenibili, con una riduzione drastica della violenza e della mortalità, attraverso la promozione della cultura della pace, la valorizzazione della diversità, dell’uguaglianza di genere. In questo l’istruzione può fare molto assicurando ai giovani un futuro migliore. Un grande passo avanti è fare in modo che tutti siano in grado di leggere e scrivere attraverso un accesso paritario ai livelli di educazione ed istruzione, “elementi trasversali del cambiamento” che abbracciano tutte le età dall’infanzia all’età adulta.

In questo programma ambizioso il richiamo alle tecnologia diventa necessario canale per supportare l’intero sviluppo economico ed il benessere divenendo sostenibili ed affidabili di pari passo con essa e la ricerca. Il MIUR ha recepito l’agenda 2030 con un Piano di educazione alla sostenibilità in 20 azioni raggruppate in 4 macroaree: struttura ed edilizia, didattica e formazione, università e ricerca, informazione e comunicazione.

Alle scuole è demandato il compito di rinforzare i significati dell’Agenda 2030 e rivitalizzare le collaborazioni con tutte le componenti scolastiche, della società civile, delle imprese, del settore pubblico inserendo nei piani triennali dell’offerta formativa. Sarà predisposto un protocollo per l’alternanza scuola lavoro con ENEA per percorsi durante i quali studenti e studentesse possono partecipare a progetti di valutazione energetica.

In più per le scuole superiori sarà organizzato un hackathon per costruire l’agenda della loro scuola con azioni e progetti. Una parte importante del Piano è per progetti di efficientismo energetico delle scuole progettati dalle ragazze e dai ragazzi durante i percorsi di ASL o di educazione ambientale. Sarà predisposto un piano di formazione per docenti e dirigenti. All’interno dei 4 laboratori di formazione per docenti neoassunti sarà riconosciuto un modulo formativo sull’Educazione.

Le azioni possibili del DS sono molteplici e vanno dal perseguimento di una INCLUSIONE piena sicuramente già PATRIMONIO DELLA NOSTRA SCUOLA (L. 170 del 8 ott. 2010 •DM n. 5669 12 lug. 2011 •Linee guida allegate al DM n. 5669 •DIRETTIVA – 27 dic. 2012 Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’Inclusione Scolastica, C.M. n. 8 – 6 marzo 2013). IL DIRITTO ALLO STUDIO già contemplato dalla nostra costituzione trova nell’atto di indirizzo propedeutico al PTOF che il ds emana in coerenza anche con l’agenda 2030 la sua massima declinazione. Insomma con l’agenda 2030 ci sarà tanto da fare nella scuola.

Maastricht e il principio di sussidiarietà

La fondazione della città olandese di Maastricht si fa risalire al 333 d.C., presumibilmente per volontà di San Servazio, vescovo di Tongres e Maastricht, al quale viene attribuita la costruzione di un “castellum”, una fortificazione romana.

La città, medievale nell’architettura e dall’intensa vivacità culturale, viene ricordata oggi per il Trattato dell’Unione Europea, che segnò il 7 febbraio 1992 l’avvio di una stretta collaborazione, di una forte intesa e di una importante condivisione tra i rappresentanti di 12 Paesi Europei: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna.

Il Trattato di Maastricht entrò in vigore il primo Novembre 1993, ufficializzando la nascita dell’Unione Europea (UE), la quale inglobò in sé le tre preesistenti Comunità europee: la Comunità economica, la Ceca e l’Euratom.

Erano state necessità prevalentemente economiche sovranazionali a spingere i sei Paesi già riuniti nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, a fondare il 25 marzo 1957, con la firma sui Trattati di Roma, la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom).

Negli anni ’60, i Paesi dell’Unione Europea, non avendo più applicato dazi doganali per i loro reciproci scambi, determinarono un periodo economico molto produttivo e ciò comportò un interesse da parte di altri Paesi, come la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito, verso la CEE, con conseguente allargamento della stessa e la promozione di nuove politiche estere comuni. Nel 1975 fu creato perfino un Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR).

Gli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i 28 Paesi dell’Unione Europea furono significativamente rappresentati in dodici stelle dorate sulla bandiera blu, che, adottata inizialmente quale bandiera del Consiglio d’Europa il 25 ottobre 1955, attualmente rappresenta lo stendardo sia del Consiglio d’Europa sia dell’Unione Europea: 12 è numero ideale, indice e simbolo di perfezione e unità, 12 come le fatiche di Ercole, 12 come  le tavole della Legge Romana, 12 come i mesi dell’anno, 12 come i figli di Giacobbe.

La disposizione delle 12 stelle dorate a corona rappresenta l’unione dei popoli europei.

Ciascuna stella è disposta verticalmente, cioè una punta è rivolta verso l’alto e due punte sono disposte direttamente su una linea retta immaginaria perpendicolare all’asta, come le ore di un quadrante di un orologio.

La bandiera, intenzionale espressione del senso di unità, collaborazione, reciproco aiuto, è emblema della sussidiarietà dei 28 Paesi, di “…quello che a molti pare qualcosa di inconciliabile: l’emergere dell’Europa unita e la fedeltà alla nostra nazione, alla nostra patria; la necessità di un potere europeo, all’altezza del nostro tempo, e l’imperativo vitale di conservare le nostre nazioni e le nostre regioni come luogo di radicamento” (J. Delors, Riconciliare l’ideale e la necessità, in Il nuovo concerto europeo, Milano, 1993).

Il Trattato di Maastricht, che, come definito dall’accademico americano Andrew Moravcsik, fu il frutto di “un illustre negoziato intergovernativo”, a culmine di una lunga storia di intese, collaborazioni, reciproco sostegno fra gli stati europei, è sicuramente la consacrazione del principio di sussidiarietà e proporzionalità.

Nell’Unione Europea, la sussidiarietà si verifica sia orizzontalmente sia verticalmente.

In effetti, nell’art.11 del TUE, le istituzioni dell’Unione Europea sono tenute a riconoscere ai cittadini e alle associazioni la possibilità di far diffondere e scambiare pubblicamente le proprie opinioni nei vari ambiti dell’Unione Europea: è la sussidiarietà orizzontale, connessa ai rapporti tra autorità pubblica e sfera privata.

Diversamente, il tentativo di avvicinare il cittadino alle istituzione, facendo recuperare una sorta di fiducia nei confronti della Pubblica Amministrazione, spinse gli Stati Europei a riconoscere la necessità di intervento sovranazionale (sussidiarietà verticale). L’Unione Europea si ritrova oggi ad intervenire, in alternativa ad un’azione da parte dei singoli Paesi membri, in particolar modo se si presume un’incapacità individuale dell’efficacia dell’azione o qualora, grazie all’intervento dell’Unione Europea, sia possibile la risoluzione di un problema con una maggiore efficienza. In tal modo, il principio di sussidiarietà non presuppone l’esclusività: l’UE può agire solo se, e nella misura in cui, l’obiettivo di un’azione proposta non può essere raggiunto in maniera soddisfacente da parte dei Paesi, ma potrebbe essere realizzato in modo migliore a livello comunitario.

Ovviamente, la sussidiarietà interviene in quei settori non di “competenza esclusiva” dell’Unione Europea e precisamente: l’unione doganale; la concorrenza intesa quale definizione delle regole necessarie al funzionamento del mercato interno; la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta unica è l’euro; la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; la politica commerciale comune.

La Comunità applica la sussidiarietà nei campi dove sia necessaria la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, per completarne l’operato. Termini come “appoggio” e “azione complementare”, presenti nel Trattato, connotano l’intervento comunitario di suppletività nei vari settori dell’istruzione, della formazione professionale, della cultura, della sanità pubblica, della protezione dei consumatori, delle reti transeuropee e dell’industria.

Nella disciplina di tali materie, la Comunità Europea, non potendosi sostituire ai singoli Paesi, deve incoraggiarne la collaborazione, ripartendo le competenze tra Comunità e Stati membri e  stabilendo la competenza in una certa materia dallo Stato alla Comunità, qualora “gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e passano dunque a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”. Una volta che la competenza è passata alla Comunità viene anche precisato che la sua azione non deve andare “al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato” (principio di sussidiarietà nel Trattato sull’Unione Europea).

Si realizzano, così, le competenze precipue dell’UE, soggette a due ideali fondamentali: la proporzionalità e la sussidiarietà, così come recita l’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea al Titolo I delle Disposizioni Comuni (ex articolo 5 del TCE):

  1.  La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità.
  2. In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.
  3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.

Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo.

  1. In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati.

Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

E’ in tal modo che la cooperazione tra gli Stati, il reciproco sostegno nella garanzia della propria autonomia e il confronto per il conseguimento di obiettivi comuni in grado di promuovere quel clima di condivisa responsabilità pongono le basi perché l’antico continente possa “…diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. (Strategia di Lisbona, 2000)

Parità di genere in UE: una strada ancora lastricata di sassi

La violenza di genere e la femminilizzazione della povertà sono problematiche centrali nelle politiche di pari opportunità portate avanti dall’UE, nel generale processo di integrazione europea nato con il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Europea nel 1957 che, nell’art. 119, ha sancito la parità salariale tra uomini e donne, a parità di mansioni lavorative, gettando le basi di quel processo, non ancora completato, del riconoscimento della parità di genere.

L’argomento viene ripreso nel Trattato di Amsterdam del 1997 che ha decretato il principio di parità tra generi come obiettivo dell’Unione (art. 2) e compito della Comunità nel perseguire tale goal tramite l’attuazione di politiche e azioni comuni (artt. 2 e 3). Nell’art. 13 si afferma che il Consiglio, su proposta della Commissione e dopo aver sentito il Parlamento, può prendere provvedimenti per contrastare discriminazioni fondate su sesso, razza, lingua, religione, convinzioni personali, età, ecc, mentre nell’art. 141 viene estesa l’area di applicazione della parità di retribuzione dei lavoratori di genere non solo ai lavori di pari mansioni ma anche a quelli di pari valore.

Un passo in avanti compie il Trattato di Lisbona (2007) che fa della parità di genere un valore del processo di integrazione e dà forza alla Carta dei Diritti Fondamentali, proclamata nel 2000 a Nizza, che così assume lo stesso valore giuridico dei trattati. Gli artt. 21 e 23 citano espressamente la non discriminazione e la parità tra uomini e donne, rafforzando così l’impegno dell’Unione in materia di pari opportunità.

La parità salariale era stata codificata per la prima volta nel 1919 nel trattato di Versailles che riporta, nella terza parte ove vengono elencate le norme per la costituzione dell’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, un articolo sulla parità salariale tra uomini e donne che ancor oggi non è ancora stata raggiunta attestandosi su una media del +16% a favore degli uomini, tra i diversi paesi dell’UE.

A partire dagli anni ‘70 sono state approvate una serie di direttive, poi recepite dagli Stati membri, riguardo a parità di trattamento tra uomini e donne in termini di accesso al lavoro, parità salariale, condizioni di lavoro, formazione professionale, ancor oggi pilastri importanti di quella che è la politica sociale europea.

Un momento importante nello sviluppo della politica di integrazione europea furono sicuramente le elezioni del Parlamento europeo del 1979 che registrano un deciso aumento della presenza femminile in Parlamento; fu considerata, però, da molti, una sorta di vittoria di Pirro dal momento che il Parlamento non era certo considerato l’organo più importante e le sue elezioni erano perciò dette di “secondo ordine”.

In tal modo le donne hanno comunque potuto dare un importante contributo allo sviluppo della politica di pari opportunità. Nella prima legislazione, infatti, del Parlamento eletto a suffragio, dal 1979 al 1984 fu costituita la prima Commissione per i diritti della donna e una Commissione di inchiesta sulla situazione della donna in Europa, preludio alla nascita della permanente Commissione per i diritti della donna del Parlamento europeo, e al dibattito sul Gender main streaming, cioè il rispetto e l’applicazione del principio di pari opportunità in tutte le politiche pubbliche, che si affermerà negli anni ’90.

A partire dagli anni ’80, su indicazione anche del Parlamento, l’intervento della Comunità è andato ben oltre il tema della condizione femminile nel mercato del lavoro e attraverso i programmi d’azione positiva ha cercato di migliorare in toto la condizione femminile nella Comunità Europea, mediante quattro programmi miranti a:

  • garantire alle donne la più ampia scelta tra le diverse opzioni lavorative senza essere condizionate nella scelta dalla maggiore conciliazione tra lavoro e famiglia (work life balance);
  • garantire alle donne il raggiungimento di posizioni lavorative anche apicali (empowerment femminile);
  • garantire il miglioramento delle condizioni delle donne nella società, obiettivo ampiamente ribadito in occasione della quarta Conferenza mondiale di Pechino nel 1995;
  • contrastare la violenza di genere economica, psicologica, fisica, tramite anche la valorizzazione della professionalità e della imprenditorialità femminile (self employment).

Dal 2000 ad oggi la politica di pari opportunità dell’UE si è sviluppata su cinque obiettivi chiave: accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, garantire la parità salariale, ridurre il divario di genere in termini di retribuzioni, introiti e pensioni e combattere la povertà delle donne. Ciò perché la disparità salariale, la mancata integrazione nel mercato del lavoro, l’entrata e l’uscita più volte e a volte forzata per poter garantire attenzione e cura alla prole e alla famiglia, fa sì che al termine del periodo lavorativo, le pensioni risultino alquanto esigue. Attualmente in Europa si contano 120 milioni di poveri, rappresentati principalmente da donne e bambini per cui è chiaro che per combattere oggi la povertà bisogna innanzitutto rafforzare le politiche di pari opportunità e garantire maggiori risorse per le donne.

Il fenomeno della femminilizzazione della povertà sta emergendo con forza negli ultimi anni in Europa. L’europarlamentare esponente dei socialisti democratici Maria Rena, di recente ha sottolineato come la povertà femminile in Europa non è altro che il risultato del permanere di varie discriminazioni nel mondo del lavoro e della recrudescenza della violenza di genere.

Quest’ultima problematica è fortemente intrecciata proprio con il tema dell’indipendenza economica femminile in quanto elemento importante per contrastare la violenza sulle donne e in grado sicuramente di dare a queste ultime una maggiore forza per opporsi, denunciare, rendersi interpreti della propria salvezza.

Secondo il Report on equality between women and man 2015 la condizione economica di uomini e donne nel mercato europeo del lavoro mostra un divario sostanziale. Il gender pay gap è ancora alto, circa del 16%; il tasso di occupazione è ancora molto basso: tra il full time e il part time, tra i tassi di inactive e di unemployed si registrano gap che superano anche il 20%. Non c’è dunque una piena integrazione nel mercato del lavoro e siamo lontani da quelli che sono gli obiettivi programmatici del documento strategico Europa 2020 che, insieme al Trattato di Lisbona rappresenta il documento di riferimento nella politica di integrazione femminile europea: sviluppare e promuovere un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale, un tasso di occupati in età compresa tra i 20 e 64 anni del 75%, una diminuzione di 20 milioni di unità tra le persone a rischio di povertà.

Nonostante la percentuale delle donne laureate e con ottimi voti sia molto alta, una media di circa il 60% del totale dei laureati, le donne abbandonano in massa le carriere accademiche, in particolare modo quelle scientifiche ed ingegneristiche. La percentuale di donne presenti nei consigli di amministrazione si attestano intorno ad una media di valori del 20% in UE, con scostamenti dalla media del 12,4% in positivo in Francia e del 17,3% in negativo a Malta, mentre la percentuale di donne che rivestono il ruolo di amministratore delegato è del 3%, ben al di sotto di quella democrazia paritaria che la politica di integrazione europea aveva prospettato.

Quello che mostra con molta chiarezza l’ultima relazione della Commissione europea in termini di pari opportunità è che il cosiddetto Breadwinner model non è ancora tramontato: all’uomo che “porta il pane a casa” spetta il lavoro meglio retribuito mentre alla donna il lavoro non retribuito, di cura della casa e della famiglia e le statistiche dimostrano chiaramente come la presenza di uno o più figli in una famiglia influenza verso il basso le statistiche sull’accesso al lavoro retribuito fuori casa da parte femminile.

Eppure una accreditata ed importante testata giornalistica economica, l’Economist già dal 2006, afferma che la crescita economica deve essere guidata dalle donne e che se più donne potessero accedere ad un lavoro retribuito, il mondo sarebbe più ricco!

Maurizio Ferrera nel libro “Il fattore D – perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia”, sottolinea come la women economy messa in atto dal Giappone ha consentito un aumento del PIL dovuto ad un ovvio aumento del reddito familiare, una maggiore capacità di consumo ed investimenti, una diminuzione della povertà e della vulnerabilità nei confronti di avvenimenti imprevisti e una maggiore crescita sociale per l’aumentata rete di rapporti.

Il lavoro delle donne, inoltre, genera altro lavoro, più servizi, legati alla cura della casa, della famiglia, nonché un aumento delle nascite dal momento che con il lavoro non viene meno il desiderio di maternità che nelle donne, anzi, viene in un certo senso soffocato, in presenza di condizioni economiche precarie o addirittura insufficienti: lavoro alle donne, quindi, anche come rimedio al calo demografico che caratterizza la maggior parte dei Paesi europei. Ferrera, quindi, auspica uno sviluppo delle strutture di assistenza all’infanzia, non semplicemente come luoghi di custodia dell’infanzia ma come luoghi ove coltivare e sviluppare talenti.

