La “Cittadinanza” nello scenario europeo


La costruzione del concetto di cittadinanza nella storia (3ª parte)

Durante il dominio fascista in Italia furono emanate diverse norme che dimostrano chiaramente cosa significhi essere cittadini in quest’epoca. Il primo gennaio 1926 il Paese si sveglia con la legge sulla stampa, Mussolini con tale normativa sancisce la messa fuori legge di qualsiasi giornale che non abbia un responsabile riconosciuto dal Prefetto e di conseguenza dal governo. Moltissimi giornali, quotidiani, opuscoli sono considerati illegali. Inoltre viene imposto ad ogni tipografia l’obbligo di depositare ogni scritto in tribunale per ottenere l’autorizzazione del magistrato in vista della pubblicazione. Il 12 gennaio è la volta dei dipendenti pubblici, ai quali è severamente proibito iscriversi a qualsiasi tipo di associazione, l’unica consentita, ovviamente è quella fascista.

Il provvedimento di controllo si estende a tutti gli intestatari di numeri telefonici, schedati a secondo dell’appartenenza politica. Vengono sciolte tutte le sedi di aggregazione degli operai con la creazione di un unico organismo che è l’OND. I docenti di ogni ordine e grado devono possedere la tessera del partito nazionale fascista pena l’espulsione dal lavoro, i libri di testo devono essere controllati e approvati esclusivamente dal Ministero della Pubblica Istruzione per essere in linea con il pensiero del regime. La televisione e il cinema proiettano documentari ideologici di propaganda prodotti dall’Istituto Luce, Unione Cinematografica educativa italiana con il compito di inculcare e plasmare il buon cittadino fascista. Sempre in questo anno viene istituito il Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, con lo scopo di condannare tutti gli antifascisti condannandoli al confino.

Il 1938 si caratterizza per la vergognosa campagna antisemita che sfocia nella promulgazione delle Leggi Razziali. Esse sostengono che gli italiani sono ariani mentre gli ebrei non lo sono mai stati. Da quel momento, gli ebrei italiani non potevano più lavorare nelle amministrazioni pubbliche, insegnare o studiare nelle scuole e università italiane, far parte dell’esercito, gestire alcune attività economiche e commerciali che il fascismo giudicava “strategiche” per la nazione. Di anno in anno le misure contro gli ebrei diventarono sempre più dure, fino al 1943, quando l’occupazione tedesca dell’Italia del centro-nord diventò una tragedia anche per gli ebrei italiani, molti dei quali finirono nei campi di concentramento e di sterminio.

Proprio in questo periodo, nel 1941, quando le sorti della guerra sembrano pendere verso una vittoria dell’Asse, tre figure di spicco nel panorama intellettuale italiano, hanno scritto un documento che è ora ricordato come il Manifesto di Ventotene. Altiero Spinelli, che si trova al momento della stesura al confino sull’isola di Ventotene, insieme con Ernesto Rossi e con il contributo di Eugenio Colorni, iniziano una discussione ispirata dalla lettura di due articoli scritti da Luigi Einaudi circa 20 anni prima. Questi partono dal presupposto che i principi sanciti dalla Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale sono stati completamente sovvertiti dall’imperialismo e dai totalitarismi. Inoltre ritengono che l’Europa sotto il dominio nazi-fascista è quella che ingloba il cittadino, e quindi non si costruisce sulla libertà di cittadinanza.

Essi sperano che dopo il crollo dei regimi totalitari, i popoli possano costruire una vera democrazia, non gravata dal desiderio di potere e dalla pressione delle élite conservatrici. Per realizzare quest’obiettivo i tre intellettuali hanno proposto la costituzione di una federazione europea, una forza sovranazionale che avrebbe dovuto ricostituire l’Europa, evitando gli errori commessi dal capitalismo e dal comunismo sovietico.

