Dall’integrazione all’inclusione

di Vincenza Ferrante

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori,

ma nel possedere altri occhi,

vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro,

di centinaia d’altri:

di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva,

che ciascuno di loro è.

(MARCEL PROUST)

L’idea di integrazione rimanda soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della cultura dominante, quindi assume un significato più vicino ad “assimilazione” in cui mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Una parola come “inclusione” contiene in sé, invece, il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza, poiché l’ambiente è più sintonico rispetto all’elemento che si inserisce. Non si tratta quindi di sinonimi, perché veicolano significati differenti e vengono usati da prospettive differenti. Pertanto, vi è una sfumatura semantica sottile, tra l’uso di integrazione scolastica e quello di inclusione che sembra aver avuto un forte valore performativo ad esempio nell’evoluzione della normativa, di seguito sinteticamente riportata, dove si abbandona progressivamente il termine di integrazione, per sostituirlo con quello dell’inclusione.

– L’integrazione delle persone con disabilità nella scuola di tutti ha inizio nei primi anni Settanta, quando viene promulgata la legge 118/71. Comunque, è con la legge 517/77 che ebbe ufficialmente inizio il processo di inserimento delle persone con disabilità nelle scuole del nostro Paese, sempre all’insegna dell’obiettivo di integrarle.

– La legge 104/92 rappresenta poi una tappa fondamentale perché colloca il diritto all’integrazione scolastica tra i diritti fondamentali della persona e del cittadino.

– A seguire vi è il DPCM n. 185/06 (“Regolamento recante modalità e criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289”) che presenta elementi innovativi soprattutto rispetto alla certificazione della disabilità, che per la prima volta viene scorporata dalla classificazione della persona (soggetto con disabilità e non più soggetto disabile).

– Nel Decreto n. 5669 del 12 luglio 2011, emanato in attuazione della legge 170/2010, i DSA rappresentano una questione distinta dalle problematiche dell’handicap. Il Decreto, con l’Allegato: “Linee guida”, illustra in modo puntuale e articolato i percorsi didattici da privilegiare con gli alunni affetti da DSA e apre un canale di tutela del diritto allo studio diverso da quello previsto dalla L. 104/92 perché focalizzato sulla didattica individualizzata e personalizzata, sugli strumenti compensativi, sulle misure dispensative e su adeguate forme di verifica e di valutazione.

– L’espressione “Bisogni Educativi Speciali” (BES) entra in uso in Italia con l’emanazione della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” e successiva C.M. n° 8 del 6 marzo 2013, che riprende le indicazioni UNESCO del 1977: il concetto di Bisogno Educativo Speciale si estende al di là di quelli che sono inclusi nelle categorie di disabilità, per coprire quegli alunni che vanno male a scuola (failing) per una varietà di altre ragioni che sono note nel loro impedire un progresso ottimale. Se questo gruppo di bambini, più o meno ampiamente definito, avrà bisogno di un sostegno aggiuntivo, dipenderà da quanto la scuola avrà bisogno di adattare il curricolo, l’insegnamento, l’organizzazione o le risorse aggiuntive umane e/o materiali per stimolare un apprendimento efficace ed efficiente.

Analizzando in dettaglio il valore performativo della normativa, sembra che l’ integrazione sia sottintesa all’offerta formativa individualizzata, che è rivolta ai soli alunni con disabilità certificata; come garanzia del diritto ad apprendere degli studenti con DSA viene poi introdotto il concetto di didattica personalizzata , che si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno; l’inclusione invece consente di coinvolgere tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali.

Quindi nell’integrazione esiste una distinzione tra la persona con disabilità e la persona senza disabilità; nell’inclusione invece, tutti sono considerati persone, ognuno con i propri bisogni. Il termine inclusione, sempre nella DM del 2012, viene inteso come processo attraverso il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, alunni, docenti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di un ambiente che risponde ai bisogni di tutti, ed in particolare a quelli di alunni con Bisogni Educativi Speciali. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi, come viene specificato anche dall’I.C.F., (Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità)  , proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2000).

Dunque l’inclusione è un passo avanti rispetto all’integrazione, perché non solo garantisce un’offerta formativa individualizzata a tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ma definisce anche che ciò debba avvenire in un contesto favorevole. In questa prospettiva, la mancanza di inclusione e/o di successo scolastico di un alunno non dipenderebbe da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e delle sue pratiche didattiche, definibile come “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”.

Associata al concetto di Bisogno Educativo Speciale e di inclusione vi è dunque l’idea di didattica inclusiva, che non è più speciale (cioè diretta solo a chi ne ha bisogno) ma ordinaria, cioè per tutti. La Direttiva 27/12/12 del Ministro Profumo parte proprio da: «l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta.

Va quindi potenziata la cultura dell’inclusione: un approccio educativo, non meramente clinico dovrebbe dar modo di individuare strategie e metodologie di intervento correlate alle esigenze educative speciali, nella prospettiva di una scuola sempre più inclusiva e accogliente, senza bisogno di ulteriori precisazioni di carattere normativo. È sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: una didattica inclusiva più che una didattica speciale.

L’attenzione al contesto, piuttosto che al soggetto, è in linea con l’uso della ICF (2002) dell’OMS, che ci fornisce un’ottima base concettuale di funzionamento globale del soggetto: il funzionamento educativo-apprenditivo scaturisce dalla stretta relazione tra condizioni fisiche e fattori legati al contesto che inevitabilmente lo condizionano. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi. Quindi una scuola davvero inclusiva deve eliminare eventuali barriere relazionali o didattiche che potrebbero determinare o influire negativamente su forme di Bisogno Educativo Speciale, mettendo in atto strategie in grado di stimolare un apprendimento efficiente ed efficace.

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