Essendo la presenza femminile nei differenti Parlamenti d’Europa intorno al 30%, al di sotto quindi di quel rapporto equo tra presenza femminile e maschile che una democrazia paritaria – per chiamarsi tale – dovrebbe registrare, si può affermare che la democrazia paritaria non è propria della nostra Comunità pur essa lottando e lavorando con forza per contrastare il terribile fenomeno della violenza di genere. Essa ha, infatti, sollecitato la firma da parte del Consiglio d’Europa della Convenzione di Istanbul, l’11 maggio 2011 ma entrata in vigore il 1° agosto 2014, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

La violenza di genere è sicuramente oggi un problema mondiale, che si manifesta con dati allarmanti, che interessa trasversalmente ormai tutte le società, da est a ovest, da nord a sud, dalle società ricche a quelle povere, senza distinzione di culture o credo religioso. La lotta alla violenza di genere e la costruzione di una società più democratica e più equa passa sicuramente attraverso la lotta e l’abbattimento di stereotipi, programmi e progetti da sviluppare a tutti livelli della società civile come scuole, ambienti di lavoro, associazioni, mass media, l’inasprimento e la certezza delle pene, firme di accordi e convenzioni a livello nazionale ed internazionale.

L’ONU ha lanciato da alcuni anni un programma di solidarietà HE FOR SHE, movimento che sottolinea l’importanza del coinvolgimento degli uomini nei progetti di contrasto e lotta alla violenza di genere. Anche l’UE ha sottolineato l’importanza di tale progetto essendo la risoluzione del problema della violenza di genere una sfida non solo al femminile ma da condurre insieme, uomini e donne.

L’Unione Europea: opportunità di studio, lavoro e ricerca

L’Unione Europea attraverso svariati programmi che incentivano gli scambi di esperienze, sia in piattaforma che in presenza, favorisce e sostiene la formazione degli studenti attraverso la condivisione di un’offerta formativa di ampio respiro; occasione unica anche per i ragazzi che sono nati in luoghi culturalmente ed economicamente svantaggiati.

Da alcuni anni l’UE, vive un periodo di evidente crisi di consensi. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la grande difficoltà a gestire il flusso dei migranti provenienti soprattutto dai paesi dell’Africa e del Medio Oriente, la minaccia sempre pressante del terrorismo di matrice islamica, il perdurare della recessione economica in quasi tutti i paesi europei, del conflitto siriano e dell’instabilità in Libia, sono senza dubbio elementi di grave destabilizzazione dei valori che portarono alla costituzione dell’UE e, quindi, di indebolimento di una visione condivisa che dalle origini aveva consentito di raggiungere importanti e significativi risultati.

Per la prima volta, la capacità di attrazione dell’UE viene messa in discussione dall’interno. Nonostante ciò, dal punto di vista dell’istruzione/formazione, del lavoro e della ricerca essa rimane indubbiamente una risorsa ancora non appieno sfruttata, soprattutto da docenti e studenti italiani.

Com’è noto, pur essendo i singoli stati membri sovrani e responsabili dei propri sistemi educativi e formativi, nel rispetto delle tradizioni educative, culturali, economiche e sociali di ogni nazione, ormai da decenni, vengono emanate delle Raccomandazioni dal Parlamento europeo per accordare i differenti sistemi scolastici e uniformare i titoli di studio e le qualifiche secondo quadri comuni di riferimento, in modo da permettere una reale mobilità dei cittadini europei all’interno dell’Unione, sia per motivi di studio e di ricerca sia per lavoro. L’UE ha, perciò, una funzione di supporto fissando obiettivi comuni e favorendo lo scambio di buone pratiche.

Analizzando tutti i sistemi scolastici dei paesi membri dell’Unione si rileva inequivocabilmente e in modo generalizzato la promozione dell’educazione alla “cittadinanza responsabile” per sviluppare nei giovani il pensiero critico, la cultura politica e la partecipazione attiva alla vita sociale. Due obiettivi principali delle strategie di collaborazione per il periodo 2010-2020: offrire ai giovani nuove e pari opportunità di studio e lavoro; incoraggiarli a partecipare attivamente alla società.

Emerge la finalità di creare maggiori opportunità lavorative e una vita “migliore” e, di conseguenza, dimostrare che l’Europa è in grado di promuovere una crescita sostenibile, inclusiva e intelligente. Per cui, a seguito del non completo raggiungimento degli obiettivi della strategia “UE 2010”, è stato concepito il Programma Erasmus + (2014/2020) che accorpa in un unico segmento di finanziamento, tutti i programmi a sostegno dell’istruzione, formazione, gioventù e sport, con lo scopo di sostenere, anche, gli obiettivi relativi all’istruzione della Strategia “UE 2020” (crescita intelligente, inclusiva e sostenibile, occupazione, equità sociale e integrazione) e i traguardi nel campo dell’istruzione e formazione per la cooperazione europea del programma Education and Training 2020, “ET 2020” (forum per scambi di informazioni, buone pratiche didattiche e formative, apprendimento cooperativo, metodi di lavoro comuni, strategie e soluzioni vincenti, ecc.)

Il programma Erasmus +, coinvolge numerose organizzazioni (università, istituti d’istruzione e formazione, centri di ricerca, imprese private, ecc.) e offre la possibilità alle persone di tutte le età (studenti, docenti, personale amministrativo, dirigenti, cittadini in genere) di usufruire della mobilità per condividere e sviluppare conoscenze e competenze presso istituti e organizzazioni di differenti paesi dell’UE o, anche, di creare e gestire in modo innovativo progetti comuni attraverso gemellaggi elettronici, come ad esempio “e-Twinning”, che è la community europea più grande di insegnanti attivi nel settore.

Fra le attività possibili: studiare e insegnare all’estero, svolgere servizio di volontariato o di tirocinio formativo europeo, o esperienze sportive di livello comunitario per gli studenti-atleti (promuovendo le carriere duplici), azioni per sostenere lo sport e l’attività fisica in generale, per affrontare le minacce relative all’integrità dei valori insiti nello sport (quindi favorire la tolleranza, il rispetto delle regole e dell’avversario, l’integrazione) e, non da ultimo, contribuire ad organizzare la settimana europea dello sport.

Altra iniziativa fondamentale nel settore dell’istruzione è il programma “Youth on the move”, il cui scopo è di aiutare le nuove generazioni ad acquisire conoscenze, abilità, competenze ed esperienze adeguate alle richieste dall’odierno mercato del lavoro e, quindi, facilitarne l’inserimento. L’UE punta ad una scuola basata sulla personalizzazione degli apprendimenti, su un’azione formativa che tenga conto del diritto di ognuno di apprendere secondo le proprie attitudini e capacità. Ogni paese ha sviluppato un proprio modello di istruzione e formazione che sebbene ancorato alle tradizioni e al contesto nazionale, tiene conto delle raccomandazioni dell’Unione, in un processo di armonizzazione dei diversi sistemi educativi, che devono confrontarsi con una domanda formativa e lavorativa caratterizzata da una grande mutevolezza e da una dimensione sempre più globale.

La partecipazione alle iniziative europee, perciò, è un modo efficace per sviluppare nuove competenze legate all’apprendimento sul campo delle lingue straniere e alle capacità creative, imprenditoriali e di versatilità, che consentiranno ai cittadini del domani non solo di inserirsi più facilmente e attivamente nel mondo del lavoro, ma, anche, laddove fosse necessario, di cambiare lavoro, perché in grado di continuare a formarsi e ri-immettersi continuamente nel circuito in perpetuo divenire delle attività produttive.

Il ruolo del docente in Europa. Dati europei e nazionali a confronto

In Italia ancora oggi molti fanno riferimento alla funzione docente come una professione di comodo per l’idea di posto fisso che le si conferisce, per la possibilità di godere di lunghi periodi di vacanza.

Non si pensa alla “missione” che il docente compie ogni giorno e che non è limitata all’orario scolastico, ma va ben oltre tra riunioni, consigli, aggiornamenti, formazioni, progetti, collegi e programmazioni.

Le ricerche italiane sulla condizione professionale dei docenti nella società della globalizzazione registrano, anno dopo anno, una crescente situazione di disagio e demotivazione in quanto, in passato, essere docente era essere “maestro” e già questo rivelava ammirazione per la cultura, dando così dignità al ruolo rivestito e alla stessa persona che lo rappresentava.

Oggi, le scuole si trovano ad affrontare sfide incommensurabili: devono dare risultati concreti con budget ridotti, essere all’avanguardia, offrire un curriculum motivante e un’istruzione tale da essere al centro della strategia europea della competitività.

Purtroppo, ciò fa della professione docente un mestiere poco ambito. I cambiamenti repentini della società impongono agli insegnanti di rivedere le proprie competenze per migliorarle e di svolgere il proprio compito nel modo più efficace ed efficiente possibile.

Il quadro strategico per l’istruzione e la formazione (ET 2020) approvato dal Consiglio dell’Unione europea che identifica la qualità dell’istruzione e della formazione dichiara che “esiste una necessità di garantire un insegnamento di alta qualità, di offrire agli insegnanti un’adeguata formazione iniziale e uno sviluppo professionale continuo per insegnanti e formatori, e di rendere l’insegnamento una scelta professionale interessante”.

Alla luce della recente riforma del nostro sistema di istruzione e formazione, che ha visto come protagonista il personale docente, si è estrapolato il dato italiano ed è stato comparato al contesto europeo.

Infatti, il nuovo quaderno di Eurydice Italia, La professione docente in Europa: pratiche, percezioni e politiche, è dedicato interamente a questa figura ed analizza le relazioni tra le politiche che regolano le condizioni di lavoro degli insegnanti e le pratiche e le percezioni dei docenti stessi.

Si basa su dati Eurydice ed Eurostat/UOE e su un’analisi secondaria dei dati TALIS 2013, combinando così dati qualitativi con dati quantitativi.

Per quanto riguarda l’offerta e la domanda di insegnanti, in Italia il principale problema è legato all’invecchiamento dei docenti. Gli ultimi dati Eurostat mostrano che il 57% degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie in Italia ha più di 50 anni, contro una media europea del 36%. Gli insegnanti dell’UE di oltre 60 anni si attestano al 9% mentre in Italia la percentuale è più alta, ossia il 18%.

Una professione, inoltre, prevalentemente femminile. Per esempio, nel livello secondario inferiore, gli uomini rappresentano, meno di un terzo del totale. Il minore equilibrio tra i generi si registra in Bulgaria, Estonia, Lettonia e Lituania, in cui gli insegnanti uomini sono meno del 20%.

Nel rapporto vengono studiate anche le opportunità di sviluppo di carriera degli insegnanti, sia in termini di progressione gerarchica che di diversificazione dei compiti. Un aspetto che tuttavia in Italia non è contemplato, in quanto nel nostro paese non esiste, al momento, nessuna prospettiva di sviluppo di carriera nell’ambito della professione docente.

Altro dato significativo è il momento della pensione. mentre in Spagna solo il 29,3% dei docenti ha più di 50 anni, l’Italia la batte con un 59,3%.

Circa la retribuzione, gli insegnanti spagnoli guadagnano fra i 32.000 e i 45.000 euro lordi l’anno, quelli tedeschi tra i 46.000 e i 64.000 euro. Invece quelli italiani devono accontentarsi di uno stipendio annuo che oscilla fra 24.000 e 38.00 euro.

In Italia, e a Cipro, gli stipendi dei dipendenti pubblici risultano congelati. Il governo italiano, infatti, per ridurre il deficit pubblico, ha congelato gli stipendi nel 2010, inizialmente fino al 2013, ma la misura è stata adottata da allora ogni anno.

Altro dato poco confortante riguarda l’orario di lavoro: normalmente il carico di lavoro degli insegnanti si suddivide in ore di insegnamento, di disponibilità a scuola e di lavoro totale. Le ore di insegnamento vengono stabilite contrattualmente nella maggioranza dei sistemi educativi (precisamente in 35 sistemi). La maggior parte dei paesi disciplina anche l’orario di lavoro totale degli insegnanti, che è mediamente di 39 ore settimanali. In 18 sistemi educativi, vengono specificate sul contratto anche le ore di disponibilità obbligatoria a scuola, mentre solo in Italia, e in Belgio, vengono indicate esclusivamente le ore di insegnamento.

Il totale settimanale di ore di insegnamento cambia da paese a paese, passando da un minimo di 14 ore in Croazia, Polonia, Finlandia e Turchia, a un massimo di 28 ore in Germania. In media, le ore di insegnamento rappresentano il 44% dell’orario lavorativo totale di un insegnante.

Inoltre, bisogni formativi, che le attività di sviluppo professionale continuo dovrebbero soddisfare, sono diversi a seconda dei diversi sistemi d’istruzione. In quasi tutti i paesi i bisogni espressi dagli insegnanti sono moderati, mentre gli insegnanti italiani, intervistati per l’indagine TALIS dell’OCSE, hanno espresso, il più elevato livello di bisogni di formazione continua.

Dal rapporto di Eurydice emerge che una forma di valutazione degli insegnanti disciplinata a livello centrale è presente in quasi tutti i paesi europei. In seguito alla legge 107, viene, infatti, introdotta, a partire dall’anno scolastico 2015/2016 e con cadenza annuale, la valutazione e la valorizzazione del merito professionale anche nel nostro paese. I criteri per stabilire il bonus in denaro per i docenti meritevoli sono stabiliti da un Comitato di valutazione (la cui composizione è definita al comma 129 della legge) mentre l’assegnazione della somma, sulla base di una motivata valutazione, spetterà al dirigente scolastico.

Anche nel paragone con l’Inghilterra, l’Italia ne esce sconfitta. Un paese che conta 7 milioni di persone in meno rispetto al nostro, aveva investito 80 miliardi di euro nella scuola.

Riguardo la mobilità, poi, il 27,4% degli insegnanti all’interno dell’Unione è stato all’estero almeno una volta per motivi professionali. In almeno metà dei sistemi scolastici europei presi in esame, la percentuale di insegnanti “mobili” è addirittura inferiore. Ciò si verifica in Belgio, Francia, Croazia, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Slovacchia.

Dal confronto dei dati, quindi, balzano agli occhi numeri e percentuali da cui desumo che, per colmare le disparità tra Italia ed Europa, il cammino sia ancora lungo…

Pertanto, i docenti italiani reclamano non solo “stipendi europei”, ma rispetto e dignità per quanto si fa e per come si fa. E citando Socrate “Se uno fa una cosa per un fine, non vuole la cosa che fa, bensì la cosa per cui fa quello che fa!”

Portugal & Spain education systems

Portugal

In Portugal compulsory education lasts 9 years  from 6 to 15.

The school system is organized as follow:

Primary and Secondary School (Escola Básica  6-15)

High School (Escola Secundária 15-18)

Jardins de ìnfòncia: 3 years (for kids from 3 to 6 years old). The Ministry of Education is the person in charge for kindergartens, both for state and private institutions. Pre-school education, based on the 1997 Pre-school Education Framework Act, is considered an integral part of the education system even if it is optional. Pre-school education can be organized through different organizations: jardins de infòncia (kindergarten) or socio-educational activities.

The kids groups are organized according to the methodology used by the pedagogical Council of the single institution (usually same age groups or mixed age groups). Schools for children, managed and financed by the Ministry of Education, provide a maximum number of 25 children per teacher, 20 in case of classes with 3-year-old children. Generally, teachers change groups every day and in schools activities last  5 hours a day for 5 days a week.

The teacher is responsible for the development of the curriculum and have to follow  the guidelines on pre-school education defined by the Ministry of Education in 1997. The evaluation is of a training nature, since it is mainly concerned with the processes rather than the results and  develop active learning.

Staff; the initial formation of the pre-school teachers includes a scientific component and a pedagogical component, oriented to the achievement of a specific professional qualification, and takes place in the Escolas Superiores de Educaòo. The future teacher of the pre-school level follows higher courses that give the title of” licenciado”. Teachers work 35 hours a week, divided into 25 teaching  hours and 10 hours dedicated to other activities.

Spain

The compulsory school in Spain lasts 10 years, from 6 to 16.

The school system is as follows:

Primary School   (6-12)

Secondary School  (12-16)

Higher School  (16-18)

Professional Training  (16-20)

The “Educaciòn infantil” is the first level of the educational system, it is not mandatory and is free. It lasts 6 years divided into two cycles of 3 years each (one from 0 to 3  and the other from 3 to 6). It is offered by both public and private institutions and often the second cycle is organized at primary education institutions.

The maximum number of children per class varies from 8 (classes of babies under 1 year old) to 25 (children from 3 to 6). School year starts from 1 to 15 September and finishes from 21 to 30 June, for a total of 180 days divided into 5-day weeks. Usually children can not stay at school for more than 9 hours a day. Many schools have also started to offer breakfast from 7.30 in the morning.

Both levels have an educational aims and the curriculum deals with three areas of experience: identity and personal autonomy, discovery of the physical and social environment, communication and representation. In particular, in the second cycle we can find the introduction to literacy, basic elements of ICT and foreign languages. Pre-primary education must be closely coordinated with primary education, in order to guarantee a more gradual transition to that level of education.

Staff: the training for pre-school teachers takes place at the Escuelas Universitarias de Profesorado. The training consists of three-year cycle at university level. At the end of these studies they get a Master’s degree  in different specializations: pre-primary education, primary education, foreign language, physical education, music education. They are public employees and are selected through public competitions. Training is obligatory  at all levels and the courses must be organized by the educational authorities and are free.

Safer internet day

Safer Internet Day 2019

Martedì 5 febbraio 2019: Insieme per un internet migliore

Lo slogan della Campagna del Safer Internet Day (SID) è un invito alla creazione di un internet più sicuro per tutti, soprattutto per gli utenti più giovani.

Nato nel 2004 per sensibilizzare sull’uso della sicurezza in Rete, l’evento è cresciuto in modo esponenziale diventando un riferimento per gli operatori del settore e per le Istituzioni, coinvolgendo oltre 100 Paesi del mondo.

La scorsa edizione incitava alla responsabilità: “a better internet starts from you (un internet migliore parte da te)”. Quest’anno si auspica l’unità nel conseguire un obiettivo comune.