Nella prima parte del manifesto, Spinelli ha descritto i valori più importanti sui quali è basata la civiltà moderna, prima dell’avvento del totalitarismo, vale a dire la libertà e il principio di autodeterminazione degli stati. Tuttavia questi valori sono già viziati dal riconoscere nello stato un’entità sovrumana che, per soddisfare i propri bisogni, non si cura né delle reali esigenze dei cittadini, né degli altri stati. Secondo Spinelli i ceti privilegiati hanno favorito la formazione delle dittature, preferendo un regime autoritario alla diffusione della democrazia e di diritti uguali per tutti. Per questa ragione, egli suggerisce che la nuova Europa, che si dovrà costruire dopo la guerra, si basi sugli ideali socialisti di emancipazione delle classi operaie e di progresso sociale messo al servizio della collettività. Lo Stato deve garantire ai propri cittadini un’equa distribuzione della ricchezza e la possibilità di avere un lavoro, un’istruzione e adeguata assistenza. Inoltre il concetto di laicità viene inteso come il rispetto di tutte le religioni, mentre la chiesa è invitata a non interferire con la vita civile dei cittadini, ma soprattutto gli stati europei devono costituirsi in una confederazione, un ente superiore che garantisca i punti descritti sopra.

Gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati dal tentativo di ridefinire lo stato sociale e con esso il diritto di cittadinanza. Quest’ultimo non può più semplicemente fondarsi sui vecchi principi, ma deve essere ampliato e approfondito dopo la negazione imposta dai regimi fascisti e in vista di una società più aperta e multiculturale. Questa ricerca di una nuova definizione ha trovato la sua espressione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Oggi uno Stato che si voglia definire civile deve impegnarsi a eliminare le situazioni di svantaggio, assicurando l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini, vale a dire laccesso per tutti alla sfera dei diritti fondamentali. A tal proposito si può citare come esempio l’articolo 2 della Costituzione italiana che sostiene: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo testo traduce la necessità di riaffermare i “diritti fondamentali” della persona dopo la tragica esperienza del fascismo e del nazismo, di accentuare la rilevanza della persona, la sua intangibilità e la necessità di moltiplicare i diritti a sostegno dei bisogni fondamentali dell’individuo.

La storia moderna ha visto prevalere la centralità del soggetto, l’intenzione di attribuirgli una molteplicità aperta di diritti e il bisogno di sottrarlo all’assoluta dominanza dello stato, per collocarlo in uno scenario sovranazionale. L’affievolirsi del ruolo dello Stato-nazione, sotto alcuni aspetti sostituito da una struttura più ampia, lascia inevitabilmente un vuoto di appartenenza e la necessità di nuovi sistemi di riferimento. Nel contesto dell’internazionalizzazione del diritto e della creazione di forme di aggregazione di popoli come l’Unione europea, il concetto di cittadinanza si è perciò ulteriormente sviluppato. La condizione ideale sarebbe quella di creare un’identità propria del popolo europeo nel rispetto dei particolarismi degli Stati appartenenti e nella piena condivisione dei principi comuni, di carattere sociale e politico, espressi anche nella Costituzione europea.

La cittadinanza dell’Unione europea e i diritti che ne derivano devono essere visti in una prospettiva storica, partendo dal processo avviato dal trattato che ha dato vita alla Comunità economica europea (firmato a Roma nel 1957). Detto trattato ha introdotto il diritto delle persone a circolare liberamente sul territorio della Comunità europea. A quei tempi, tuttavia, la libera circolazione delle persone è legata a motivi strettamente economici e ha lo scopo di facilitare gli scambi tra i paesi che hanno firmato il trattato. Il diritto di soggiorno su tutto il territorio della Comunità è riconosciuto innanzitutto ai lavoratori subordinati e autonomi e ai loro familiari in relazione al diritto all’esercizio di un’attività professionale su tale territorio.

L’Atto unico europeo del 1986 ha modificato il trattato di Roma in un’ottica più ampia e non soltanto basata su motivazioni economiche. Alla sua base vi è l’esplicita volontà di creare uno spazio senza frontiere in cui le persone possano muoversi liberamente a prescindere dalla loro nazionalità. L’intento dei firmatari è di avviare un processo di apertura che dovrebbe compiersi appieno entro il 31 dicembre 1992. Nel 1990, la dinamica dell’Atto unico induce il Consiglio a estendere il diritto di soggiorno anche alle persone che non esercitano alcuna attività economica, a condizione che dispongano di risorse sufficienti e di una copertura sociale.

