Il filo d’oro della pace attraversa la Scuola e le sue discipline


La valenza fondamentale del linguaggio dell’educazione, dell’istruzione è ben fissata in due testi: nella nostra Carta costituzionale (1° gennaio 1948) e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948).

L’etimologia del sostantivo «pace» rimanda alla radice sanscrita pak– o pag– (che significa «fissare, pattuire, legare, unire, saldare», da cui derivano anche altre parole di uso comune come «patto»,  «pagare») che ritroviamo nel latino pax = pace. È l’ebraico «shalom» che ci restituisce il significato più autentico di «pace-dono», «completezza», «prosperità».

Nei «Principi fondamentali» (artt. 1-12) la Costituzione dedica alcuni articoli all’istruzione e la considera come uno dei fini di cui ogni Stato deve farsi carico per procurare maggiore benessere alla collettività e per migliorare, elevare le condizioni di vita di tutti i cittadini e tutte le cittadine.

In particolare, nella Carta costituzionale, la Scuola è considerata ponte di passaggio tra la famiglia,  primigenio nucleo sociale e formativo della persona, e la società, luogo naturale di integrazione con gli altri individui e di sviluppo della propria personalità. (Mi corre l’obbligo morale e civile di sottolineare e specificare con le parole dello storico Paolo Macry – dopo il recente Congresso Mondiale delle Famiglie tenutosi a Verona a fine marzo – che la famiglia «[…] è un fenomeno storico e, come tale, assai difforme nel tempo e nello spazio.  La famiglia è un prodotto culturale, la sua qualità e relativa. […] Tutti quanti i caratteri dell’istituzione familiare a noi più consueti possono trovarsi, altrove, rovesciati o mancanti. […] Ma neppure è universale l’eterosessualità del nucleo coniugale» (Paolo Macry, L’età contemporanea, il Mulino, 1995, p. 105).

Al macrocosmo dell’Istruzione e della Scuola gli articoli fondamentali di riferimento della nostra Magna Charta sono il 9, il 33 e il 34. Un ruolo attivo nella stesura di suddetti articoli ebbero personalità profetiche, sagge, di grande acume e di severissima disciplina intellettuale (dei quali sentiamo nostalgia) come  Concetto Marchesi, Aldo Moro, Giorgio La Pira.

Il codice lessicale del sostantivo «pace» si declina, plasma e plana ogni curricolo di ogni ordine e grado della nostra scuola. La pace è una pietra viva, una parola-chiave e fondante di ogni percorso di apprendimento, socializzazione ecc…

Nel nostro linguaggio poetico l’auspicio della «pace» risuona, tintinna già nella prosa «rimata» (cfr. Gianfranco Contini) del Cantico di frate sole, manifesta una grande vivacità nei componimenti morali-civili-politici della cd. «lirica toscana». Assai vario ed esteso è il complesso delle occorrenze in cui il vocabolo «pace» tesse le rime del linguaggio amoroso (dai Siciliani agli Stilnovisti: in breve ricordiamone la variegata parabola dal rapporto amata-amante in figura di guerra alla presentazione della donna come fonte di pace, topos / topoi della tradizione lirica classica e poi «volgare»). Nell’opera di Dante poi il concetto di «pace» è centrale. Nello spazio letterario del Novecento la parola «pace» illumina gli ardui testi saggistici della celebre conferenza Pro o contro la bomba atomica di Elsa Morante e le rime Non gridate più di Giuseppe Ungaretti. Una poesia «civile» che si rivolge agli uomini sopravvissuti all’immane tragedia della guerra: le grida piene di rabbia e di rancore coprono le flebili voci dei morti che invocano pace, rendendo inutile il loro sacrificio ed in questo modo, è come se venissero uccisi di nuovo.

Versi che richiamano in vita il dolore e il dramma solamente attraverso il nero, il bianco e il grigio di Guernica un manifesto universale contro la forza cieca delle guerre, il primo saggio del terrore novecentesco che esplode sulla tela della grande storia dell’Arte universale che ricorda – compiendo un pazzesco salto indietro alle origini della civiltà umana – il «pannello della pace» del bifronte Stendardo di Ur. Guerra e pace, Eros e Thanatos: due facce della stessa moneta di ogni essere vivente, il doppio binario su cui scorre ogni Vita.

Un millenario curricolo che molti vorrebbero «morto» il Latino – una «lingua inutile (cfr. Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini), una lingua d’amore, di pace, di diritto che non parliamo più ma che «ci parla ancora» (come saggiamente ammonisce la storica dell’antichità e del diritto antico Eva Cantarella) attraverso uno dei suoi «autori» di punta, come Tacito, ci racconta la «pace» a tutto tondo. Nel capitolo XXX dell’Agricola Tacito mette in bocca a un capo dei britanni, Calgaco, queste parole con riferimento ai romani: «infine, dove fanno il deserto, dicono che c’è la pace».

Infine, per realizzare la «pace come pieno godimento di tutti i diritti e dei mezzi per partecipare pienamente allo sviluppo endogeno della società» (cfr. Federico Mayor. The World Ahead: Our Future in the Making, Zed Books, 2001, p. 451) si adopera il curricolo della Matematica. Questa disciplina non solo aiuta a decifrare la realtà in cui viviamo ma apporta un metodo, un approccio nonviolento nell’agire per cambiare questa realtà. Un matematico in quanto persona che vive in un data società con il suo comportamento può influire su di essa adoperando le sue specifiche competenze e conoscenze. Come nel caso di un matematico, Lewis Fry Richardson (1881-1953), che proprio in forza del suo impegno etico nei riguardi della pace orienterà tutta la sua attività scientifica.  Nel 1919, in un saggio dal titolo Mathematical Psychology of War, successivamente ampliato nel 1939, Richardson propone un modello matematico basato su equazioni differenziali: egli considera non solo il caso di due paesi, potenzialmente nemici, ma ipotizza anche la possibilità di misurare in qualche modo l’animosità e/o bellicosità di ciascuno dei paesi nei riguardi dell’altro. Alla luce dell’analisi di questo modello, Richardson, vede nella cooperazione uno strumento per ridurre la possibilità di guerre.

Il rapporto fra matematica e guerra è stato sempre molto forte. Già Platone, nel settimo capitolo della Repubblica, afferma come «la conoscenza del calcolo e dei numeri» sia necessaria al guerriero «se egli vuole capire qualcosa di tattica, o piuttosto se vuole essere un uomo».

Munir Fasheh, un professore di matematica e formazione, Master in matematica e dottorato in Formazione (Harvard), docente di matematica all’Università di Birzeit, afferma che «uno dei principali obiettivi dell’insegnamento della matematica dovrebbe essere di far capire che ci sono differenti punti di vista e di far rispettare il diritto di ciascun individuo a scegliere il proprio. In altre parole, la matematica dovrebbe essere usata per insegnare la tolleranza in un’epoca così piena di intolleranza» (cfr. Munir Fasheh. Mathematics, culture and authority in Arthur B. Powell, Ethnomathematics: challenging eurocentrism in mathematics education, State University of New York Press, 1997, p. 276).

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