La percentuale di chi ha avuto esperienze negative navigando in internet è in forte crescita, nonostante pochi abbiano il coraggio di confessarlo. La rete è piena di commenti offensivi e messaggi d’odio; si sente forte, quindi, la necessità di correre ai ripari. Grandi consensi e ampia diffusione ha ottenuto il progetto Parole O-stili del Ministero dell’Istruzione, che intende sensibilizzare contro la violenza delle parole, spia di un profondo disagio sociale.

Il SID si lega anche alla Campagna contro il bullismo e il cyberbullismo a scuola.

Come segnalato dal Telefono Azzurro Onlus, i ragazzi si avvicinano sempre più precocemente alla Rete, attratti dalla potenzialità dei device, senza una preparazione adeguata che li renda coscienti dei rischi ai quali sono esposti e finiscono per esserne vittime ingenue. Si passa dai contatti indesiderati alle fake news, dalle truffe alle frodi, fina ad arrivare alle molestie.

Le raccomandazioni più semplici sono l’utilizzo di un software aggiornato, l’installazione di antivirus e antimalware recenti, l’applicazione di blocchi parentali e password sicure.

Safer Internet è un ottimo promemoria per ricordare quanto siano importanti la vigilanza costante e le precauzioni. Ma non basta. C’è bisogno di una costante formazione e aggiornamento sui pericoli e le possibilità di intervento.

La scuola in questo processo gioca un ruolo chiave. In un progetto italiano co-finanziato dall’Unione Europea, il Ministero dell’istruzione mette a disposizione l’ambiente per riflettere sull’approccio alle tematiche legate alla sicurezza online e sull’integrazione delle nuove tecnologie digitali nella didattica. Vengono offerti, inoltre, strumenti e materiali per progetti personalizzati che ogni scuola può elaborare attraverso percorsi guidati. Si possono, inoltre, trovare indicazioni per dotare le Istituzioni scolastiche di una Policy di e-safety costruita in modo partecipato coinvolgendo l’intera Comunità Scolastica.

Focus sulle trappole nascoste in rete e sulle possibili assuefazioni

Trappole in rete

L’utilizzo eccessivo ed incontrollato di Internet, al pari di altre dipendenze, può causare isolamento sociale e problematiche a livello scolastico. Uno dei rischi è relativo al cyberbullismo, una forma di prepotenza virtuale, reiterata nel tempo, sottoforma di lesioni personali, ingiurie, diffamazioni, minacce e danneggiamenti. La legge 71/2017 rende fondamentale il ruolo dell’Istituzione scolastica nella prevenzione e nella gestione del fenomeno con l’individuazione, fra i docenti, di un referente d’Istituto con il compito di coordinare le iniziative di prevenzione e contrasto al cyberbullismo. Questi aspetti vengono chiariti nel dettaglio dalle Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, previste dalla legge.

Il cyberbullismo non ha confini spaziali e temporali perché può avvenire ovunque e in qualsiasi ora del giorno e della notte. La diffusione di materiale tramite internet è incontrollabile e l’anonimato di chi offende può restare nascosto dietro un nickname. Non vedendo le reazioni della vittima il cyberbullo non è mai totalmente consapevole delle conseguenze delle proprie azioni e questo ostacola la possibilità di provare empatia o rimorso a posteriori, se non viene aiutato ad esserne consapevole. Lo stesso meccanismo riguarda anche il gruppo che assiste ad atti persecutori. Tutti quelli che partecipano con un like, con un commento o anche solo con il silenzio, diventano di fatto corresponsabili, accrescendo la portata dell’azione. Il gruppo silente rappresenta, però, anche  un’opportunità di fermare una situazione di cyberbullismo, costituendo un gancio educativo. Ed è qui che la scuola è chiamata ad intervenire.

Da anni si parla di sexting (sex e texting), la pratica cioè di inviare o postare messaggi di testo a sfondo sessuale tramite cellulare o internet. Il problema si presenta quando il materiale che doveva rimanere privato comincia a girare in rete e diventa oggetto pubblico senza il consenso della vittima. Il controllo di ciò che viene postato è praticamente impossibile. Un solo click avvia potenzialmente un processo di diffusione esponenziale e virale. Le immagini possono nuocere alla reputazione e influenzare i futuri rapporti personali e di lavoro della vittima. L’azione della Scuola permette di far capire ai ragazzi che da certe situazioni non si può più tornare indietro perché internet è per sempre e che errori virtuali possono avere gravi conseguenze reali nella vita di tutti i giorni.

Il grooming è definibile come adescamento online, manipolativo e pianificato, da parte di un adulto nei confronti di un bambino a scopi sessuali. Interessante notare che il termine inglese deriva da to groom che significa prendersi cura. Non si tratta, infatti, di una dinamica violenta, ma piuttosto di un percorso paziente per carpire la fiducia della preda ed instaurare una relazione intima. Una volta esplorato il contesto, l’adescatore si sintonizza sui bisogni e sugli interessi del minore, poi punta sull’isolamento passando dal contatto in pubblico a quello in privato (ad esempio via chat). Le confidenze diventano sempre più personali e la vittima comincia a fidarsi ciecamente dell’abusante che gli appare l’unico interessato a lui, attento e premuroso. Una volta certo del territorio sicuro che ha costruito, l’adescatore normalizza la situazione per vincere le eventuali resistenze.

La pedopornografia esisteva da prima di internet, ma con l’avvento della Rete ha cambiato modo di produzione e di diffusione del materiale, ampliandone la disponibilità ed accessibilità. Diventa, quindi, prioritario identificare e promuovere strategie per arginare il fenomeno, sensibilizzando tutti gli attori coinvolti ed attivare percorsi di recupero.

Il fenomeno di incitamento all’odio (hate speech) è attualissimo e si concretizza in discorsi e pratiche che esprimono intolleranza e che possono provocare una catena di reazioni violente verso una persona o un gruppo. Per prevenire queste manifestazioni negative occorre fornire ai giovani gli strumenti per decostruire gli stereotipi e promuovere la partecipazione civica e l’impegno, anche attraverso i media digitali e i social network.

Il diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali è un diritto fondamentale delle persone, collegato alla tutela della dignità umana come sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art.7 e 8). I dati personali non protetti possono essere usati per spam, truffe o per ricerche di marketing non autorizzate. E’ molto importante formare le persone ad un corretto utilizzo delle informazioni proprie e altrui.

L’uso di internet e delle nuove tecnologie è diventato sempre più precoce, frequente e intenso per le nuove generazioni, che si ritrovano ad affrontare dinamiche specifiche legate ai nuovi ambienti online.  Il rapporto tra giovani e il digitale va concettualizzato in un’ottica di rischi e opportunità come facce di una stessa medaglia. Questo scenario richiede strumenti e strategie di mediazione e prevenzione per un uso consapevole e creativo della rete.

La Policy di e-safety (e-policy) è il documento programmatico autoprodotto dalla scuola volto a descrivere:

  • il proprio approccio alle tematiche legate alle competenze digitali, alla sicurezza online e ad un uso positivo dell’aspetto digitale nella didattica;
  • le norme comportamentali e le procedure per l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) in ambiente scolastico;
  • le misure preventive dei rischi legati alla rete e alle possibili assuefazioni;
  • le misure per la rilevazione e gestione delle problematiche connesse ad un uso non corretto delle tecnologie digitali.

Safer internet Day è solo un pretesto per un lavoro costante e dinamico perché il web diventi un ambiente vasto e vario in grado di rappresentare e dare voce alle diversità, mantenendo un alto grado di rispetto e inclusione e promuovendo l’alfabetizzazione digitale tra minori, genitori e insegnanti.

Per far questo, su invito della Commissione europea, le ONG e l’Unicef hanno lanciato un’alleanza a protezione dei minori per creare un ambiente più sicuro e costruttivo.

Buon Safer Internet Day!

Mondo digitale

A scuola di Intelligenza Emotiva - Camera dei Deputati

Anno 2019 si riparte!

Anno nuovo, vita nuova!!!”, per ripartire, per rimotivarsi e affrontare le vivacità delle nostre comunità studentesche, le novità normative continue che si ritiene opportuno inserire per governare il sistema complesso dell’Istruzione nel nostro Paese.

E allora, Auguri a tutte e a tutti i Discentes della nostra Rivista,  cui auguriamo un 2019 che permetta loro di veder realizzati tutti i loro sogni professionali e personali, a tutti i collaboratori e redattori, ai nostri lettori,  a tutti i docenti e operatori della scuola e agli studenti.

Oltre agli Auguri, un ringraziamento alla Prof.ssa Rosalia Rossi che ha accolto l’invito a collaborare e coordinare insieme a me la pubblicazione della nostra Rivista.

Abbiamo scelto, per questo primo numero del secondo anno della rivista, la metafora dell’anno nuovo per raccontare il tema “La scuola che vorrei”, per dare voce ai docenti, agli studenti che colorano le nostre scuole di creatività, di passione, di impegno necessari per proiettarci insieme e con consapevolezza verso traguardi sempre più avanzati, più impegnativi, più suggestivi, se riusciamo a viverli come sfida verso il futuro.

E’ stato un piacere quindi leggere i contributi arrivati da tutta Italia e abbiamo dato la precedenza a una lettera di un’alunna che chiede a Babbo Natale di poter continuare a studiare con la sua maestra e all’intervista di uno studente al gruppo di  Lecce “MaBasta”, per far conoscere le brillanti iniziative degli studenti del Costa Galilei contro il cyberbullismo. Non potevamo non dedicare un ricordo al giornalista- studente Antonio Megalizzi che ha inseguito il sogno di Adenauer e Spinelli per un’Europa capace raggiungere l’obiettivo di tenere i Popoli  Uniti nella Diversità”.

La scuola che vorrei” non necessita di nuove leggi, di nuove norme, come spesso ci si affanna da anni a livello istituzionale, ma della deontologia e la passione dei docenti, che non manca in tantissimi e moltissimi e dell’impegno degli studenti che devono cogliere la centralità del loro ruolo e l’importanza del loro studio e del loro impegno per proiettarsi con competenza verso traguardi sempre più ambiziosi ed esaltanti se vissuti con entusiasmo, consapevolezza, intelligenza e creatività.

La scuola che vorrei necessita di cooperazione tra docenti e di una didattica cooperativa, necessita di progettualità capace di dare “senso all’esperienza”, attraverso “un’esperienza di senso”, per fare acquisire l’importanza dell’essere scuola e comunità e comunità aperta ai valori e non chiusa nelle sue paure.

Artedo ed il suo Presidente Dott. Stefano Centonze, che ringrazio anche come editore della nostra Rivista, da anni si battono perché si dia maggior peso e significatività all’educazione delle emozioni e allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e lo scorso 20 dicembre presso la Camera dei Deputati è stato presentato il suo libro “A scuola di intelligenza emotiva” e sollecitato una proposta di legge per l’introduzione nel curricolo obbligatorio di un’ora da dedicare allo sviluppo dell’intelligenza emotiva. Ne abbiamo tutti grande bisogno per arricchire le nostre Comunità di sorrisi, di ambizioni, di consapevolezze e di traguardi.

Auguri e Felice 2019 !

Le parole che uccidono

Con la stessa facilità, le parole curano o mortificano la fragilità

Nel corso della nostra vita, siamo accompagnati da molte esperienze che ci aiutano a comprendere chi siamo e chi siano gli altri. Ognuna di queste esperienze è, a sua volta, accompagnata dall’incontro con altrettante condizioni dell’anima che raccontano di emozioni e sentimenti. Così, ci “costruiamo come persone” intorno alla tristezza, alla felicità, alla sofferenza, alla solitudine, alla tenerezza, al desiderio, alla speranza, al dolore. E alle parole per dar voce alla dimensione umana che accomuna tutti gli stati d’animo, nessuno escluso: la fragilità. Leggi tutto “Con la stessa facilità, le parole curano o mortificano la fragilità”

Auguri Felice 2019

Dopo aver collaborato sin dalla nascita della rivista ho accolto con piacere ed umiltà l’incarico di codirigere con il Dirigente Martano la rivista ArtedoUniversoScuola.

In questo primo numero del nuovo anno, foriero di speranze, abbiamo provato ad immaginare la scuola che vorremmo, dando voce a diversi punti di vista, approfondimenti, interviste e articoli che mirano a coinvolgere i lettori sollecitando interessanti spunti di riflessione.

Ricordando le parole di Erasmo da Rotterdam che la speranza di una nazione è riposta nella corretta educazione della sua gioventù, ne deriva che il compito della scuola è quello di insegnare ai giovani ad imparare ad apprendere, attrezzando la mente a scegliere. In questo processo ci si trova a confrontarsi con una scuola che sta attraversando un periodo di epocali cambiamenti, basati non più su di un apprendimento nozionistico e trasmissivo, ma su un processo di apprendimento dinamico, veloce, interattivo grazie all’uso della tecnologia.

L’uso continuo degli strumenti multimediali permette all’alunno la realizzazione di ambienti consoni ai suoi interessi e alle sue possibilità di apprendimento a scapito, però, del senso critico e della riflessione  che la fase adolescenziale dovrebbe sviluppare. Ne deriva un modo di comunicare immediato, pratico, che non sempre tiene conto del significato, un sapere semplice o come diceva Bauman, un “sapere liquido”, dove è molto facile cadere nella banalità.

Per lo psicanalista Massimo Ammaniti, “in ogni adolescente c’è un Ulisse che affronta un’Odissea personale, lunga e tempestosa, prima di poter ritrovare dentro di sé il proprio luogo delle origini”. In questo viaggio i giovani si trovano a vivere un presente incerto e nebuloso, la maggior parte delle conoscenze che acquisiscono sono quelle dei social e del consumismo dilagante; la fluidità e instabilità del sociale, la diffusione di una cultura narcisistica rendono la realtà sempre più complessa, costringendo le persone ad uno stato di continua incertezza e ad assumere un atteggiamento sempre più deresponsabilizzante.

Siamo nell’epoca delle “passioni tristi”, come le definisce il filosofo Spinoza, non c’è più entusiasmo per l’avvenire ma un ripiegamento e un’implosione delle nostre aspettative. Il mondo si rinnova con una velocità impressionante ed ogni giorno nascono nuove esigenze, nuovi modi di sentire la realtà e diventano sempre più attuali temi come il bullismo, la violenza nelle scuole, l’abbandono scolastico, l’integrazione.

I nostri giovani soffrono di una sorta di analfabetismo emotivo. Infatti i sentimenti non sono trasmessi geneticamente, ma si acquisiscono culturalmente e solo attraverso la costruzione di mappe emotive possiamo costruire e rispettare legami e relazioni. Da qui l’esigenza di una cultura delle emozioni, che sappia attivare i canali dell’intelligenza emotiva attraverso la quale si fa breccia per giungere al livello intellettuale.

L’importanza dell’aspetto emozionale nelle relazioni è stato  ampiamente affrontato dal Presidente di Artedo dott. Stefano Centonze alla conferenza stampa tenuta a Roma il 20 dicembre alla Camera dei Deputati di Montecitorio, che aveva l’obiettivo di chiedere al Governo l’introduzione dell’ora curricolare di Intelligenza emotiva in classe.

D’altronde non è possibile immaginare un’educazione che non prenda in considerazione le relazioni interpersonali, l’empatia, la capacità di rapportarsi agli altri e le dinamiche di gruppo. Un corretto sviluppo emotivo rappresenta una solida base per una crescita culturale solida che non si dissolva alle prime difficoltà e soprattutto per donare quello stato di benessere indispensabile per condurre una vita piena di successi con se stessi e con gli altri.

La scuola è un sistema complesso, si presenta come un “acquario emotivo” dove le capacità relazionali tra i suoi vari componenti possono determinare il clima generale e influenzare negativamente o positivamente la gestione quotidiana.

Partendo da queste premesse dobbiamo riscrivere l’idea di futuro, riscrivere il linguaggio con il quale si parla del futuro, proponendo un diverso modo di ragionare che insegni ai nostri ragazzi a cercare dentro se stessi le risposte per affrontare l’incertezza del loro tempo, evitando di restare in balia degli eventi.

“L’educazione è l’arma più potente che si può avere per cambiare il mondo”, questa citazione di Mandela ci invita ad una riflessione sulla partita da giocare per il futuro di chi ci sta più a cuore, i nostri ragazzi.

Caro Babbo Natale

La scuola che vorrei: lettera a Babbo Natale

Lettera a Babbo Natale di una bambina della scuola Primaria di S. Clemente (Rimini)

Caro Babbo Natale,

quest’anno siamo stati fortunati perché è arrivata una maestra che ci fa divertire con il coding e la robotica. Ci ha fatto conoscere i robottini che si programmano: Koco, Doc e Mind. Io e i miei compagni gli diamo le istruzioni e Koko fa il bagnetto, Doc imbuca le cartoline all’ufficio postale e Mind disegna quello che gli diciamo. La maestra ci ha detto che dobbiamo prestarli per un po’ ai bambini della scuola dell’infanzia, che non li hanno mai provati. Non è che potresti portarne qualcuno anche a loro, così ce li restituiscono prima?

Mi piace anche decifrare i codici e creare nuovi disegni in pixel art. I nostri li abbiamo scambiati con i bambini di altri Paesi europei. Un giorno ci siamo collegati con una classe della Grecia per conoscerci, far vedere i cartelloni e augurarci buon Natale. La maestra ha detto che adesso la LIM serve alle altre classi e che ci potremo collegare di nuovo solo tra qualche mese. Mi dispiace perché è stata una bella esperienza che vorrei ripetere. Non è che potresti portare le lim nella mia scuola, così ci possiamo collegare tutti e non dobbiamo aspettare il turno?

