Disturbi Specifici dell’Apprendimento: un’importante occasione di equa partecipazione sociale

DEFINIZIONE

L’acronimo DSA Disturbi Specifici dell’Apprendimento fa riferimento ad un gruppo eterogeneo di disturbi consistenti in significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e matematica, presumibilmente dovuto a disfunzioni del sistema nervoso centrale. Il termine disturbo in senso clinico indica un’alterazione del funzionamento di un organo, che si traduce nel caso specifico del DSA come alterazione del normale funzionamento del sistema cognitivo. Usare anche per i ragazzi con DSA il termine disabile vuol dire non tanto definire la mancanza totale di un’abilità come leggere, scrivere, parlare o fare di conto, quanto indicare la possibilità o meno a farlo in modo fluente.

LE CARATTERISTICHE

Un DSA ha caratteristiche individuabili: una base neurobiologica (anomalie a carico di determinate aree cerebrali), un carattere evolutivo (un’origine genetica), una variabilità espressiva (ogni abilità espressiva muta in base alla fase di sviluppo), una comorbilità (una comune origine biologica fa presentare i disturbi contemporaneamente), una rilevanza (un’interferenza negativa sull’adattamento alla vita scolastica e sulle attività quotidiane).

Le cause possono essere esogene, ovvero riconducibili ai fattori ambientali, al disagio sociale, alle difficoltà economiche, complessivamente definite come svantaggio socio-culturale; endogene, riconducibili a fattori di origine neurobiologica e costituzionale.

Si definiscono DSA quei disturbi che, in un soggetto con funzionamento intellettivo globale preservato, denotano il disturbo in un’abilità determinata. Si tratta di una situazione innata costitutiva dell’individuo che si manifesta al momento della scolarizzazione, nella fase di acquisizione delle abilità di base. Quando l’insegnante osserva che gli apprendimenti elementari non raggiungono il normale grado di automatizzazione,  cioè non ci sono velocità ed accuratezza nel compiere attività di lettura, scrittura, calcolo, allora deve procedere nella definizione del disturbo e dunque richiedere alla famiglia dell’allievo visita specialistica che produca una diagnosi, dalla quale si parta per progettare interventi didattici efficaci, in grado di rimuovere le cause disturbanti, nel caso di difficoltà di apprendimento, o di agire per il recupero funzionale, nel caso di conclamati DSA.

Attraverso test standardizzati si misurano sia l’abilità compromessa che il funzionamento intellettivo e in presenza di anomalie sensoriali, neurologiche, cognitive e psicopatologhe, si fa ricorso alla individuazione di DSA. La diagnosi tardiva spesso non dà spazio ad un intervento rieducativo ed allora si procede con un intervento compensativo, che certo, non ripristina la funzione danneggiata, ma provvede ad una sua vicarianza.

LE TIPOLOGIE

Il riconoscimento normativo nazionale dei DSA trae origine dalla Legge 170 dell’8 ottobre 2010, che definisce all’art. 1 c. 1 quattro disturbi specifici dell’apprendimento riferiti a quattro specifiche abilità scolastiche: dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia.

Si intende per dislessia un disturbo che si manifesta con la difficoltà nell’imparare a leggere, in particolare nella correttezza e rapidità della lettura (art. 1 c. 2).

La disgrafia è un disturbo specifico di scrittura che si manifesta come difficoltà nella realizzazione grafica (art. 1 c. 3).

La disortografia è un disturbo di scrittura che si manifesta nei processi linguistici di transcodifica (art. 1 c. 4).

La discalculia si manifesta con difficoltà negli automatismi del calcolo e nell’elaborazione dei numeri (art. 1 c. 5).

I quattro disturbi possono sussistere separatamente o insieme (art. 1 c. 6).