La cittadinanza europea è stata formalmente istituita in occasione del Vertice dei Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea (denominazione che da allora sostituì quella di Comunità Europea) tenutosi a Maastricht il 9 e 10 dicembre del 1991. Tuttavia, in quell’occasione, l’attenzione dei mass media si è concentrata soprattutto sulla decisione presa dal vertice di creare una moneta unica europea e l’istituzione del diritto di cittadinanza è passato in secondo piano, rimanendo sconosciuto alla maggior parte delle persone. La scelta politico-monetaria di fatto ha messo in secondo piano quella “culturale” di cittadinanza, quasi facendola scomparire: occorre dunque cercare una soluzione a questa crisi d’identità che continua a serpeggiare tra i cittadini. La cittadinanza delineata a Maastricht, è una “cittadinanza comune” agli abitanti dei Paesi membri, come si legge, fra l’altro, nel Preambolo del trattato, firmato dai governi il 7 febbraio 1992. Essa non sostituisce la cittadinanza delle singole nazioni, ma in qualche modo si aggiunge ad essa, tuttavia è ancora quella nazionale a rimanere come riferimento principale per stabilire chi gode dei diritti giuridici di cittadinanza entro l’Unione e chi no. L’obiettivo principale, che ha motivato la decisione dei firmatari di istituire una cittadinanza dell’Unione, è quello di rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi stati membri, come si legge nell’art. B.

L’introduzione del concetto di cittadinanza mira inoltre a rafforzare e a promuovere l’identità europea, tentando di coinvolgere i cittadini nel processo di integrazione comunitaria. La cittadinanza dell’Unione comporta una serie di norme e diritti ben definiti, che si possono raggruppare in quattro categorie: la libertà di circolazione e di soggiorno su tutto il territorio dell’Unione, il diritto di votare e di essere eletto alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza, la tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro in un paese terzo nel quale lo Stato di cui la persona in causa ha la cittadinanza non è rappresentato e il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e ricorsi al mediatore europeo. Analogamente, i diritti fondamentali si applicano a tutti coloro che risiedono nell’Unione europea. Il testo del Trattato di Maastricht si è limitato a tracciare i confini generali della cittadinanza e ha rimandato molte questioni alle specifiche legislazioni nazionali.

Nel corso degli anni ’90, tuttavia, si sono verificati alcuni fenomeni che hanno portato alla ribalta della politica europea il problema di definire più accuratamente quali sono i diritti dei cittadini europei e degli altri soggetti presenti nell’Unione. Innanzitutto, si è approfondita l’integrazione economica e sociale dei paesi membri dell’Unione, sostenuta dagli sviluppi del mercato unico, in particolare dalla liberalizzazione della circolazione di persone, beni e capitali, anche in vista dell’introduzione della moneta unica. La società europea è così diventata sempre più interdipendente e sono nati problemi inediti nella regolazione dei rapporti quotidiani di soggetti, imprese, istituzioni, entro un quadro sempre più sovranazionale. In secondo luogo, si è delineata l’emergenza dovuta all’immigrazione, soprattutto nei Paesi dell’Unione confinanti con l’Est europeo, dopo la caduta del muro di Berlino (1989), e in quelli sulle coste del Mediterraneo, che ha posto il problema di stabilire quali siano i diritti non solo dei cittadini europei, ma anche di tutti coloro che in Europa vivono e lavorano.

Con il trattato di Amsterdam (1997), si è trovata una soluzione politica che consente di progredire sul fronte della libera circolazione delle persone. Il documento ha infatti integrato l’elenco dei diritti civili di cui godono i cittadini dell’Unione e ha definito con maggior precisione il nesso esistente fra la cittadinanza nazionale e la cittadinanza europea. Nel trattato sono stati incorporati i cosiddetti accordi di Schengen, firmati nel 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi per attuare il regime di libera circolazione dei cittadini degli stati firmatari. Il protocollo, relativo a tali accordi, è stato successivamente firmato dagli altri stati membri (l’Irlanda, la Gran Bretagna e altri hanno tuttavia espresso il desiderio di ottenere uno statuto particolare e mantenere alcuni controlli alle proprie frontiere), allegato al testo del trattato di Amsterdam e integrato nel Trattato di Maastricht nel 1999. Nonostante ciò i cittadini europei si trovano ancora a dover affrontare ostacoli veri e propri, di ordine sia pratico sia giuridico, al momento di esercitare il proprio diritto di libera circolazione e di residenza all’interno dell’Unione.

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