Insieme alle LIM potresti portare anche dei computer? A me piace molto creare i quiz e fare i giochi con i tablet, ma ce ne sono soltanto due e non riusciamo tutti.

Devo chiederti un’ultima cosa. So che tu, oltre a portare i regali, puoi esaudire i desideri. Vorrei che la nostra maestra restasse con noi anche l’anno prossimo. Lei vorrebbe, ma ha detto che decide il Ministero. Puoi parlare tu con il Ministero per dirgli che per noi è importante imparare giocando? La maestra lo dice sempre che mentre giochiamo alleniamo i neuroni. In realtà non ho capito bene cosa sono i neuroni, ma sicuramente servono alla ginnastica del cervello.

L’esperienza più bella è stata quando la maestra ha fatto venire i genitori per una giornata di formazione. Noi bambini abbiamo fatto i tutor agli adulti che dovevano imparare a programmare. Noi lo sapevamo già fare ed è stato facile insegnarlo a loro. E’ stato proprio bello essere dei veri maestri.

La mia mamma e il mio papà a casa litigano sempre e non facciamo mai niente insieme. In quella occasione invece ci siamo riusciti. Ci siamo divertiti e siamo anche arrivati secondi alla gara di coding. Per questo, Babbo Natale, ti chiedo di far restare la maestra, perché lei sicuramente organizzerà altre cose belle e io potrò stare con i miei genitori e vederli ridere insieme.

Grazie!

Nicole

Mabasta!

Bullismo: una malattia interiore! Il rispetto è vita!

All’Istituto “Galilei-Costa” di Lecce circa due anni fa è nato un movimento con l’obiettivo di sconfiggere una piaga sociale: il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo. I ragazzi del movimento MABASTA! sono sempre in prima linea nella lotta contro tale fenomeno. Uniamoci a loro per debellare questo “male” sociale.

Il bullismo è un grosso problema. Ogni giorno migliaia di adolescenti si svegliano col timore di andare a scuola. Tale problema colpisce milioni di studenti, non solo chi riceve “violenza”. Purtroppo, poiché i genitori, gli insegnanti e gli altri adulti non sempre riescono a “vederlo”, potrebbero non capire quanto possa essere estremo.

Il bullismo è una forma di condotta prepotente, di tipo abusivo, tramite l’utilizzo di fraudolenti metodi di opposizione e intimidazione nei confronti di sé stessi o nei confronti dei pari soprattutto quando sussiste una chiara asimmetria di potere. Può implicare molestie verbali, aggressioni fisiche, persecuzioni, spesso in base a discriminazioni etniche, confessionali, di genere o di orientamento sessuale. Dunque, due dei motivi principali per cui le persone sono vittime di bullismo sono l’apparenza e lo status sociale. Alcuni bulli attaccano fisicamente i loro “bersagli” attraverso spintoni, inciampi, pugni o colpi, o persino con violenza sessuale. Altri usano il controllo psicologico o insulti verbali. Ad esempio, i bulli, che agiscono solitamente in gruppo, spesso prendono a pugni le persone che classificano “diverse”, oppure le escludono, spettegolano su di loro (bullismo psicologico). Possono anche prendere in giro le loro vittime (bullismo verbale). Il bullismo verbale può anche comportare il cyberbullismo che consiste nell’invio di messaggi crudeli, oppure nella pubblicazione di insulti su una persona sui social.

In che modo il bullismo fa sentire le persone? Uno degli aspetti più dolorosi del fenomeno è che è implacabile. La maggior parte delle persone vittime di bullismo vivono uno stato di costante paura, oppure si autolesionano od ancora arrivano a compiere dei gesti estremi, come il suicidio.

Il bullismo, purtroppo, è un fenomeno in forte crescita e il movimento “MABASTA”, costituito esclusivamente da adolescenti, intende prevenirlo e combatterlo in tutte le sue forme: fisico, verbale, psicologico, cyberbullismo. “La nostra mission – dicono i ragazzi del movimento – è quella di combattere ogni forma di bullismo e cyberbullismo e, se sarà possibile e quindi se saremo bravi, sconfiggere questo orrendo fenomeno. Noi operiamo soprattutto con le scuole del nostro territorio, attraverso sperimentazioni dirette, che poi estenderemo a livello nazionale “. Tale movimento è nato circa due anni fa in una prima classe dell’Istituto “Galilei-Costa” di Lecce a seguito di una discussione in classe su un grave caso di bullismo accaduto in una scuola di Pordenone. Tale vicenda ha indotto così i ragazzi, della pro-tempore I A, a non restare a guardare né ad accontentarsi di improduttivi dibattimenti, limitandosi soltanto a dire la propria opinione sul problema. Hanno dato vita a questo movimento con l’idea di unire le forze dei ragazzi di tutta Italia che vogliono davvero arginare il fenomeno, tramite un’idonea sensibilizzazione ma soprattutto attraverso azioni dirette.

Obiettivo tanto semplice da esporre quanto ambizioso e complesso da risolvere, vale a dire mettere fine al bullismo e al cyberbullismo scolastico. Un’utopia? Probabilmente. “Ma noi riteniamo di avere un qualcosa in più (o almeno di diverso) rispetto a tutti coloro che ci hanno provato sino ad ora, in quanto anche noi siamo studenti”. MaBasta! è forse la prima associazione informale contro il cyberbullismo e bullismo che si muove dal basso, anzi dal bassissimo: per utilizzare le loro stesse parole. “Il nostro vantaggio è singolare, consta nel fatto che, non essendo adulti, ed essendo dei nativi digitali, abbiamo un impatto diverso sui giovani, utilizziamo la creatività giovanile, usiamo gli stessi strumenti informatici e, soprattutto, gli stessi linguaggi di espressione e di comunicazione”.

L’ultima vittoria, dello scorso tre dicembre, ha visto i ragazzi del Movimento travolgere i rivali americani, vincendo la quinta edizione del contest internazionale promosso da BNP Paribas Cardif ‹‹Open F@b Call4ideas››, dedicato alla Positive Impact Innovation. Il progetto proposto è stato considerato innovativo, attuale ma principalmente d’impatto. “Alla lettura del verdetto finale, abbiamo esultato alla grande! È stata un’emozione unica, indescrivibile. Vincere davanti a chi, da più anni di noi, opera nel sociale, regala emozioni che non hanno prezzo”. Il progetto proposto prende il nome di ‹‹Modello Mabasta›› e consta in un’inedita sequela di consigli e azioni comportamentali che ogni classe e scuola d’Italia può facoltativamente adottare. È un innovativo formulario di proposte condotte dagli studenti e supervisionate dagli adulti (insegnanti e dirigenti scolastici). Tale Modello è rivolto a tutti i livelli di scuola, dalle elementari alle superiori.

Il nostro progetto (ed il nostro impegno) si rivolge soprattutto a tre ben precise categorie: le vittime, il bullismo ed il cyberbullismo, gli ‹‹spettatori››. Nella categoria delle vittime rientrano le ragazze e i ragazzi che, a causa della loro natura sensibile o dei loro caratteri o, ancora, del loro modo di essere, di vedere e di pensare, sono prese di mira, schernite, vessate, insultate, sia fisicamente che virtualmente. A loro chiediamo di aprirsi, di comunicare il proprio disagio. Il cyberbullismo e il bullismo sono fenomeni generati da ragazzi e ragazze che – a nostro giudizio – sono coloro che hanno più bisogno di aiuto, non sono per nulla delle persone serene ed equilibrate se sentono il bisogno di sopraffare qualcun altro per avere una propria posizione sociale. Anche a loro chiediamo di farsi aiutare, almeno nel tentare di trovare un po’ più di serenità ed equilibrio interiore. Infine, ci sono gli ‹‹spettatori›› nella cui categoria rientrano tutti quei ragazzi e ragazze che non sono né vittime né bulli, ma che sono a conoscenza o addirittura assistono in silenzio agli episodi o alle continue azioni di cyberbullismo e bullismo. A questi ultimi chiediamo di smettere di essere ‹‹complici››: intervenite sul nascere, opponetevi, segnalate gli episodi e le situazioni” – ribadiscono i ragazzi del Movimento.

MaBasta! ha ottenuto un grande successo mediatico. Il progetto nasce sui social. La pagina Facebook MaBasta ha raggiunto oltre 36.000 aderenti in circa due anni dalla nascita: “È certamente un feedback positivo, è una visibile CRESCITA, sarà una vittoria quando non ci saranno più casi di bullismo”. La bacheca della pagina presenta continui aggiornamenti e notizie sul tema del bullismo e raccoglie numerose sollecitazioni da parte di studenti ed adulti. Anche il loro sito web racconta l’associazione, la mission, le iniziative.

Tra le idee dei ragazzi per coinvolgere e sensibilizzare c’è quella della “classe debullizzata”. È una chiamata rivolta direttamente agli studenti di tutta Italia: si tratta di “autocertificare” la propria classe come priva di bulli per ricevere il titolo ed il bollino di “classe debullizzata”. L’obiettivo è quello di documentare moltissime classi prive di fenomeni di bullismo, così saranno i bulli ad essere messi all’angolo, spiegano i ragazzi sul sito. “Le classi debullizzate hanno una funzione sia preventiva che risolutiva. Preventiva perché, se firmata da tutti gli studenti, attesta che questi si impegneranno a contrastare avvenimenti futuri. Risolutiva in quanto, nell’eventualità in cui un solo studente non dovesse firmare, questi lancerebbe un segnale ai docenti”.

Ulteriori progetti intrapresi al fine di ‹‹demolire›› questo fenomeno sono: i bulliziotti e le bullibox.

A partire dall’anno scolastico 2016/17, è stato “arruolato” un esercito di bulliziotti. Tutti gli studenti d’Italia sono stati invitati ad individuare nelle loro classi i “bulliziotti”, cioè quei studenti che, già per loro natura, sono totalmente contrari alle prepotenze e al bullismo. Una volta scelti, i bulliziotti vengono formati tramite tutorial on line ed il loro compito è quello di vigilare all’interno della propria classe. Oltre ai bulliziotti di classe, vengono individuati anche i “Bulliziotti d’Istituto”, scelti tra gli studenti più grandi e che godono di rispetto e stima da parte della comunità scolastica. Il compito dei bulliziotti è quello di essere dei “mini-centri di ascolto” locali, a cui le vittime e gli spettatori possono rivolgersi per “denunciare” ogni più piccolo episodio, già sul nascere, così da permettere l’intervento e quindi la risoluzione. Ovviamente, tutti i bulliziotti potranno usufruire dei servizi del Centro di Ascolto on line, oltre che potersi rivolgere ai propri docenti e dirigenti.

Le Bullibox, una in ogni scuola, sono delle semplici scatole, simili ad urne, collocate in luoghi cruciali all’interno della scuola, nelle quali vittime e spettatori possono imbucare (anche in forma anonima) segnalazioni di episodi o di situazioni riconducibili al cyberbullismo e al bullismo. La gestione delle “Bullibox” è affidata ai Bulliziotti d’Istituto. “Attiveremo anche una Bullibox digitale, contenitori virtuali che verranno inseriti per aree tematiche sulla nostra piattaforma web”.

Un loro attuale progetto è il Mabatest: un test anonimo per segnalare atti di bullismo e cyberbullismo. L’aspirazione della start-up è quella di estendere il loro modello in tutte le scuole d’Italia e chissà magari “dopo potremmo pensare di far questo anche a livello internazionale”, una riduzione del fenomeno, ma soprattutto di essere d’aiuto tramite le attività della neo impresa sociale.

I ragazzi del Movimento hanno dimostrato, e continuano a dimostrare, come una “risposta dal basso, anzi dal bassissimo”, risulti essere coinvolgente, immediata e d’ispirazione.

Antonio Megalizzi

Ad Antonio…

Venuto alla luce nel lembo di quel pezzo di terra da dove è germinato il nome Italia, Antonio Megalizzi è non solo un giovane ragazzo di soli 28 anni con tanti sogni, grandi quanto l’Europa, ma soprattutto è un giovane ragazzo italiano, europeo la cui breve vita è una grande «parabola» che riassume e con la sua scomparsa imbocca una curva di grande dolore ma – questo il nostro auspicio – di grande trasformazione. A soli cinque mesi con la famiglia emigra nella provincia di Trento. Dal grande giardino, come Antonio chiamava Reggio Calabria, la famiglia si stabilisce a Trento: una città, porta di passaggio con l’Europa.

Da piccolo, da adolescente Antonio avrà seguito il fantastico volo d’Europa sulla groppa di Zeus: un volo che da Creta, dallo stretto di Messina percorreva tutto il continente toccandone il cuore, la testa (Strasburgo, Bruxelles). Un bambino che con le dita accarezza questo fantastico volo, illuminato dalle stelle e da tanti anni di studio, di passioni che ben presto tessono l’identità di un giovane uomo innamorato della vita, del suo bel Paese e dell’Europa di cui non smetteva di seguirne il volo nonostante il fatto ch’esso ultimamente era disturbato da opposti venti di freddezza, e desolanti spinte nazionaliste.

La nostra scuola vorrei, vorremmo che avesse lo sguardo limpido e pulito di Antonio, la sua voce europea, il suo slancio vitale e quell’immensa passione per la vita che giammai muore… e,  che se dovesse essere strappata, rinasce per virtù di quel magico ed infinito volo dell’Europa in cui adesso Antonio è nascosto e guida.

XVI Congresso sulle Arti Terapie

La migliore Italia parte da qui: l’arte per il made in Italy

Si è tenuto presso l’Hotel President di Lecce Sabato 1 e Domenica 2 dicembre 2018 il “XVI Congresso sulle Arti Terapie”, organizzato da Artedo – Polo Mediterraneo delle Arti Terapie e delle Discipline Olistiche – alla presenza del Presidente Nazionale di Artedo, il Dott. Stefano Centonze.

Sono state due giornate di intensi incontri e avvincenti dibattiti che hanno coinvolto molti studenti e numerosi esperti di Musicoterapia, impegnati nella relazione d’aiuto in percorsi di arte, danza e musica.

Presenti anche i Dirigenti Scolastici degli Ambiti Capofila: 17-Dott. Raffaele Capone, 18-Dott.ssa Ornella Castellano, 19-Dott. Giovanni Casarano, 20-Dott.ssa Filomena Giannelli, e il Direttore del Conservatorio Musicale di Lecce-Dott. Giuseppe Spedicati, che hanno animato una Tavola Rotonda sul “Decreto Legislativo 60 del 13 aprile 2017 – L’arte per il Made in Italy”, sapientemente moderata dal Dott. Luigi Martano, responsabile Universo Scuola – Artedo, nonché Dirigente di lungo corso.

Già previste dall’articolo 9 della nostra Costituzione e successivamente rafforzate con il D. Lgs. 60 del 2017, musica e danza, teatro e cinema, pittura, grafica delle arti decorative e design, scrittura creativa vengono tradotte in vitali best practice della formazione, anche e soprattutto con la dotazione dell’organico dell’autonomia: fino al 5% dei posti di potenziamento è dedicato allo sviluppo dei temi della creatività, permettendo così alle scuole del I ciclo di dar vita a poli ad indirizzo artistico-performativo e di consorziarsi in rete per condividere risorse, come laboratori, spazi espositivi, strumenti professionali, esperienze e progettazioni comuni, così come sperimentato negli ultimi anni con il “Veliero Parlante”, una vivace “ricerca-azione” guidata brillantemente dalla Dirigente Castellano, che, in un’armonica sinergia tra le scuole dell’ambito 18, ha conseguito una sintesi perfetta del laboratorio e dell’alta sperimentazione, realizzando il modus operandi del learning by doing delle discipline performative, in partenariato col DAMS dell’Università del Salento e l’Apulia Film Commission di Lecce.

È da una simile prospettiva multidisciplinare di immagini, suoni e narrazioni che la dottoressa Castellano propone una tecnologia che si faccia “agita” attraverso la “Winter School in Film Education”, che formi quei profili professionali che, all’interno di ogni scuola,  siano promotori della buona cultura ed educatori al corretto uso della tecnologia, in sintonia con la prevenzione al cyberbullismo (L. 71/2017). I docenti formati con la  “Winter School in Film Education” saranno esperti intermediari nello studio critico delle immagini, del suono e della narrazione e del nostro patrimonio culturale dell’arte.

Coniugare sapientemente il territorio, l’arte, la storia, le tipicità dei luoghi e le peculiari professionalità con il percorso scolastico dell’alunno è, secondo il Dottor Capone, la mission del buon dirigente scolastico: nel PTOF di ogni singola scuola si esprime l’attenzione alla formazione globale della persona, per la “piena realizzazione della MISSION che mira a promuovere il successo formativo di tutti e di ciascuno ponendo al centro dell’attenzione educativa la persona in relazione al contesto di vita, nell’ottica della VISION che punta alla formazione dei futuri cittadini capaci di soddisfare le richieste di una società in continuo cambiamento, persone che, forti delle proprie competenze specifiche (tecnologiche, digitali e scientifiche), sappiano affrontare le sfide del mercato globalizzato.”(Piano Triennale dell’Offerta Formativa 2016-2019 “Istituto Tecnico Grazia Deledda” di Lecce).

É nell’Atto di Indirizzo che il Dirigente Scolastico, ispirandosi ai principi di inclusione, solidarietà, libertà, creatività, rispetto, resilienza, esprime la propria sensibilità alle richieste formative del territorio, in una forma di dialogo e collaborazione tra le risorse presenti, che fa leva, secondo il Dottor Giovanni Casarano, sulla motivazione alla formazione del docente, che proviene prevalentemente dalla spendibilità delle competenze acquisite.