LA NORMATIVA ITALIANA

La legge 170/2010 sulle Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico è organizzata in 9 articoli di facile lettura, attraverso i quali si definiscono le finalità tese essenzialmente a garantire il diritto allo studio ed il successo scolastico dello studente, a ridurre i disagi relazionali, ad adottare forme di verifica e di valutazione ad hoc, a favorire la diagnosi precoce, ad incrementare la rete tra scuola, famiglia, servizi sanitari, ad assicurare eguali opportunità di sviluppo socio-professionale agli studenti (art. 2 cc. 1, lettere a-h).

La diagnosi è assicurata dal Servizio sanitario nazionale e impegna le scuole di ogni ordine e grado ad adottare in collaborazione con le famiglie interventi tempestivi idonei ad individuare i casi sospetti di DSA (art. 3, cc. 1-3). A garanzia di quanto appena detto sono stati stanziati per l’anno scolastico 2010-2011 fondi destinati alla formazione del personale docente e dirigenziale (art. 4 cc. 1.-2).

Gli studenti con diagnosi di DSA hanno diritto a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica, per cui gli insegnanti, disponendo di risorse specifiche, devono puntare ad introdurre strumenti compensativi compresi mezzi di apprendimento alternativi e tecnologie informatiche e misure dispensative. In particolare nell’insegnamento delle lingue straniere gli strumenti compensativi devono favorire la comunicazione verbale prevedendo anche la possibilità di esonero (art. 5 c. 1.-2).

Per assicurare maggiore presenza parentale i familiari, fino al primo grado impegnati nell’assistenza alle attività scolastiche a casa, hanno diritto a orari di lavoro flessibili deducibili dai CCNL dei comparti interessati (art. 6 cc. 1-2).

A livello mondiale la L. 170 del 2010 pone le sue radici nella Dichiarazione di Salamanca del 1994 e nella Classificazione ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2001. In ambito europeo La Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000 e le Raccomandazioni europee sui Principi Guida per promuovere la qualità nella scuola inclusiva del 2009 hanno segnato un solco fondamentale.

In ambito nazionale le indicazioni europee in stretta confluenza con i principi costituzionali di diritto allo studio riconoscevano nel 2010 con un’apposita legge, la 170/2010, i DSA, supportata da Linee guida del 6-7 dicembre 2010, promosse dal Sistema sanitario nazionale.

Nello stesso anno venivano varate nuove norme per i DSA in ambito scolastico col DM 144 del 14 dicembre 2010, veniva istituito il Comitato tecnico nazionale previsto dalla L. 170 del 2010 (art. 7 c. 3) con compiti istruttori mediante il DM 5669 del 12 luglio 2011, venivano pubblicate le Linee Guida per il diritto allo studio degli studenti affetti da DSA ( art. 7 c. 1). Si aggiungevano a queste norme l’Accordo Stato regioni del 25 luglio 2012 con cui veniva applicato l’art. 7 c. 1 e il DI del 17 aprile 2013 tra Miur e Ministero della Sanità, che adottava le linee guida per la predisposizione di protocolli regionali finalizzati alle attività di individuazione precoce dei casi sospetti di DSA.

Successivamente ciascuna regione concordava, con apposita delibera, l’approvazione dello schema di protocollo d’intesa tra regione e ufficio scolastico regionale per la definizione del percorso di individuazione precoce delle difficoltà di apprendimento, di diagnosi e di certificazione dei disturbi specifici di apprendimento (Dsa), in ambito scolastico e clinico, e l’approvazione del modello di certificazione sanitaria per i Dsa. (Ad esempio si veda la delibera della Giunta Regionale Campania n. 43 del 28/02/2014 Dipartimento 52 – Dipartimento della Salute e delle Risorse Naturali Direzione Generale 4 – Direzione Generale Tutela salute e coordinamento del Sistema Sanitario Regionale).

LA DIDATTICA

Una volta formati i docenti, venivano proposti dal MIUR format per definire in ambito scolastico il Piano didattico personalizzato, che si sviluppa in quattro aree: Generale, Funzionamento delle abilità di lettura, scrittura e calcolo, Didattica personalizzata, Valutazione.

