Parità di genere in UE: una strada ancora lastricata di sassi


La violenza di genere e la femminilizzazione della povertà sono problematiche centrali nelle politiche di pari opportunità portate avanti dall’UE, nel generale processo di integrazione europea nato con il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Europea nel 1957 che, nell’art. 119, ha sancito la parità salariale tra uomini e donne, a parità di mansioni lavorative, gettando le basi di quel processo, non ancora completato, del riconoscimento della parità di genere.

L’argomento viene ripreso nel Trattato di Amsterdam del 1997 che ha decretato il principio di parità tra generi come obiettivo dell’Unione (art. 2) e compito della Comunità nel perseguire tale goal tramite l’attuazione di politiche e azioni comuni (artt. 2 e 3). Nell’art. 13 si afferma che il Consiglio, su proposta della Commissione e dopo aver sentito il Parlamento, può prendere provvedimenti per contrastare discriminazioni fondate su sesso, razza, lingua, religione, convinzioni personali, età, ecc, mentre nell’art. 141 viene estesa l’area di applicazione della parità di retribuzione dei lavoratori di genere non solo ai lavori di pari mansioni ma anche a quelli di pari valore.

Un passo in avanti compie il Trattato di Lisbona (2007) che fa della parità di genere un valore del processo di integrazione e dà forza alla Carta dei Diritti Fondamentali, proclamata nel 2000 a Nizza, che così assume lo stesso valore giuridico dei trattati. Gli artt. 21 e 23 citano espressamente la non discriminazione e la parità tra uomini e donne, rafforzando così l’impegno dell’Unione in materia di pari opportunità.

La parità salariale era stata codificata per la prima volta nel 1919 nel trattato di Versailles che riporta, nella terza parte ove vengono elencate le norme per la costituzione dell’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, un articolo sulla parità salariale tra uomini e donne che ancor oggi non è ancora stata raggiunta attestandosi su una media del +16% a favore degli uomini, tra i diversi paesi dell’UE.

A partire dagli anni ‘70 sono state approvate una serie di direttive, poi recepite dagli Stati membri, riguardo a parità di trattamento tra uomini e donne in termini di accesso al lavoro, parità salariale, condizioni di lavoro, formazione professionale, ancor oggi pilastri importanti di quella che è la politica sociale europea.

Un momento importante nello sviluppo della politica di integrazione europea furono sicuramente le elezioni del Parlamento europeo del 1979 che registrano un deciso aumento della presenza femminile in Parlamento; fu considerata, però, da molti, una sorta di vittoria di Pirro dal momento che il Parlamento non era certo considerato l’organo più importante e le sue elezioni erano perciò dette di “secondo ordine”.

In tal modo le donne hanno comunque potuto dare un importante contributo allo sviluppo della politica di pari opportunità. Nella prima legislazione, infatti, del Parlamento eletto a suffragio, dal 1979 al 1984 fu costituita la prima Commissione per i diritti della donna e una Commissione di inchiesta sulla situazione della donna in Europa, preludio alla nascita della permanente Commissione per i diritti della donna del Parlamento europeo, e al dibattito sul Gender main streaming, cioè il rispetto e l’applicazione del principio di pari opportunità in tutte le politiche pubbliche, che si affermerà negli anni ’90.

A partire dagli anni ’80, su indicazione anche del Parlamento, l’intervento della Comunità è andato ben oltre il tema della condizione femminile nel mercato del lavoro e attraverso i programmi d’azione positiva ha cercato di migliorare in toto la condizione femminile nella Comunità Europea, mediante quattro programmi miranti a:

  • garantire alle donne la più ampia scelta tra le diverse opzioni lavorative senza essere condizionate nella scelta dalla maggiore conciliazione tra lavoro e famiglia (work life balance);
  • garantire alle donne il raggiungimento di posizioni lavorative anche apicali (empowerment femminile);
  • garantire il miglioramento delle condizioni delle donne nella società, obiettivo ampiamente ribadito in occasione della quarta Conferenza mondiale di Pechino nel 1995;
  • contrastare la violenza di genere economica, psicologica, fisica, tramite anche la valorizzazione della professionalità e della imprenditorialità femminile (self employment).

Dal 2000 ad oggi la politica di pari opportunità dell’UE si è sviluppata su cinque obiettivi chiave: accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, garantire la parità salariale, ridurre il divario di genere in termini di retribuzioni, introiti e pensioni e combattere la povertà delle donne. Ciò perché la disparità salariale, la mancata integrazione nel mercato del lavoro, l’entrata e l’uscita più volte e a volte forzata per poter garantire attenzione e cura alla prole e alla famiglia, fa sì che al termine del periodo lavorativo, le pensioni risultino alquanto esigue. Attualmente in Europa si contano 120 milioni di poveri, rappresentati principalmente da donne e bambini per cui è chiaro che per combattere oggi la povertà bisogna innanzitutto rafforzare le politiche di pari opportunità e garantire maggiori risorse per le donne.

Il fenomeno della femminilizzazione della povertà sta emergendo con forza negli ultimi anni in Europa. L’europarlamentare esponente dei socialisti democratici Maria Rena, di recente ha sottolineato come la povertà femminile in Europa non è altro che il risultato del permanere di varie discriminazioni nel mondo del lavoro e della recrudescenza della violenza di genere.