Finalizzato allo sviluppo del territorio e all’integrazione sociale, il D. Lgs. 60/2017 ha permesso, nella sola provincia di Lecce, la costituzione di 25 partenariati tra Conservatorio di Lecce, diretto dal Prof. Spedicati, ed associazioni, Comuni, Scuole per il recupero di situazioni di svantaggio e per la prevenzione alla dispersione scolastica: il Conservatorio Musicale propone la diffusione della cultura musicale fin dalla Scuola dell’Infanzia e perfino nelle Scuole Paritarie.

L’attuale normativa ha aperto nuovi orizzonti formativi nella diffusione della cultura musicale con laboratori di studio dello strumento e la pratica musicale nella Scuola Primaria, percorso normativo giunto a compimento con il D. Lgs. 60/2017, ma avviato già nel 2011 con il D.M.8, come opportunamente precisato dalla Dott.ssa Giannelli: nell’Art. 8 “Sistema formativo delle arti e competenze del personale docente”, il D. Lgs. 60 porta a regime la formazione dei docenti, che era stata già a suo tempo sostenuta e promossa dal Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica, presieduto dal Prof. Luigi Berlinguer, nella prospettiva del graduale inserimento della pratica musicale nel curricolo di base di tutti gli studenti e per l’avvio delle attività musicali nelle scuole.

La grande intuizione di Luigi Berlinguer, presidente del “Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della Musica” e di Annalisa Spadolini, referente del nucleo tecnico operativo, fu, in anticipo sui tempi, quella di insistere sulla sperimentazione della pratica vocale e corale; promuovere la musica e il movimento; avvicinare all’ascolto strumentale e sensibilizzare all’attività ritmica, potenziare le competenze musicali dei docenti, garantendo una minima alfabetizzazione musicale, anche mediante laboratori a carattere formativo di aggiornamento per il personale docente.

Il D. Lgs. 60/2017, nel tentativo di sostenere la cultura umanistica e la creatività,  attua concretamente il “fare musica per tutti”, coinvolgendo Ministero dell’Istruzione, dell’Università e  della Ricerca, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, INDIRE, Sistema Nazionale d’Istruzione e Formazione, AFAM, Università, Istituti Tecnici Superiori, Istituti del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Istituti Italiani e di cultura, Istituzioni Scolastiche, anche organizzate in rete e poli, Istituti e Luoghi della cultura, Enti Locali e tutti quei soggetti istituzionali pubblici e privati che «concorrono, nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, a realizzare un sistema coordinato per la promozione e il potenziamento della cultura umanistica e della conoscenza e della pratica delle arti» (Art. 2, comma 2 e Art. 4, comma 1).

È, in tal modo, soprattutto mediante una fusione di nazionale e locale che si rende possibile “la scuola che vorrei”, in grado di dar voce alle risorse del posto, alle richieste del territorio, alle esigenze di crescita e promozione dell’essere umano.

Il curricolo efficace contro l’erosione dell’idealità

Hannah Arendt, nel suo libro “La banalità del male”, pensa al male come “banalità” per connotarlo come “inconsapevolezza”, non del “fatto”, bensì del “valore negativo” che il responsabile del male ha delle proprie azioni, in una sorta di “cecità morale, determinata dall’appiattimento dei valori e dalla resa delle coscienze. Si pensi alla “banalità del male” che recentemente ha trasformato in tragedia il concerto di un noto cantante Trap a Corinaldo, in provincia di Ancona.

È il tempo, il nostro, dell’“idealità erosa”, che investe i comportamenti di ognuno e travolge l’etica personale come quella pubblica. In questo tempo storico caliginoso, il senso di fallimento esistenziale è direttamente proporzionale alla “perdita di fiducia” generalizzata. Le identità sono deformate. Le persone dall’aspetto bello, curato, dall’espressione ridente nei selfie, sono in realtà cariche di paura. Le persone disorientate, infiacchite, che chiamano resilienza la propria rassegnazione, il proprio senso di debolezza, di incapacità alla reazione verso un processo di ricostruzione del tessuto sociale.

In questo veloce processo di disgregazione dell’idealità culturale, è comune la volontà di chiamare a raccolta le forze necessarie per evitare il punto di non ritorno dei valori. Occorre una riflessione vivifica sull’importanza di investire nei diritti umani, nello sviluppo di una cultura della responsabilità, con attenzione agli stili di vita, mantenere la fiducia nella possibilità di un cambiamento emancipatorio (Emancipatory Change) e in una Europa che genera civiltà e umanità.

In tale scenario la scuola è chiamata a ripensare l’Autonomia scolastica, come strumento che può apportare un enorme valore, non solo in termini di apprendimento degli studenti (essendo essa alla base del successo formativo) e in termini di uguaglianza, ma anche di equità e coesione sociale, verso la collocazione della scuola in una posizione di centralità nelle politiche sociali.

In tale direzione il curricolo verticale, “percorso formativo intenzionale”, progettato dalle singole Istituzioni scolastiche, in regime di autonomia, sulla base dei reali bisogni dell’intera popolazione scolastica e delle specificità del territorio (attese e risorse), è uno strumento strategico e vincente per garantire lo “sviluppo integrale della persona”. Uno dei punti chiave del successo formativo è, infatti, la continuità educativa, che fa la differenza in fatto di qualità e che sottende al curricolo verticale (DM 139/2007, Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo scolastico), per lo sviluppo armonico delle competenze.

Il curricolo mette in relazione tre elementi: l’esperienza individuale, l’insieme organico delle conoscenze e un determinato periodo storico. La ricerca sul curricolo studia proprio la relazione tra questi elementi. Lo scopo è l’efficacia dell’interazione continua tra cultura individuale e cultura sociale. L’oggetto (d’amore) del curricolo è la ricerca delle “modalità di mediazione tra singole persone e società”. L’elemento strategico dell’efficacia di un curricolo è il raccordo tra la “mappa del mondo” di una persona (secondo la Programmazione Neuro Linguistica, rappresentazione personale della realtà, mediante cui si attribuisce un significato agli eventi e si valutano scelte possibili e auspicabili) con il suo essere nel mondo; ossia, il raccordo tra “i modi di pensare e di affrontare la realtà” con “le strategie di pensiero e di condotta in un ambiente organizzato”. L’efficacia del curricolo, oltre all’acquisizione delle competenze disciplinari (D.M. 254/2012, Regolamento recante indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione e “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari” del 2018), sta, dunque, nel superamento della difficoltà degli alunni (ognuno con la propria realtà soggettiva) a prendere atto o unicamente a concepire l’esistenza di rappresentazioni e modelli della realtà differenti dai propri.

Le persone reagiscono emotivamente, non ai fatti o alla descrizione degli stessi, ma al senso che attribuiscono ai fatti. La conquista, dunque, è la consapevolezza della relatività dei propri modelli. Il curricolo efficace valorizza il modello individuale della realtà (mediante cui una persona trova il senso della propria vita e degli eventi che accadono) e abbatte i filtri sociali, ossia la difficoltà del confronto con altre culture (“tutti gli invisibili sembrano uguali ed ugualmente maligni” scrive James Hillman per descrivere l’impermeabilità a ciò che è sconosciuto). Ecco l’importanza dell’educazione alla “cittadinanza terrestre” di cui parla E. Morin.

In tale prospettiva, è ben comprensibile il carattere di necessità del curricolo verticale di base, che rende possibile l’implementazione di percorsi formativi, dai Poli per l’infanzia alla scuola secondaria, coerenti, unitari e volti principalmente all’acquisizione di  “life skills”,  competenze sociali e civiche, relazionali e affettive, allo sviluppo di un’etica della responsabilità, di una “coscienza antropologica ed anche ecologica” (connessioni trasversali in riferimento alle competenze di Cittadinanza).

Cruciale è il ruolo del Dirigente Scolastico, massimo costruttore della comunità professionale della scuola, quale unità filosoficamente coesa, responsabile rispetto ai traguardi di competenza posti dalle Indicazioni, capace di riflessione continua (anche grazie al Rapporto di Autovalutazione e al Piano di Miglioramento) e pronta alle conseguenti iniziative di formazione. Fondamentale è la “learning organization”, la quale pretende dai docenti, facilitatori dell’acquisizione di sistemi simbolici culturali e organizzati in “comunità di pratica”,  “modelli di competenza esperta”, per strutturare ambienti di apprendimento innovativi (contesto dell’ “apprendistato cognitivo”), compiti aderenti alla realtà, iniziative di ricerca-azione.

Hillman dice che “tutti i bambini hanno un’ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca”, si parta da questo, sin dalla Scuola dell’Infanzia,  per ripensare la dimensione metodologico-operativa del curricolo.

La scuola che vorrei: “una nuova mission”

Con la Legge 107/2015 nuove parole chiave sono entrate a far parte del panorama linguistico scolastico: Vision, Mission, accountability, improvement, rendicontazione sociale, comunità professionale, PTOF, potenziamento, reti  di ambito e reti di scopo, GDPR… Si ha la sensazione di aggirarsi tra i meandri di un labirinto i cui enigmi non sono di facile risoluzione.

Dirigenti, docenti, e personale scolastico si sono trovati a fare i conti con dematerializzazione, digitalizzazione, privacy, sicurezza, benchmarking, certificazioni, rendendo la scuola una “agency” il cui fine ultimo, sembra essere esclusivamente il principio del buon andamento fissato all’art. 97 della Costituzione, la misurazione della performance, in un’ottica di qualità del servizio prestato.

La paura del miglioramento della qualità dell’istruzione, dell’innalzamento dei livelli di apprendimento, degli esiti finali, della rendicontazione sociale stanno diventando l’obiettivo prioritario attorno al quale la scuola corre il rischio di focalizzare la sua azione strategica e finale. Non adeguata attenzione viene rivolta alle emozioni, vero motore di motivazione, di autorealizzazione, di apprendimento significativo e situato, di crescita personale e sociale.

Molti gli studi sociologici che affermano che la società nella quale stiamo vivendo è sempre più diversificata a causa della multietnicità, dell’interculturalità, della globalizzazione, della diffusione di nuove tecnologie. Inoltre il profondo disagio manifestato dalle ultime generazioni nei confronti di una società alienante, liquida, senza punti di riferimento culturali, valoriali, economici, lavorativi,  crea profondo disagio e gap tra le passate e le nuove generazioni, che non riescono a comunicare tra loro.

Le cause che provocano il “drop out” dei ragazzi e portano al non impegno, al disagio e all’abbandono scolastico, sono da ricercare nelle loro relazioni con gli altri, nella mancanza di autostima, nell’assenza di fiducia nel futuro. Risulta dunque necessario rispondere alla emergente sfida educativa che rifletta sul ruolo che le emozioni svolgono nell’intero arco vitale dell’individuo, influenzandone il comportamento, il processo di apprendimento, nonché il successo formativo.

Promuovere e costruire uno “spazio d’azione” nel quale creare benessere con se stessi e con gli altri, questa è la nuova mission della scuola che vorrei; acquisire abilità di ascolto, capacità di lettura del disagio degli studenti, fermarsi a guardarli, sviluppare capacità di “empatia intellettiva” , di comunicazione tempestiva ed efficace, di uso di strategie motivazionali.

“Emozioni per educare… Educare alle emozioni” (Convegno del 30/11/2018 dell’Istituto “Ites Olivetti” in collaborazione con il MIUR, la Regione Puglia dal titolo omonimo) è il motto di una nuova mission: una mission che crede in una scuola come comunità educante, una scuola che cerca di formare identità forti, consapevoli dell’unicità individuale, della ricchezza personale, della spendibilità delle proprie potenzialità.

Le emozioni regolano la vita delle persone: esse governano tutti i rapporti umani, permettendo di aprirsi al mondo e di entrare in relazione con gli altri. Per questo, prendere confidenza con le emozioni e imparare a riconoscerle vuol dire essenzialmente imparare a mettersi in discussione, ad accettarsi, ad aprirsi al confronto, soprattutto apprendere il mondo e le cose del mondo. Le emozioni devono guidare l’agire didattico, un agire improntato a valori di cittadinanza attiva e responsabile e finalizzato al successo di tutti e ciascuno.

A sostegno di tali interventi e modalità educative, per operare direttamente nelle realtà scolastiche intervengono anche le norme che regolano le azioni da mettere in atto. La legge 107/15 all’articolo 1, comma 16 afferma che una delle priorità a cui la scuola deve rispondere, è quella di guidare le nuove generazioni al rispetto delle diversità nell’ottica di una “scuola inclusiva e aperta al dialogo” (altre fonti normative D.lgs 71/17, Piano nazionale per l’educazione al rispetto/MIUR).

Ruolo fondamentale della scuola è quello di creare esperienze emotive significative capaci di muovere il pensiero riflessivo e di stabilire un rapporto empatico tra docenti e discenti; un rapporto basato sulla fiducia relazionale, sulla credibilità, sulla continua autoanalisi. L’obiettivo è allenarsi a riconoscere le emozioni dei nostri ragazzi nel momento stesso in cui si manifestano, senza che esse prendano il sopravvento su di loro e quindi su di noi.

Infatti il pericolo del disorientamento, dello scoraggiamento è sempre alle porte, esiste un rischio molto alto di DISTORSIONI COGNITIVE che fanno apparire le cose peggiori di quanto siano in realtà. È invece importante che l’insegnante li renda consapevoli che vi sono alcune cose che non si è in grado di cambiare e che per tanto non vale la pena lasciarsi frustrare da esse o prendersela.

Dobbiamo aiutarli a comprendere che le esperienze siano esse positive o negative, possono trasformarsi in insegnamenti e in una futura crescita dai quali ripartire più forti e convinti. Il Piano dell’offerta formativa può contenere un insieme di azioni educative e formative che, attraverso le collaborazioni con gli Uffici scolastici regionali, con le Reti di scopo e con gli Enti locali, permettano agli studenti di acquisire e sviluppare competenze trasversali, sociali e civiche.  Anche la promozione della formazione dei docenti è garanzia di acquisizione di life skills, il cui possesso aiuta a prevenire atteggiamenti antisociali, promuovere autoefficacia e collaborazione tra pari ed indirizzare gli alunni verso un percorso di autoconsapevolezza e responsabilizzazione verso il proprio status di “cittadino, lavoratore responsabile, partecipe alla vita sociale, capace di assumere ruoli e funzioni in modo autonomo, in grado di saper affrontare le vicissitudini dell’esistenza” (OMS).

“Mi pareva di essere nell’antico oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Si vedeva che fra i giovani e i Superiori regnava la più grande cordialità e confidenza…”( Don Bosco “Il cortile di Valdocco”- tratto da Lettera da Roma, 1884).

E’ questa l’immagine della scuola che ogni ragazzo dovrebbe sperimentare e vivere nel proprio percorso formativo. Una scuola dove la familiarità, la fiducia reciproca, la lealtà guidano le relazioni umane, promuovono la crescita dell’identità, motivano all’apprendimento significativo. Nella lettera si parla di cordialità e confidenza, una confidenza che cresce nel tempo tra gli attori del processo educativo, tra educatori e educandi,  che suscita spontaneità nei rapporti umani. Sentirsi amati è il fulcro della vera felicità e realizzazione personale e l’amore si manifesta nella capacità dell’educatore di ascoltare. Ascoltare per me significa guardare oltre e guardare dentro ogni uomo, per poter capire e carpire i reali bisogni della persona che ho davanti. In questo momento fluttuante, alienato, è veramente difficile per la scuola ritrovare il proprio ruolo e lo è ancora di più per ogni docente che vive la sua professionalità in modo frustrante e limitato. Ma vorrei far mia una frase di Don Bosco che dice: “Studia di farti amare, prima di farti temere“.

“Una koinè della Storia: la fiaba”

Il titolo di questo articolo utilizza tre sostantivi splendidi sia come significanti che come significati.

Il termine koinè deriva dal greco e significava la lingua letteraria utilizzata dai prosatori di età imperiale. Dal 1933 ha assunto l’accezione di “lingua comune”, “lingua con caratteri uniformi” capace di mettere in relazione popolazioni anche geograficamente distanti e dissimili. La Koinè si contrappone al dialetto, alle parlate regionali, che localizzano la relazione e la diffusione delle informazioni.

La Storia, va da sé, è la somma di tutte le azioni umane perpetrate nel tempo e nello spazio e di cui si ha memoria o testimonianza o documentazione di qualsiasi forma.

Per Fiaba, infine, si intende una narrazione, orale o scritta, che ha radici antichissime e che racconta di uomini e donne che incappano in avventure cariche di magia e mistero, personaggi anche orridi e truculenti, capaci di mangiar vive le persone o smembrarle o trasformarle in qualsiasi cosa si immagini. Il suo fine non è pedagogico ma, come direbbe Sigmund Freud, rappresenta le paure umane, gli “ambigui sogni” che ognuno di noi porta in cuor suo, più o meno coscientemente, in forma più o meno silente.

E’ da questa definizione di base che sono partita per interpretare la funzione del patrimonio fiabesco mondiale, un lavoro immenso, praticamente infinito, capace di serbare sorprese degne del più famoso dei maghi fiabeschi.

La mia analisi, però, non si muove solo all’interno di un concetto linguistico/geografico, ma implica anche un filone che contempla la metaforicità del concetto di Koinè. Il mio viaggio fiabesco, quindi, è fatto, come per un treno, di due binari paralleli: uno squisitamente antropologico ed un altro storico; ambedue, ovviamente, strettamente connessi all’evoluzione di eventi sociali, economici, politici legati a luoghi, a microcosmi popolari e a macro esperienze di interi popoli ed etnie.

La Fiaba è questa Koinè, è questo strumento/mezzo attraverso cui, nei millenni, si sono strutturati e trasmessi saperi e “dissaperi”, fatti e misfatti.