Le prime due aree sono comuni ai due format per la scuola primaria e per la scuola secondaria e prevedono esattamente che nell’area generale si inseriscano i dati anagrafici, scolastici e medico-specialistici riguardanti l’allievo. Nell’area sul Funzionamento delle abilità di lettura, scrittura e calcolo sono distinte le tre abilità tra gli elementi desunti dalla diagnosi e quelli desunti dall’osservazione, in modo da garantire un percorso di apprendimento personalizzato.

Nell’area della Didattica personalizzata, nella scuola del primo ciclo, si declinano le strategie e i metodi di insegnamento e si indicano le misure dispensative e gli strumenti compensativi ed eventuali tempi aggiuntivi, seguendo la suddivisione tra macroarea linguistico-espressiva, macroarea logico-matematica-scientifica e macroarea storico-geografica-sociale.

Per la scuola secondaria la differenza sta nel fatto che mentre nella primaria la didattica si sviluppa lungo le macroaree, nella fase successiva vengono considerate le diverse discipline (linguistico-espressive, logico-matematiche, storico-geografico-sociali).

Per entrambi gli ordini di scuola la Valutazione viene definita per singola disciplina corredata di misure dispensative, strumenti compensativi ed eventuali tempi aggiuntivi.

In verità, la parte più interessante dei format proposti, riguarda la legenda allegata al format che chiarisce anche quali strategie metodologiche e didattiche preferire, le eventuali misure dispensative da adottare, gli strumenti compensativi da applicare, le strategie e gli strumenti prescelti dall’alunno e la valutazione da praticare, anche in riferimento specifico agli esami conclusivi di ciclo di studio. Le indicazioni proposte ai docenti mirano ad un ampio e svariato uso delle nuove tecnologie sin dall’emanazione della Legge n. 4 del 9 gennaio 2004 relativa alle Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici (Legge Stanca). Il contenuto di tale legge è stato successivamente potenziato da ulteriori Indicazioni da parte del MIUR (Nota MIUR n. 4099 del 5 ottobre 2004 sulle Iniziative relative alla dislessia e Nota MIUR n. 26 del 5 gennaio 2005 sulle Iniziative relative alla dislessia).

LE STRATEGIE  METODOLOGICHE E DIDATTICHE

Lo studente deve essere agevolato nell’apprendimento personalizzato utilizzando alternative al codice scritto come disegni, immagini, riepiloghi a voce; può, inoltre, utilizzare schemi e mappe concettuali. L’insegnante è invitato a potenziare l’esperienza e la didattica laboratoriale, a promuovere nell’allievo l’autocontrollo, a incentivare il tutoraggio tra pari, a favorire l’apprendimento cooperativo.  Il potenziale personale di sviluppo si ritrova sia nella differenza che nella diversità, che rappresentano i fondamenti epistemologici della pedagogia speciale, da cui discendono i fondamenti metodologici dell’individualizzazione e della personalizzazione. Individualizzare significa adattare un insegnamento a esigenze individuali; personalizzare vuol dire delineare percorsi di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze, in base alle capacità personali, sociali, metodologiche, in situazioni scolastiche e di vita reali. La personalizzazione mira all’orientamento e si fonda sul diritto alla diversità; l’individualizzazione punta all’alfabetizzazione e si fonda sul diritto all’uguaglianza.

LE MISURE DISPENSATIVE

L’alunno con DSA è dispensato da alcune prestazioni non essenziali come la lettura ad alta voce, la scrittura sotto dettatura, il prendere appunti, il copiare dalla lavagna, il rispetto della tempistica per i compiti scritti, la quantità di compiti a casa, alcune prove valutative.

GLI STRUMENTI COMPENSATIVI

A seconda del caso, della disciplina e del disturbo, l’alunno può usufruire di strumenti compensativi che bilancino le carenze funzionali tipiche del suo disturbo. Nella scuola primaria il bambino può usare la tabella dell’alfabeto, la tavola pitagorica, la linea del tempo, gli schemi e le mappe, il computer con un programma di video scrittura, la calcolatrice, il registratore, gli audiolibri, i libri digitali, i software specifici. Nella scuola secondaria può, in aggiunta a questi strumenti, fare anche ricorso al vocabolario multimediale.