Quest’ultima problematica è fortemente intrecciata proprio con il tema dell’indipendenza economica femminile in quanto elemento importante per contrastare la violenza sulle donne e in grado sicuramente di dare a queste ultime una maggiore forza per opporsi, denunciare, rendersi interpreti della propria salvezza.

Secondo il Report on equality between women and man 2015 la condizione economica di uomini e donne nel mercato europeo del lavoro mostra un divario sostanziale. Il gender pay gap è ancora alto, circa del 16%; il tasso di occupazione è ancora molto basso: tra il full time e il part time, tra i tassi di inactive e di unemployed si registrano gap che superano anche il 20%. Non c’è dunque una piena integrazione nel mercato del lavoro e siamo lontani da quelli che sono gli obiettivi programmatici del documento strategico Europa 2020 che, insieme al Trattato di Lisbona rappresenta il documento di riferimento nella politica di integrazione femminile europea: sviluppare e promuovere un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale, un tasso di occupati in età compresa tra i 20 e 64 anni del 75%, una diminuzione di 20 milioni di unità tra le persone a rischio di povertà.

Nonostante la percentuale delle donne laureate e con ottimi voti sia molto alta, una media di circa il 60% del totale dei laureati, le donne abbandonano in massa le carriere accademiche, in particolare modo quelle scientifiche ed ingegneristiche. La percentuale di donne presenti nei consigli di amministrazione si attestano intorno ad una media di valori del 20% in UE, con scostamenti dalla media del 12,4% in positivo in Francia e del 17,3% in negativo a Malta, mentre la percentuale di donne che rivestono il ruolo di amministratore delegato è del 3%, ben al di sotto di quella democrazia paritaria che la politica di integrazione europea aveva prospettato.

Quello che mostra con molta chiarezza l’ultima relazione della Commissione europea in termini di pari opportunità è che il cosiddetto Breadwinner model non è ancora tramontato: all’uomo che “porta il pane a casa” spetta il lavoro meglio retribuito mentre alla donna il lavoro non retribuito, di cura della casa e della famiglia e le statistiche dimostrano chiaramente come la presenza di uno o più figli in una famiglia influenza verso il basso le statistiche sull’accesso al lavoro retribuito fuori casa da parte femminile.

Eppure una accreditata ed importante testata giornalistica economica, l’Economist già dal 2006, afferma che la crescita economica deve essere guidata dalle donne e che se più donne potessero accedere ad un lavoro retribuito, il mondo sarebbe più ricco!

Maurizio Ferrera nel libro “Il fattore D – perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia”, sottolinea come la women economy messa in atto dal Giappone ha consentito un aumento del PIL dovuto ad un ovvio aumento del reddito familiare, una maggiore capacità di consumo ed investimenti, una diminuzione della povertà e della vulnerabilità nei confronti di avvenimenti imprevisti e una maggiore crescita sociale per l’aumentata rete di rapporti.

Il lavoro delle donne, inoltre, genera altro lavoro, più servizi, legati alla cura della casa, della famiglia, nonché un aumento delle nascite dal momento che con il lavoro non viene meno il desiderio di maternità che nelle donne, anzi, viene in un certo senso soffocato, in presenza di condizioni economiche precarie o addirittura insufficienti: lavoro alle donne, quindi, anche come rimedio al calo demografico che caratterizza la maggior parte dei Paesi europei. Ferrera, quindi, auspica uno sviluppo delle strutture di assistenza all’infanzia, non semplicemente come luoghi di custodia dell’infanzia ma come luoghi ove coltivare e sviluppare talenti.

Essendo la presenza femminile nei differenti Parlamenti d’Europa intorno al 30%, al di sotto quindi di quel rapporto equo tra presenza femminile e maschile che una democrazia paritaria – per chiamarsi tale – dovrebbe registrare, si può affermare che la democrazia paritaria non è propria della nostra Comunità pur essa lottando e lavorando con forza per contrastare il terribile fenomeno della violenza di genere. Essa ha, infatti, sollecitato la firma da parte del Consiglio d’Europa della Convenzione di Istanbul, l’11 maggio 2011 ma entrata in vigore il 1° agosto 2014, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

La violenza di genere è sicuramente oggi un problema mondiale, che si manifesta con dati allarmanti, che interessa trasversalmente ormai tutte le società, da est a ovest, da nord a sud, dalle società ricche a quelle povere, senza distinzione di culture o credo religioso. La lotta alla violenza di genere e la costruzione di una società più democratica e più equa passa sicuramente attraverso la lotta e l’abbattimento di stereotipi, programmi e progetti da sviluppare a tutti livelli della società civile come scuole, ambienti di lavoro, associazioni, mass media, l’inasprimento e la certezza delle pene, firme di accordi e convenzioni a livello nazionale ed internazionale.

L’ONU ha lanciato da alcuni anni un programma di solidarietà HE FOR SHE, movimento che sottolinea l’importanza del coinvolgimento degli uomini nei progetti di contrasto e lotta alla violenza di genere. Anche l’UE ha sottolineato l’importanza di tale progetto essendo la risoluzione del problema della violenza di genere una sfida non solo al femminile ma da condurre insieme, uomini e donne.

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