Partendo da un’epoca relativamente moderna e tralasciando tutto ciò che è stato nei secoli precedenti, perché il tempo non ci permette di fare altrimenti, vi presento una velocissima panoramica: siamo nei primi anni del 1800 e due fratelli leggendari, Wilhelm e Jacob GRIMM conducono la loro ricerca e la stesura di quei racconti della tradizione tedesca, a quell’epoca, come tutta l’Europa, alle prese con l’espansione onnivora di Napoleone Bonaparte. Per i due “ricercatori”, come dice Italo Calvino nella sua famosa introduzione alla prima edizione di “Fiabe Italiane” del 1956(1), questo progetto aveva il sapore archeologico della scoperta di resti di un’antica religione della loro razza, religione custodita dal popolo e che si auspicavano potesse risvegliarsi al passare dell’era in corso. Per i due fratelli, la Fiaba, quindi, costituisce una sorta di navicella del tempo, come quelle da riempire e sotterrare al fine di tramandare conoscenze e memoria ai posteri, utile a perpetuare un patrimonio di saperi, che rischiavano di essere cancellati dagli eventi.

In Italia, nel medesimo periodo e poi un po’ più avanti, all’epoca dei moti insurrezionali e delle guerre di indipendenza, la Fiaba acquisisce il valore del Culto Patriottico, della resistenza culturale come primo baluardo di una auspicabile resistenza ideologica e, di conseguenza, di una reazione politica e militare.

Siamo lontani dal lavoro positivista degli studiosi, che andavano alla ricerca di nonne e nonni in vena di ricordare e narrare. Quello è l’ambito scientifico della ricerca sulla Fiaba, incentrato sulla raccolta e sulla conseguente catalogazione di una memoria popolare.

Proseguendo cronologicamente, sempre in Italia, perfino Benedetto Croce si cimenta con questo repertorio. Raccoglie testimonianze orali e le trascrive. Questo lavoro è affidato a” Demopsicologi”.

Il lavoro che sto cercando di impostare io, è, invece, una via di mezzo fra visioni simili a queste e considerazioni come quelle della scuola di Freud, di cui ho già detto in principio. Lo scienziato considera le Fiabe come espressioni di paure, “repertorio di ambigui sogni”(2) che vengono così rappresentati.

È il caso, a mio parere emblematico, di raccolte come “Le favole di Auschwitz”, raccolta edita dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau nel 2017 e che per una specialista in didattica della Shoah è materiale preziosissimo.

Questo libro presenta sei fiabe scritte da prigionieri del tristemente famoso lager. Questi, nel 1942 o 1943, erano stati mandati a lavorare negli uffici del Bauleitung, un ufficio che si occupava di produrre documentazione edilizia attinente i diversi campi di concentramento nazista. Fra le loro mani giunsero, di nascosto, quaderni di bambini ebrei di lingua ceca, che erano stati ritrovati nei pressi delle camere a gas nelle quali quei bambini erano stati fatti entrare. La fase dell’espoliazione aveva, ovviamente, implicato l’abbandono anche di questi materiali. Quando i quaderni giunsero nelle mani di questi 27 internati, diciamo pure, “fortunati”, essi pensarono ai propri figli, a come avrebbero potuto narrare loro una Fiaba tratta da simile melma esperienziale e cominciarono chi a tradurre o a scrivere, chi ad illustrare, chi a copiare in bella grafia, chi a rilegare, chi a produrre le copertine, chi, mentre tutto ciò accadeva, a fare da palo per evitare che si venisse scoperti.

A lavoro finito venne prodotta una cinquantina di copie di queste fiabe, che vennero fatte uscire dal campo nei modi più disparati.

Nell’introduzione dell’editore si legge “La favola sul leprotto, la volpe ed il galletto, trasmessa da Bernard Swierzyba al proprio figlio Felicjan nato dopo il suo internamento ad Auschwitz, venne trasportata da un ufficiale delle SS. La fiaba, con ogni probabilità mascherata tra le carte, fu inserita dall’ufficiale in un dizionario di lingua tedesca. La favola sulle avventure del pulcino nero, illustrata ad Auscwitz da Henryk Czulda per il proprio figlio Zbyszek, giunse a destinazione dopo aver attraversato ben cinque campi di concentramento.”(3)

Il linguaggio immaginifico e fantastico attraverso cui questi padri trasmettono messaggi rassicuranti e rasserenanti ai propri figli lontani esprime il desiderio genitoriale più naturale, ancestrale: proteggere la propria creatura dalle brutture di cui è capace quell’essere che spesso di umano ha ben poco. Il lieto fine, caratteristica quasi universale delle fiabe, è qui rispettato, perché non è naturale e salutare far sognare che il male possa predominare, sopraffare il bene, godere della vittoria finale. Qualche battaglia gliela si può anche dar vinta, ma la guerra no!

Questa formula, che si trova in queste come nelle fiabe di tante altre provenienze geografiche e quindi culturali ed etniche, manifestano un leit motiv, che sottende a necessità umane ataviche, innate, connaturate alle sue necessità di equilibrio, stabilità e armonia.

Gli “ambigui sogni” vengono in tal modo esplorati ed esorcizzati così come vuole il più umano dei percorsi di crescita.

Tale ricerca mi sta portando a spasso per il globo, quindi, e per il tempo. L’eccezionale, in tutti i sensi, raccolta e trascrizione delle “Fiabe Italiane” di Italo Calvino, edita, per la prima volta, nel 1956 è un’altra fonte di studio e progettazione disciplinare attinente la storia, la geografia e la Letteratura. Attraverso il suo uso si può giungere ad identificazioni di topoi antropo-culturali, linguistici, politici, socio-relazionali e storici.

Il viaggio prosegue verso l’estremo oriente e le Fiabe della Cina antica e poi nelle Americhe con le culture del nord, del centro e del sud di questo immenso continente, che attraverso la tradizione e trasmissione di tale memoria, sono riuscite a superare il terrificante ostacolo posto dalle invasioni e dalle violazioni dei più elementari diritti civili di tutela e sopravvivenza imposti dai popoli occupanti.

La fiaba, qui, ha spesso funto, come è stato per la cultura dell’Africa nera saccheggiata e violentemente sparpagliata per il mondo, da rifugio segreto, da Griot immateriale atto a perpetuare al fine di non cancellare le radici, l’origine, il perché dell’esistere di interi popoli, di splendide culture, di un ricco passato di grande umanità.

Note:

  1. Italo Calvino, Fiabe Italiane – Volume Primo. Introduzione; Ed. Oscar Mondadori, Milano 2006, pag XI.
  2. Ibidem, pag XII.
  3. Le favole di Auschwitz, Ed. Museo statale di Auschwitz/Birkenau, Oswiecim, 2017.

PUA (Progettazione Universale per l’Apprendimento)

E’ stata una stagione particolarmente feconda per la scuola, investita negli ultimi anni  da un processo riformatore che ha visto impegnati a diverso titolo diversi soggetti. Una vera svolta epocale iniziata nel  luglio 2015 con la legge 107 sulla “Buona Scuola”, continuata con i decreti attuativi ed una mole di riforme successive che  nelle intenzioni del legislatore avevano l’unico scopo di mettere a regime la nostra scuola fanalino d’Europa.

Il risultato? Migliaia di docenti e dirigenti scolastici impegnati dapprima a decodificare il senso di questo processo riformatore per poi cavalcare il cambiamento cercando di attuare quanto veniva richiesto. Una scuola sempre più organizzazione complessa, aperta, attiva sul territorio, risorsa importante per la ripresa civile ed economica del Paese che necessitava da tempo di un restyling che nelle intenzioni sicuramente appariva fin da subito apprezzabile ma nelle modalità e nei tempi (non certo distesi per la messa a regime) andava valutato meglio.

Volendo tralasciare le riflessioni evidentemente comprensibili del magma legislativo (che ha avuto effetti dirompenti) va detto che il legislatore ha voluto affrontare una vera e propria “impresa” strutturale finalizzata a trasformare una scuola malferma, ponendo al centro, decisioni di “sostanza” che avrebbero avuto un qualche riverbero in un futuro non troppo lontano. Un passaggio un tantino affrettato, approssimativo, confuso, che ha sbloccato sì la latitanza politica di un ministero quello dell’istruzione intorpidito da un bel po’, che senza badare alle implicazioni future ha ritenuto maturi i tempi per rispondere a quel bisogno di cambiamento della didattica.

Come??? Innanzitutto con una riqualificazione della professione docente , con il superamento di quell’impianto tradizionalista, obsoleto e  trasmissivo (ancora purtroppo largamente prevalente) costruito su una rigida organizzazione spazio-temporale che andava ripensato in funzione dei ritmi e degli stili di apprendimento, valorizzando la significatività della cultura della progettazione e della valutazione, affrettando il passaggio alla digitalizzazione, (mettendo a regime le situazioni di inadeguatezza informatica delle istituzioni scolastiche grazie anche al PNSD) premiando sulla base di indicatori di qualità le scuole migliori di ogni ordine e grado, trasformando la platea di studenti in ”un esercito di problemi differenti” che necessitano di essere risolti attraverso l’ottimizzazione di progetto didattico.

Allora dopo il RAV, il PTOF, la fase C, la PNSD con il coding, gli accordi di rete, di ambito e di scopo, ecco che all’orizzonte si profila la PUA (PROGETTAZIONE UNIVERSALE per L’APPRENDIMENTO) o UDL (UNIVERSAL DESIGN for LEARNING) che sviluppa al suo interno tre grandi sfide: diversità, inclusività, tecnologia.

Dunque, un nuovo approccio psico-pedagogico che attraverso le Linee guida compie un grosso passo avanti nella costruzione e miglioramento del curricolo adattando percorsi di apprendimento flessibili e accessibili a tutti. Un modello nel quale il primato della dimensione pedagogica-educativa non si esaurisce nel postulato del principio della personalizzazione dei processi di scolarità, ma si sforza di dare IDENTITA’ e VISIBILITA’.

Costruire curricula validi per tutti, superando la categorizzazione degli allievi in contesti inclusivi, stimolanti senza “penalizzanti etichette” è la nuova sfida delle scuole. Si potrà dire di uscirne vincenti nella misura in cui si comprenderà che correre da soli non porta più così tanto lontano e che nel raccogliere idee intelligenti attraverso reti, partenariati, consorzi si può ben sperare di andare lontano. Documenti internazionali di grande spessore come l’ICF, la Convenzione dei diritti delle persone con disabilità, la strategia europea sulla disabilità e tutte le innovazioni normative sui BES vanno tutti nella direzione di una nuova frontiera dell’educazione.

Chiaramente l’attuazione della personalizzazione nella progettazione curricolare andrebbe declinata con lezioni /unità di apprendimento che riducano gli ostacoli, ottimizzino i livelli di difficoltà e di supporto e soddisfino i bisogni di tutti gli studenti. Via dunque curricula rigidi, validi per tutti, vere e proprie barriere all’apprendimento e al loro posto la PUA che risponde alla variabilità degli stili cognitivi degli studenti attraverso opzioni personalizzabili di obiettivi, metodi, materiali e valutazioni. La ricerca neuroscientifica che viene in supporto conferma la bontà della PROGETTAZIONE UNIVERSALE per l’APPRENDIMENTO e fornisce tre principi che sono schematizzabili in :

  1. cosa si apprende
  2. perché si apprende
  3. come si apprende”

Le modalità di approccio ai contenuti avviene secondo approcci multipli che consentono agli studenti di percepire e comprendere più o meno velocemente. Non esiste un modo di apprendere valido per tutti e le rappresentazioni sono la risultanza di opzioni e modalità diverse di approcciarsi. Anche le abilità strategiche e l’organizzazione del lavoro è variabile e questo spiega che non esiste una sola azione valida per tutti ma molteplici. L’apprendimento diventa allora il nodo strategico per i mille motivi che influenzano la conoscenza e per gli altrettanto svariati fattori (culturali, neurologici, affettivi, cognitivi) che sottendono il coinvolgimento. Ogni giorno ci interfacciamo come docenti con una variabilità di stili e comportamenti (allievi motivati, oppositivi, apatici, spaventati, altri ancora che si esprimono meglio nel microgruppo, altri invece che hanno bisogno di un tutor e così via).

L’intento della PUA è quello di formare studenti ESPERTI, che riescano a sviluppare tre  direttrici di marcia:

  1. studenti capaci, strategici ed orientati all’obiettivo;
  2. studenti esperti;
  3. studenti motivati ad apprendere di più e meglio.

Progettare un curriculum della PUA richiede il rispetto di quattro elementi fortemente correlati:

  1. obiettivi che rispettano le diverse variabili degli studenti e che quindi offrono una varietà di opzioni; è chiaro che il focus nella Progettazione universale è spostato sulla formazione dello studente esperto e sulle aspettative raggiungibili e non più sui contenuti;
  2. metodi, ovvero procedure dell’apprendimento assolutamente differenziate in base all’obiettivo educativo, al contesto, ai soggetti, all’ambiente della classe, ai continui progressi;
  3. materiali o supporti integrati necessari per arrivare alla conoscenza meglio se non standardizzati, ma alternativi, assolutamente utili ed efficaci al successo di ciascuno;
  4. valutazione ovvero il momento finale di raccolta dei dati sulla conoscenza acquisita, sul coinvolgimento, sulla capacità degli allievi di pervenire alla conoscenza. Dunque, curricula concepiti e disegnati in maniera completamente diversa, non più inflessibili o peggio ancora ideali che gli insegnanti in un difficile gioco di adattamento fanno andare bene a tutti. Un curricolo sapientemente accessibile, adattabile, progettato per controllare progressi graduali, dinamici, tale da fornire le chiavi di lettura efficaci per apprendere e non per insegnare. E’ chiaro che un curricolo centrato sui principi della PUA ha il pregio di ridurre o addirittura limitare i tempi e i costi di modifica qualora si costruiscono situazioni ed ambienti di apprendimento ottimali per tutti e per ciascuno in cui le differenze individuali non rappresentano una “scomoda variazione” al programma.

Una simile progettazione che si fonda principalmente sulla zona di sviluppo prossimale di Lev Vygostskij ma che non disdegna la lezione di Piaget, Bruner, Ross, Wood e Bloom recepisce anche i moderni contributi delle neuroscienze secondo cui la conoscenza da parte della nostra mente si raggiunge con la costruzione di una rete che avviene con un’azione congiunta di riconoscimento strategico ed affettivo.

Allora l’apprendimento e il trasferimento dello stesso avvengono in presenza di rappresentazioni multiple che consentono agli allievi di fare anche connessioni non lineari. E la multimedialità??? Per le potenzialità educative e didattiche non indifferenti e per il carattere polimorfico le TIC offrono all’utente la possibilità di scegliere il percorso conoscitivo più confacente alle proprie caratteristiche. La scuola non può non tener conto di questa risorsa strategica specie alla luce del rinnovato ruolo formativo che impone di ridefinire i processi di apprendimento-insegnamento.

La tecnologia, valore aggiunto all’oggetto della conoscenza, dà ancor più valore al reale. Provare a scoprire in questo nuovo modo di progettare tanto di positivo, lo si deve per amore della verità, ma ancor più per aggiustare il tiro di una scuola che per troppo tempo ha puntato l’indice verso coloro che per limiti, errori, incapacità sono rimasti nascosti, ai margini, avallando nel tempo una professionalità docente sempre più scaduta nella sua caricatura (il professionismo) e l’insegnamento ridotto ad un solo fatto tecnico. Allora viene da chiedersi se si è ancora in tempo per rimediare agli errori di un passato non così lontano. La risposta assolutamente affermativa ha senso se si ha la volontà di cambiare cominciando a sforzarsi di capire la PUA e alla straordinarietà della ricaduta metodologico-didattica… Al momento la PUA rimane ai più “questa sconosciuta”!!!…

Il futuro dell’educazione civica

Era il 1958 quando Aldo Moro, a capo dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, introdusse nel nostro ordinamento scolastico l’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole medie e superiori,  per due ore al mese obbligatorie affidate all’insegnante di storia, senza valutazione. Forse è proprio a causa della mancanza di ore esclusivamente dedicate, e  all’assenza di una valutazione, che tale insegnamento fino ad oggi non ha mai trovato piena cittadinanza nelle attività scolastiche svolte dagli studenti del nostro Paese.

L’Educazione civica infatti nella maggioranza dei casi è stata oggetto di un’attenzione sporadica da parte degli insegnanti di storia che, con poche ore a disposizione, erano  già in difficoltà a completare entro la fine dell’anno scolastico i vasti programmi di Storia previsti dal Ministero.

Da  circa 60 anni quindi l’Educazione civica si è “conquistata” l’appellativo di Cenerentola della scuola italiana; presente nelle previsioni ordinamentali e  negli elenchi dei libri da acquistare a inizio anno, ma di fatto quasi assente nelle attività didattiche svolte dai nostri alunni.

La situazione non è cambiata neanche nel 2008 quando, a seguito dei processi di riforma avviati dal Ministro Mariastella Gelmini, gli obiettivi e le conoscenze compresi nell’insegnamento dell’Educazione civica confluiscono in un nuovo insegnamento denominato Cittadinanza e Costituzione, sia nella scuola dell’infanzia e del primo ciclo che in quella del secondo ciclo.

Con questo nuovo insegnamento tuttora presente negli ordinamenti scolastici il legislatore si poneva l’obiettivo di costruire più ampie competenze di cittadinanza, rispetto agli obiettivi del tradizionale insegnamento di Educazione civica. Anche questo intervento legislativo però non introdusse una disciplina autonoma con un voto distinto.

La valutazione delle competenze di Cittadinanza e Costituzione va infatti a costituire il complessivo voto delle discipline di area storico-geografica e storico-sociale di cui essa è parte integrante,  e influisce nella definizione del voto di comportamento, per le ricadute che determina sul piano delle condotte civico-sociali espresse all’interno della scuola, così come durante esperienze formative al di fuori dell’ambiente scolastico.