Durante le attività didattiche, l’osservazione costante da parte del docente, deve puntare ad evidenziare le strategie utilizzate dall’alunno e la scelta che egli compie degli strumenti, per verificarne il grado di apprendimento e procedere ad una consona valutazione.

LA VALUTAZIONE

La valutazione degli studenti ai sensi del DPR 122 del 22 giugno 2009 (Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi del DL n. 137 del primo settembre 2008, convertito con  modificazioni dalla L. n. 169 del 30 ottobre 2008), definisce all’art. 10 la valutazione degli alunni con DSA.

Premessa indispensabile è che per gli alunni con DSA adeguatamente certificati la valutazione e la verifica degli apprendimenti, comprese quelle effettuate in sede di esami conclusivi dei cicli, devono tenere conto delle specifiche situazioni soggettive. Ciò chiarisce il fatto che la valutazione segue parametri che vanno comunque adattati al singolo caso.

Novità riguardo gli esami di conclusivi del primo e secondo ciclo vengono introdotte con il D. Lgs. 62 del 2017, applicativo della L. 107 del 13 luglio 2015.

L’art. 11 stabilisce che per l’ammissione alla classe successiva e all’esame di stato per gli alunni con DSA, bisogna tener conto del PDP (Piano Didattico Personalizzato) e calibrare i criteri e le modalità di svolgimento delle prove sul singolo caso. Tali studenti partecipano alle prove Invalsi, come requisito indispensabile per l’ammissione all’esame di stato (Nota Miur n. 1865 del 2017). Durante le prove d’esame gli studenti affetti da DSA devono seguire le modalità previste dall’articolo 14 del DM n. 741 del 2017, fare uso degli strumenti compensativi indicati nel PDP, ai quali già sono abituati e possono usufruire eventualmente di tempi lunghi durante le prove scritte, senza che tale modalità pregiudichi la validità della loro prova.

Gli studenti dispensati dalle prove scritte di lingua straniera possono essere sottoposti, da parte della commissione, ad una prova orale sostitutiva. Gli studenti esonerati dall’insegnamento delle lingue vengono sottoposti a prove differenziate con valore equivalente. La valutazione delle prove scritte deve tener conto delle competenze acquisite sulla base del PDP.

Il titolo del diploma finale degli studenti con DSA non deve fare menzione delle eventuali prove differenziate, né nei tabelloni affissi all’albo dell’istituto se ne deve rilevare traccia.

GLI ESAMI DI STATO DI II CICLO

La recente OM n. 350 del 2 maggio 2018 relativa ad Istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado nelle scuole statali e paritarie Anno scolastico 2017-2018, all’art. 23 recita che la commissione d’esame terrà in debita considerazione le specifiche situazioni soggettive e le modalità didattiche e le forme di valutazione individuate nel PDP ed inseriti nel documento del 15 maggio, ai sensi dell’art. 5 del DM n. 5669 del 12 luglio 2011. In particolare i candidati con DSA possono utilizzare strumenti compensativi informatici previsti e già impiegati in corso d’anno  e usufruire di dispositivi per l’ascolto dei testi in formato mp3.

Inoltre la commissione può individuare un proprio membro per la lettura ad alta voce dei testi delle prove scritte ed anche trascrivere il testo sul supporto informatico per coloro che utilizzano i sintetizzatori vocali. Sono suggeriti tempi più lunghi di quelli ordinari e l’adozione di criteri valutativi attenti al contenuto più che alla forma. L’ordinanza precisa circa la possibilità di usare le calcolatrici durante lo svolgimento della seconda prova e circa i modelli scientifici e grafici in produzione negli ultimi 5 anni consentiti per i quali è necessario consultare la Nota Miur n. 5641 del 30 marzo 2018, che vieta come lo scorso anno l’uso di calcolatrici con capacità di calcolo simbolico (CAS).