L’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione  quindi, da un lato è affidato al singolo insegnante di una delle aree disciplinari in questione, e dall’altro è oggetto di interventi trasversali di tutti gli insegnanti e componenti la comunità educante.

Le competenze sociali e civiche, tipiche di “Cittadinanza e Costituzione”, sono comprese tra quelle di base che tutti gli studenti, di ogni percorso di istruzione, devono raggiungere al termine della scuola dell’obbligo, a sedici anni. Tutte le studentesse e gli studenti, devono possedere alcune competenze chiave  di cittadinanza, che sono un adattamento al nostro modo di fare scuola delle competenze “chiave“ europee. Tra queste uno spazio significativo è riservato ai principi, agli strumenti, ai doveri della cittadinanza, e quindi ai “diritti costituzionalmente garantiti”.

Le stesse Indicazioni nazionali del 2012 riservano una particolare attenzione a “Cittadinanza e Costituzione“, richiamando la necessità di introdurre la conoscenza della Carta Costituzionale, in particolare le parti riguardanti i principi fondamentali e l’organizzazione dello Stato. Questi aspetti di conoscenza della Costituzione, delle forme di organizzazione politica e amministrativa, delle organizzazioni sociali ed economiche, dei diritti e dei doveri dei cittadini, come ribadito nelle Indicazioni, possono essere certamente affidati al docente di storia e comprese nel settore di curricolo che riguarda tale disciplina.

Tuttavia, le Indicazioni richiamano chiaramente l’aspetto trasversale dell’insegnamento, che riguarda i comportamenti quotidiani degli individui in ogni ambito della vita, nelle relazioni con gli altri e con l’ambiente, e pertanto  impegna tutti i docenti a perseguirlo nell’ambito delle proprie ordinarie attività. Risulta pertanto essere questo al momento il quadro ordinamentale e l’organizzazione dell’insegnamento di questa disciplina nelle nostre istituzioni scolastiche.

Il 7 dicembre 2018, all’ufficio stampa della Camera, alla presenza del Ministro dell’istruzione, dell’università e della Ricerca Marco Busseti e di altre personalità, l’on. Massimiliano Capitanio ha presentato il nuovo disegno di legge sull’insegnamento dell’Educazione Civica quale materia obbligatoria in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Il disegno di legge, che viene presentato dal suo primo firmatario come rivoluzionario, inizierà il suo iter in commissione cultura a gennaio, con l’obiettivo di portare per l’anno scolastico 2019/2020, nelle aule di scuola, importanti innovazioni a questa disciplina.

Si ritorna quindi alla vecchia nomenclatura Educazione Civica e si abbandona quella di Cittadinanza e Costituzione. Fin dalla scuola dell’infanzia si avvieranno progetti, ma sarà dal primo anno dalla scuola primaria e fino all’ultimo della secondaria di secondo grado che per la prima volta sono previste 33 ore annuali (1 a settimana), esclusivamente da utilizzare allo studio di questa disciplina. Dal terzo anno della primaria il disegno di legge prevede una valutazione delle conoscenze, e alla fine del triennio delle secondaria di primo grado e del biennio delle superiori è prevista una certificazione delle competenze.

A 60 anni esatti dall’importante scelta dell’on. Aldo Moro, l’Educazione civica potrebbe finalmente assumere il rango di disciplina curricolare a tutti  gli effetti, con un proprio monte ore, un docente disciplinare e un percorso didattico scandito da valutazioni periodiche e finali, come per le altre discipline.

L’esigenza era già stata da tempo avanzata da molti addetti ai lavori; difatti l’esponenziale aumento di episodi di bullismo e di violenze anche a danno dei docenti, di cui negli ultimi anni veniamo a conoscenza sempre più frequentemente, hanno reso necessaria una profonda riflessione per comprendere tutti i possibili interventi che la scuola può mettere in campo per arginare questi fenomeni.

Un contributo al riguardo potrebbe venire dall’Educazione civica a patto che si dia il via a percorsi ben strutturati di educazione alla legalità, di educazione alla cittadinanza, anche con riguardo alla diffusione della cultura delle pari opportunità, educazione alla parità tra i sessi, prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Solo con l’educazione al rispetto dell’ambiente, alle differenze tra le culture, nonché ai principi di solidarietà e di cura dei beni comuni possiamo cercare di arginare i preoccupanti fenomeni di bullismo, cyberbullismo e discriminazione.

Che al Miur si fossero resi conto della necessità di una maggiore attenzione e sensibilizzazione dei giovani a queste tematiche ce ne eravamo accorti all’indomani dell’emanazione del D.Lgs. 62/2017, durante il dicastero  dell’allora Ministro Valeria Fedeli.

Il Decreto legislativo in questione prevede infatti, per i colloqui  agli esami conclusivi del primo e del secondo ciclo d’istruzione, che la commissione tenga conto anche dei livelli di padronanza delle competenze connesse all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione.

Questa previsione  se da un lato ha spaventato gli studenti, in gran parte a digiuno di questa disciplina,  dall’altro ha fatto ben sperare gli addetti ai lavori circa la possibilità che a Viale Trastevere una nuova proposta per lo studio della Costituzione nelle scuole fosse pronta.

Del resto per il raggiungimento di questo obiettivo era già scesa in campo l’Anci presentando nel giugno scorso una proposta di legge d’iniziativa popolare sull’introduzione dell’Educazione alla cittadinanza nei curricula scolastici di ogni ordine e grado. Questa proposta, accolta con grande favore dal mondo della scuola e della cultura in generale, ha raccolto moltissime sottoscrizioni, tra cui anche quella della senatrice a vita Liliana Segrè che aveva intenzione di occuparsi personalmente della questione cercando un consenso trasversale in Parlamento.

E’ pertanto ipotizzabile che gli interventi normativi sull’Educazione civica non troveranno particolari ostacoli in Parlamento e che in tempi piuttosto celeri la riforma possa avere compimento.

Tuttavia non mancano i dubbi circa le modalità di attuazione della stessa. In particolare nella conferenza stampa dello scorso 7 dicembre  non è stato chiarito come verrà collocata la materia in seno ai curricula dei diversi cicli di istruzione, e se si opterà all’aggiunta di un’ora agli attuali quadri orari, o alla decurtazione di un’ora dal monte orario di altra disciplina per far posto all’Educazione civica.

La differenza non è di poco conto. Come non lo è la scelta dell’insegnante che si occuperà di impartire la disciplina. Se nella scuola dell’infanzia e primaria la scelta è ovvio che ricada sull’insegnante che si occupa di tutte le discipline, non altrettanto ovvia è la scelta che verrà fatta per la scuola secondaria. In particolare nella scuola di secondo grado saranno gli insegnanti dell’area storico/filosofica o di quella giuridica/economica a occuparsene?

Questi vari dettagli normativi possono fare la differenza tra una riforma sostanziale e una solo formale nell’insegnamento dell’Educazione civica. Di cambiamenti solo nominali ne abbiamo visti molti in questi 60 anni, e  l’auspicio per “la scuola che verrà” è di vedere realizzato un insegnamento davvero obbligatorio, autonomo, rinnovato e non più lasciato alla buona volontà dei singoli.

Scuola ed occupazione: la scommessa della ricerca e dell’innovazione

La disoccupazione giovanile al 32,6%, concentrata per i due terzi al Sud; la migrazione della parte migliore degli studenti liceali meridionali verso le Università del centro e del Nord Italia; la fuga dei cervelli all’estero che sta assumendo le dimensioni di un vero e proprio esodo, impongono al mondo della scuola una seria riflessione sul rilancio della sua funzione sociale, in particolare nel Meridione.

Per questo motivo i dirigenti scolastici hanno, ora più che mai, un ruolo strategico all’interno e all’esterno delle istituzioni scolastiche per determinare un’inversione di tendenza.

L’abbandono di modus operandi burocratici basati su adempimenti fini a se stessi e l’adozione di modelli manageriali dinamici è condizione indispensabile per il pieno utilizzo delle opportunità offerte dall’autonomia per far crescere il territorio e l’occupazione e trattenere risorse umane preziose per la ripresa economica.

Nel 2018, il nostro Paese rimane ancora sostanzialmente spaccato in due: la quota di giovani 15-29enni che non studiano e non lavorano, conosciuti con l’acronimo inglese di NEET, rimane, nel Mezzogiorno, più che doppia  rispetto a quella dell’Italia settentrionale.

Esaminando i dati del report sull’occupazione a cura della Fondazione Agnelli, i tipici divari territoriali del mercato del lavoro giovanile italiano vengono confermati anche dalle statistiche sull’occupazione dei diplomati tecnici e professionali.

I tassi di occupazione giovanile variano enormemente: dal 60,9% del Veneto al 22% di Campania e Calabria, regioni in cui solo un diplomato su cinque riesce a lavorare per almeno 6 mesi entro i due anni dal diploma.

Particolarmente interessanti appaiono i dati relativi alla scelta dei percorsi educativi di scuola secondaria di secondo grado: nelle regioni del Centro, del Sud e delle Isole, si preferiscono i licei. Nel Sud il liceo continua ad essere considerato come la scuola che forma la futura classe dirigente.

Nel Nord invece, almeno uno studente su tre sceglie un percorso ad indirizzo tecnico. Nel Veneto l’istituto tecnico viene preferito con una percentuale di iscritti superiore rispetto alle altre regioni (38,2%).

Sono circa trentamila i diplomati meridionali, in prevalenza liceali, che scelgono poi di immatricolarsi nelle Università del centro e del Nord Italia, considerate più prestigiose, con notevoli spese a carico delle famiglie, già gravate dal pagamento di tasse universitarie, tra le più care a livello europeo.

Nonostante ciò, i dati complessivi sul numero di laureati nel nostro paese sono tutt’altro che lusinghieri; l’Italia ha una percentuale di laureati tra le più basse in Europa. Si pensi che il 26,5% di laureati dell’Italia rappresenta quasi la metà del corrispondente dato della Svezia (51,1% nel 2017) e della Norvegia, mentre la Francia ha una percentuale di laureati di oltre il 44% e la Germania del 34%.

Come se ciò non bastasse, dopo la laurea, buona parte di questo 26,5% decide di emigrare all’estero. Un recente rapporto pubblicato dall’Istat, il cosiddetto “Bes” descrive la ben nota “fuga di cervelli” quasi come un esodo.

Nel 2016 sono stati circa 10mila i laureati con un potenziale innovativo particolarmente elevato, ad aver abbandonato l’Italia, il doppio di quanto registrato nel 2012, a fronte di quasi 69 miliardi di euro spesi per l’istruzione dei giovani. Un dato sconfortante che, a causa della mobilità interregionale, riguarda tutte le regioni italiane, da Nord a Sud.

Questi dati drammatici chiamano ad un’assunzione di responsabilità l’intera classe dirigente, compresi tutti gli stakeholder nazionali e meridionali per un urgente rilancio di politiche attive di sostegno all’occupazione e investimenti in ricerca e innovazione. Ma vediamo cosa può fare la scuola nella situazione data.

Innanzitutto è necessario implementare una cultura della valutazione autentica con processi condivisi di autovalutazione e miglioramento che coinvolgano sia le componenti interne all’istituzione scolastica, sia l’insieme dei soggetti che operano all’esterno, in un processo circolare che partendo dal RAV, PDM e PTOF culmini nella redazione di un Bilancio sociale improntato alla  trasparenza e all’accountability.

Stando ai recenti risultati degli esami di maturità, gli studenti del Sud sarebbero molto più bravi degli studenti del Nord. Peccato che da molti anni a questa parte i risultati delle prove standardizzate nazionali distribuite dall’Invalsi e confermate dall’OCSE e dall’ IEA indichino esattamente il contrario, cioè l’esistenza di un forte divario di competenze linguistiche e matematiche, ma a favore degli studenti delle scuole del Nord, e del Nord-Est in particolare.

Questi giudizi discordanti su base geografica dimostrano come i criteri di valutazione e gli standard di insegnamento vadano rivisti ed adeguati da parte dei docenti delle scuole meridionali, rivelando  con chiarezza le fragilità e le debolezze delle realtà territoriali del Meridione.

E’ solo attraverso una grande operazione di verità che si potranno migliorare le condizioni di accesso e acquisizione delle competenze attese per conseguire una maggiore equità sociale.

La nuova generazione di dirigenti deve concepire piani dell’Offerta formativa che includano i saperi tecnici e  competenze per la vita richiesti da un mercato del lavoro in continua evoluzione.

E’ quindi indispensabile promuovere la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione nelle scuole. Percorsi educativi per sostenere le competenze digitali, l’imprenditorialità e lo spirito d’iniziativa devono servire a creare nuovi profili professionali utili al territorio di pertinenza e a rafforzare il tessuto produttivo delle realtà territoriali con maggiori criticità.

Il Meridione deve rispolverare la memoria storica di primati imprenditoriali che pure ha avuto nel passato e ricordarsi di essere parte di una potenza industriale ai primi posti nel mondo, grazie al  brand del Made in Italy,  apprezzato in moltissimi paesi come modello di qualità in più di trecento settori diversi, dalla moda alla meccatronica, dall’agroalimentare alle biotecnologie, etc.

La strada per l’innovazione passa per una solida alleanza educativa con le famiglie, sostenuta da un corpo docente motivato al lifelong learning e all’avvio di processi di innovazione della didattica declinati sulle competenze.

Per favorire la transizione scuola-lavoro, ai sensi dei DD.PP.RR. 87-88-89 del 2010, riguardanti rispettivamente gli istituti professionali, i Tecnici e i Licei, le scuole possono innovare la propria struttura organizzativa attraverso la costituzione del Comitato Tecnico Scientifico negli istituti tecnici e professionali e del Comitato Scientifico nei licei.

Composto da docenti interni ed esponenti del mondo del lavoro, delle professioni e della ricerca scientifica e tecnologica ha funzioni consultive e di proposta per l’organizzazione delle aree di indirizzo e l’utilizzazione degli spazi di flessibilità ed autonomia.

Il CTS rappresenta uno strumento importante per formulare un’offerta formativa congrua con le competenze che il mondo produttivo e imprenditoriale richiede, soprattutto nelle attività di alternanza scuola-lavoro, orientamento, politiche di inclusione, individuazione di fondi che l’istituzione scolastica potrebbe intercettare a sostegno dell’offerta formativa.

Un’altra importante opportunità per il sostegno all’occupazione, introdotta dalla L. 107/2015, ai sensi dell’art. 1 comma 60, è la costituzione di Laboratori Territoriali per l’occupazione, per i quali, rispettando determinati parametri legati al livello di innovazione, si possono ottenere fino a 750.000 euro di finanziamenti.

I Laboratori possono essere attivati da una scuola secondaria di secondo grado, capofila di una rete comprendente altre scuole, enti pubblici, enti locali, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, università ed enti di ricerca anche stranieri, associazioni, fondazioni, enti di formazione professionale, Istituti Tecnici Superiori e imprese private.

Concepiti come spazi aperti all’avanguardia educativa e all’innovazione, usufruibili anche al di fuori dell’orario scolastico, devono costituire il punto di riferimento per la formazione e riqualificazione professionale, l’acquisizione di competenze tecniche e di autoimprenditorialità territoriale.

In allineamento con il tema Industria 4.0, attraverso la realizzazione di prodotti/servizi legati al territorio, i LTO sono una sorta di start up territoriale che eroga servizi di formazione di nuovi profili professionali competitivi nei campi più disparati, dalla bioedilizia al turismo, all’agroalimentare, dalla robotica e domotica all’efficientamento energetico.

La loro realizzazione avviene quasi sempre grazie a scuole che sono anch’esse 4.0: tecnologicamente avanzate, con curricoli flessibili e aggiornati, dove si pratica la didattica laboratoriale e il learning by doing,  per trasferire competenze ed abilità in ambito lavorativo, nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, negli stage, tirocini formativi e apprendistato per formare i professionisti del futuro.

Concludendo, la transizione scuola-lavoro sembra trovare meno ostacoli laddove istituzioni scolastiche e tessuto produttivo operano sul territorio sulla base di una solida collaborazione.

Nella consapevolezza che sono attualmente ottocentomila profili tecnici che le aziende cercano e non riescono a trovare nel nostro paese per poter competere sui mercati internazionali, dirigenti e collegi docenti devono assumersi la responsabilità del loro ruolo sociale e facilitare l’accesso della ricerca e dell’innovazione nelle scuole per creare il futuro delle giovani generazioni.

Come affermano James G. March e Johan P. Olsen nel saggio “Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica” lo sviluppo di un Paese dipende soprattutto dalla capacità delle istituzioni di creare meccanismi positivi, in grado di produrre nuovi valori e “mentalità”, leve strategiche del cambiamento.

La scuola nell’era del digitale

Nel 2017 il mondo della scuola, del lavoro, le istituzioni pubbliche sono davvero progettate  per permettere alle nuove generazioni di esprimersi al meglio?”

Il  sistema scolastico italiano soffre di gravi ritardi. I voti in pagella di diversi alunni ed i giudizi di alcuni professori lasciano passare un’immagine alquanto desolante del rendimento scolastico di diversi studenti italiani. Nella larga maggioranza dei casi questi studenti sono molto abili nei videogiochi, a cui magari  spetta coordinare le mansioni di un numero cospicuo di persone di ogni età ed estrazione sociale online comunicando in tempo reale in italiano ed inglese, dimostrando di aver sviluppato una serie di capacità e competenze ambitissime in ambito aziendale. I ragazzi, quindi, la mattina in classe mostrano fatiche enormi ad esternare le proprie capacità e competenze, mentre poi a casa riescono a gestire online un sistema complesso come veri e propri leader.

Purtroppo i dati che emergono dalle statistiche ci restituiscono una situazione allarmante; secondo numerosi studi circa 2/3 dei nostri studenti, ma percentuali similari si riscontrano anche nel mondo del lavoro, sono poco o scarsamente coinvolti in classe. Questo non è un dato da sottovalutare, soprattutto perché è in aumento generazione dopo generazione.

I nati dopo il 2000, i cosiddetti nativi digitali, hanno accesso in tempo reale a tutte le informazioni che desiderano, acquisendo competenze attraverso un apprendimento corsaro caratterizzato da mezzi digitali, sottoposti ad uno stimolo continuo.

Noi adulti, sia in qualità di genitori-educatori nonché docenti, abbiamo il dovere di comprendere i cambiamenti generazionali che stanno caratterizzando i nostri giovani e anche la nostra quotidianità; è per questo motivo che bisogna riprogettare l’offerta formativa.

L’apprendimento deve avvenire in spazi adeguati  affinché gli studenti possano cooperare, muoversi, esplorare autonomamente.

Il PNSD è un documento istituzionale il cui scopo è quello di canalizzare delle risorse a favore dell’innovazione digitale, a partire dalle risorse dei Fondi Strutturali Europei (PON Istruzione 2014-2020) e dai fondi della legge 107/2015.

Il piano vuole contribuire alla costruzione di una nuova didattica grazie  all’educazione digitale. La scuola ha il precipuo compito di supportare l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (life-long), attraverso contesti formali, informali e non formali (life-wide).

Il dirigente scolastico promuove, organizza ambienti innovativi, capaci di configurarsi come open spaces di apprendimento. Le scuole non dovrebbero più guardare a loro stesse, ma pensare che il mondo di google, delle app, di youtube e quant’altro devono diventare elementi importanti e mezzi di continui stimoli nel campo del sapere, attraverso la capacità di attirare e incuriosire la generazione moderna.

La Finlandia, dove le flipped classroom, l’inizio della scuola obbligatoria a 7 anni e una costante inclusione del gioco sin dall’asilo come momento di crescita dell’individuo concorrono alla costruzione di una idea diversa di scuola con la conseguente riduzione (notevole) degli abbandoni scolastici.

Il gioco non deve scomparire totalmente dall’esperienza scolastica. Negli ultimi anni qualcosa sta fortunatamente cambiando ed è collegata, in parte, allo straordinario movimento di animatori digitali, insegnanti ed operatori che stanno introducendo il mondo dello scratch ed altre modalità di interazione e partecipazione attiva.

Una scuola che “promuove“

Partiamo dall’ingresso. Sull’architrave del portone dovrebbe esserci la scritta “Nessuno è somaro”. Per chiarire subito, meglio di ogni altro discorso complesso o titolo arzigogolato, che chi varca quella soglia sa di trovare ascolto, opportunità, rispetto e accoglienza. Io rifiuto il termine ‘scuola inclusiva’, perché la necessità di dichiararsi in questo modo significa riconoscere che in realtà esiste una scuola esclusiva, o meglio escludente. Ed è proprio così: la scuola, non solo nell’idea degli insegnanti, ma anche nell’immaginario e nelle aspettative delle famiglie, è un posto dove si classifica, si dividono i bravi dai meno bravi ed eventualmente si separano quelli che non ce la fanno da quelli che riescono.

Io invece immagino una scuola che ‘promuove’ e questo termine oggi sembra in controtendenza perché il bravo insegnante è quello che boccia, e la buona scuola è quella dove ci sono pochi extracomunitari. Andando avanti di questo passo avremo scuole sempre più differenziate ed esclusive e le scuole inclusive saranno in realtà il ricettacolo di coloro che hanno dei problemi e sinonimo di scuole scadenti. Le scuole per somari. La scuola deve promuovere le competenze e le capacità di ciascuno; per farlo deve prima farle emergere.

Deve scoprire cosa sa il bambino ma anche cosa sanno gli studenti delle medie, delle superiori e anche dell’università. Uno degli ostacoli principali ad assumere questa prospettiva deriva dal fatto che la scuola crede che i suoi studenti imparino esclusivamente dai docenti. Non c’è l’idea che l’apprendimento sia un processo attivo che nasce dalle idee di chi apprende e non da quelle di chi sa; quindi la lezione frontale diventa indispensabile e le informazioni ‘buone’ devono arrivare dagli insegnanti.

In realtà il processo di crescita delle conoscenze necessita di entrambi: chi sa e chi crede di sapere. Il bambino, ma anche l’adolescente, hanno le loro idee sul mondo, idee ingenue, spesso non corrette, ma idee che fanno parte in quel momento della sua enciclopedia personale. In genere l’insegnante non è interessato a conoscerle perché comunque lui è il depositario delle idee ‘buone’, della conoscenza esatta. Il suo compito è quello di travasarla nell’alunno che, siccome non sa, è considerato alla stregua di un contenitore vuoto.

Marco non fa i compiti. Luca gioca col cellulare. Mario rompe le penne. Antonio scrive “vado a casa”. Siamo di fronte a vecchi Pinocchi o nuovi somari? Cosa succede nella testa di molti adolescenti di oggi? Perché è così difficile coinvolgerli nelle attività didattiche? Per rispondere a queste domande bisogna indagare sulle emergenze sociali e culturali del nostro mondo, legate alla rivoluzione digitale, alla crisi della famiglia, alla frantumazione informativa, alla decadenza di principi morali un tempo ritenuti invalicabili. Dunque scegliamo il punto di vista del ripetente, cioè di colui che fallisce, ciò può aiutarci a capire cosa non ha funzionato e perché!

Il compito della Scuola non è quello di riempire di contenuti la testa degli allievi quanto quello di fare amare il sapere, di aprire mondi. Di far sentire che la verità non ha una sola lettura e che la bellezza si può cogliere in modi diversi. Quali sono gli insegnanti capaci di contagiare i propri allievi con il loro amore per il sapere? Insegnanti che amano il sapere e che come Socrate sanno di non sapere, sono consapevoli delle proprie mancanze.

Quel “vuoto di sapere” che spinge alla ricerca, apre al pensiero critico. Insegnanti che provocano domande, che generano curiosità, desiderio. Perché senza il desiderio di sapere non c’è possibilità di apprendimento. La scuola di oggi si ispira ad un modello aziendale dove ciò che importa è la produzione, il profitto e non le persone che la frequentano. In questo tipo di scuola però c’è posto solo per chi va veloce, non per chi ha difficoltà di qualsiasi tipo; chi va piano o in modo irregolare rischia di restare fuori.

Oggi esiste anche una scuola che si ispira ad un parco giochi in cui il maestro si deve continuamente ingegnare a tener alta l’attenzione degli allievi. Anche questo modello forse non è adeguato. Ci vuole, quindi, una scuola che premi l’irregolarità, l’inclinazione, la stortura, che tenga conto che ciascuno ha la propria misura di felicità e i propri desideri; è proprio questo atteggiamento che rende il rapporto con il sapere unico e irripetibile. Ricercare l’uniformità non è quindi un buon modo di fare scuola.

Occorre esigere che i ragazzi siano responsabili del loro talento ma non pretendere che debbano per forza recuperare e raggiungere il livello anche nelle materie in cui sono meno prestanti. Questo perché altrimenti anziché favorire l’amore per il libro si rischia di renderlo una cosa nauseabonda. In un modello di scuola così attento all’individualità degli studenti, a mio avviso, ci sarebbe meno bisogno di psicologi nella scuola e non sarebbe necessario fare ricorso a procedure testistiche di valutazione e di diagnosi.

E allora quale modello di scuola?

Citavamo all’inizio una scuola che promuove meglio del concetto odierno di scuola inclusiva. Un modello di riferimento di scuola che promuove potrebbe essere ravvisato nel modello della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani.

I Care” è il messaggio che campeggia su una parete della povera scuola di Barbiana. Come dice lo stesso Don Milani, è il motto della migliore gioventù americana, significa “Mi sta a cuore” ed è l’esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”. Ecco, è forse questo il bisogno più grande. Il bisogno di costruire una scuola in grado di “avere a cuore” tutti gli alunni, a prescindere dalle loro capacità, e di portarli tutti, nessuno escluso, verso il successo formativo.

LA SCUOLA CHE VORREI?    “I Care”… NESSUNO È SOMARO!

Sicurezza e continuità nella scuola di domani

Parlare di sicurezza nelle scuole sembra un argomento quasi fuori luogo, soprattutto se si pensa alle numerose morti bianche che purtroppo avvengono quotidianamente nel lavoro dei cantieri e delle fabbriche; eppure le strutture che ospitano le istituzioni scolastiche sono sempre più obsolete e gli enti locali che le gestiscono fanno fatica a sostenere i lavori di ristrutturazione.

Penso alle scuole di Trieste per la maggior parte ubicate in splendidi palazzi d’epoca, ma con spazi che sarebbero non solo da ristrutturare, ma soprattutto da ripensare e adeguare ad una didattica in cui l’ambiente di apprendimento, inteso come spazio, giochi un ruolo rilevante nell’insegnamento e nell’apprendimento dello studente.

La  principale fonte normativa riguardo alla sicurezza (D.Lgs. 81/2008) presenta un’attenzione particolare alla prevenzione, stabilendo un sistema sanzionatorio soprattutto nei confronti del dirigente scolastico, individuato come datore di lavoro e quindi con responsabilità penali rispetto alla gestione e prevenzione nel sistema.

Le situazioni in cui gli edifici risultano carenti sono molto diffuse, in quel caso il dirigente provvede alla redazione di un verbale in seguito ad un sopralluogo e richiede all’ente locale di provvedere agli interventi; in casi estremi si rivolge alla Prefettura o all’Autorità giudiziaria. Questa procedura deve avere seguito ogni anno per garantire la sicurezza dell’edificio, ma sappiamo con certezza da recenti rapporti sulla sicurezza delle scuole, che la qualità dell’edilizia scolastica, delle strutture e dei servizi, è critica e per se stessa insostenibile per gli utenti e per chi ne ha la responsabilità.

La questione della sicurezza degli edifici è emblematica di una scuola “pericolante” anche dal punto di vista della mancanza di una linea di sviluppo coerente e costante delle riforme che in questi anni l’hanno interessata: uno sviluppo frenetico di leggi, decreti, circolari, a volte addirittura in contrasto tra loro, anche in rapporto alla gerarchia delle fonti.

Le istituzioni scolastiche sono subissate di oneri derivanti dall’autonomia, fanno fatica ad integrarsi con il ritmo e le richieste di un servizio sempre più personalizzato e integrato con il territorio, e contemporaneamente sono tenute a rispondere a quelle norme generali e a quegli standard che richiamano all’unitarietà del servizio sul territorio nazionale.

La norma dovrebbe sempre costituire una risorsa, dare certezza della presenza delle istituzioni e in ultima analisi fiducia e servizi al cittadino; così nella scuola bisognerebbe avere la pazienza di raccogliere i frutti delle riforme, monitorandole e migliorandole nel tempo, senza strumentalizzarle al consenso di questo o quel partito.

Emblematico è il caso delle polemiche suscitate dall’alternanza scuola lavoro, introdotta con il ministro Moratti e implementata con la legge 107/2015. Considerata quale una metodologia didattica preziosa e vitale nell’istruzione tecnica e professionale, si è rivelata un’esperienza vissuta con disagio dalle famiglie ed ostilità dai docenti in alcuni licei; in parte per l’impianto strutturale che li caratterizza e in parte perché abituati ad una autoreferenzialità che ha reso difficile il confronto con il territorio circostante.

Hanno mostrato il volto di una scuola che fatica a dialogare con il mondo del lavoro e più in generale a coniugare il sapere teorico dei programmi e delle discipline con “il fare” di una dimensione laboratoriale dell’apprendimento e la diffusione di una cultura del lavoro.

La nostra è  una società complessa e sempre più anestetizzata di fronte all’ignoranza, all’ingiustizia e al dolore, diffuso, distorto dai media e amplificato dai social; impotente di fronte alla natura e spesso generatrice di “disvalori” vecchi e nuovi.

Proprio per questo la scuola non può permettersi negli scenari di questo momento storico di ricalcare la società, accettando strutture fatiscenti e inglobando quella insicurezza che promana dalla vita politica e sociale del mondo in generale; dovrebbe rappresentare nella sua possibile “artificialità” il cambiamento, nelle strutture e nelle persone che vi lavorano, farsi laboratorio dell’innovazione, delle soluzioni e della possibilità di esistenza di un mondo equo e sostenibile; avere cura delle giovani menti, prospettare nuovi orizzonti di cittadinanza e guidare, senza scarti, il capitale umano nelle acque della speranza.

Alla scuola auguro un nuovo anno all’insegna di questa sicurezza, intesa come lo star bene non solo in edifici belli e sicuri ma nella certezza che tutti abbiano a cuore il suo valore e le potenzialità di cui essa dispone per la costruzione di una società migliore.

Alternanza scuola lavoro: a new concept is born…

L’Alternanza scuola-lavoro è una modalità didattica innovativa che, grazie all’esperienza pratica, facilita il consolidamento delle conoscenze acquisite a scuola e diventa un valido ausilio nel testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti, nell’arricchirne la formazione e nell’orientarne il percorso di studio con progetti in linea con i piani di studi.

La Legge 53 del 2003 istituzionalizza l’alternanza scuola lavoro come parte integrante del curricolo scolastico e non più pratica aggiuntiva. Il D. Lgs. 77/2005 introduce l’ASL in tutte le scuole per assicurare ai giovani competenze spendibili nel mercato del lavoro.

L’Alternanza scuola-lavoro (ASL), obbligatoria per tutte le studentesse e gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori è una delle innovazioni più significative della legge 107 del 2015 in linea con il principio della scuola aperta, attraverso la quale i giovani esprimeranno la propria customer satisfaction e la riscontrata coerenza tra PECUP e profilo professionale definito in ASL.

Le Raccomandazioni europee evidenziate nella relazione di CE “Ripensare l’istruzione, investire nelle abilità in vista di migliori risultati economici” del novembre 2012, gli obiettivi di Europa 2020, il programma europeo “Education and training 2020”, l’avvicinamento dell’Italia al sistema duale, mirano ad innalzare gli standard di qualità, a migliorare il livello di apprendimento e a rispondere al bisogno di competenze che si esplicano nel concetto di cittadinanza attiva. Sullo sviluppo personale, si evidenzia l’imprescindibilità delle competenze digitali, la capacità imprenditoriale dei giovani unici protagonisti del futuro del nostro paese e dell’Europa intera.

L’ASL come dimensione formativa centrata sull’allievo e sulle job vacancy sempre più differenziate per profilo professionale, come reale strumento di orientamento professionale non avulso dal contesto territoriale ma inserito nelle dinamiche locali, nei nuovi bisogni formativi e professionali, mette al centro dell’universo scuola i giovani, stakeholders principali ed unico motore del complesso mercato del lavoro.

Un cambiamento culturale di notevole importanza per la costruzione di una via italiana al sistema duale, che si ispira a buone prassi europee, incardinandole nel tessuto produttivo e nel contesto socio-culturale italiano.

Ma qualcosa è cambiato, infatti nella bozza della Legge di Bilancio, sono evidenti alcune modifiche al progetto di questa nuova modalità didattica dell’Alternanza scuola lavoro che, pur nella sua grande validità di principi e attuazioni,  ha, comunque, provocato nella scuola notevoli disagi organizzativi, ma c’e’ da dire che nonostante tutto in alcune regioni è stato un progetto formativo di eccezionale importanza per diffondere tra i giovani la cultura del lavoro e l’esperienza sul campo.

Ma in che cosa è cambiato? Il primo cambiamento riguarda la nomenclatura. Infatti le attività si chiameranno: “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, descrivendo nel concreto quello che gli studenti svolgono a scuola anche attraverso esperienze di aziende simulate.

In pratica percorsi di orientamento e di sviluppo delle competenze trasversali che si ispirano alla promozione  della settima competenza europea: il “senso d’iniziativa e di imprenditorialità”.

Ne viene, altresì, cambiata anche la durata in termini di ore in un progetto che deve essere necessariamente flessibile e adattato al contesto territoriale e alle esigenze dell’Istituzione scolastica. I percorsi restano comunque diversi a seconda del tipo di studio e per numero di ore utilizzate. Infatti viene fissato un tetto minimo a cui le scuole devono adeguarsi ma che possono incrementare a seconda delle esigenze e dell’offerta formativa, così ridistribuite:

  • negli istituti professionali non inferiore a 180 ore
  • negli istituti tecnici  non inferiore a 150 ore
  • nei licei non inferiore a 90 ore.

Queste modifiche, dopo poco tempo dalla nascita dell’ASL, non dovrebbero minimizzare l’importanza culturale e professionale che ha caratterizzato tale esperienza formativa sia per i docenti referenti e tutor interni e, soprattutto, per i giovani che ne sono stati i protagonisti. Il meeting con la “cultura d’impresa” è stato un input di ricchezza per la scuola, una grande possibilità di dialogo e di confronto per il welfare sociale.

Abbiamo avuto esempi di esperienze, legate all’ASL, molto ben organizzate e strutturate che hanno offerto ai ragazzi  opportunità di crescita e di maturazione umana e culturale. Gli studenti hanno avuto la reale opportunità di osservare il mondo del lavoro con un atteggiamento d’impegno e di responsabilità partecipativa.

Si auspica vivamente che la diminuzione delle ore, prevista dall’attuale Legge di Bilancio, non vanifichi la qualità di questa positiva esperienza del curricolo formativo dello studente, che, se inserita ad hoc nel percorso di studio, aiuta lo sviluppo di “competenze trasversali” ed offre una valida guida di “orientamento” nella scelta degli studi universitari, nella consapevolezza di sapere cosa “fare da grandi” e proiettarsi scientemente nella professione del domani.