Le calcolatrici vanno consegnate alla commissione il giorno della prima prova per consentire che essa compia eventuali e necessari controlli dei dispositivi. I candidati che hanno seguito un percorso didattico differenziato ricevono solo il rilascio dell’attestazione, coloro che hanno praticato un percorso ordinario con la sola dispensa dalle prove scritte ordinarie di lingua straniera, nel caso in cui la lingua straniera sia oggetto di seconda prova scritta, dovranno svolgere nella stessa giornata di tale prova o il giorno successivo una prova sostitutiva. Anche nel caso di prova di lingua come terza prova valgono le stesse modalità. Chi ha l’esonero dall’insegnamento della lingua straniera riceve solo  l’attestazione di cui all’art. 13 del DPR n. 323 del 1998; chi è dispensato solo dallo scritto consegue il diploma conclusivo di istruzione secondaria di secondo grado.

IL MONITORAGGIO NAZIONALE

Un focus del Miur dello scorso 21 aprile ha confermato il notevole aumento degli studenti della scuola italiana con DSA certificati. Attualmente sono 140.000 gli alunni italiani affetti da dislessia, 58.000 gli studenti con disgrafia, 63.000 gli affetti da discalculia. Si è passati dal 2,5% dello scorso anno al 2,9% nell’anno scolastico in corso.

Grazie alla legge 170 del 2010 la scuola italiana ha acquisito una piena consapevolezza del problema, ha formato docenti oggi più attenti ai segnali di disturbo ed ha reso più tempestivi gli interventi mirati, con l’intento di favorire il percorso di inclusione degli studenti bisognosi di interventi didattici personalizzati.

LE CONCLUSIONI

Una scuola inclusiva è una scuola che nel progettare tiene presenti tutti ma proprio tutti, che si trasforma in un laboratorio di formazione finalizzato alla creazione di una cittadinanza attiva, che non pone al centro del suo mondo l’insegnamento, ma l’apprendimento, inteso non tanto come sapere ma come saper fare nel mondo reale. Ne deriva una didattica inclusiva che valorizza le differenze, che si muove con equità, efficienza e efficacia verso tutti, che raggiunge gli obiettivi prefissati, che facilita l’apprendimento attraverso canali visivi, canali uditivi, materiale strutturato ed un apprendimento cooperativo, che soddisfa tutti e ciascuno, che favorisce le diversità come forza del gruppo.

La scuola inclusiva, la didattica inclusiva, il mondo inclusivo abbattono gli ostacoli, usano la diversità come risorsa, promuovono valori umani, quelli che esaltano il contributo esistenziale delle persone, il loro potenziale di sviluppo leggendolo come talento da far fruttare, in quanto portatore di valori in qualsiasi età ed in qualsiasi stato psicofisico.

Il docente inclusivo applica i sette punti chiave della didattica inclusiva di Erickson:

  1. la risorsa compagni di classe,
  2. l’adattamento come strategia inclusiva,
  3. le strategie logico-visive,
  4. i processi cognitivi e gli stili di apprendimento,
  5. la meta cognizione ed il metodo di studio,
  6. le emozioni e le variabili psicologiche nell’apprendimento,
  7. la valutazione, la verifica ed il feedback.

La scuola inclusiva è quella in cui tutti, ma proprio tutti, raggiungono il massimo grado possibile di apprendimento; la società inclusiva è quella in cui tutti, ma veramente tutti, vivono in armonia la piena partecipazione sociale.

Bullismo e cyberbullismo

Numerosi autori e ricercatori si sono interessati nell’ultimo decennio, sia a livello nazionale che internazionale, del bullismo a scuola. I connotati salienti del bullismo possono essere sintetizzati in: intenzionalità delle molestie, la loro reiterazione e l’asimmetria del potere all’interno della relazione bullo-vittima. I primi studi sul bullismo risalgono agli anni ’70 e in una prospettiva sociologica e psicologica si riscontrano quasi sempre le stesse caratteristiche. Lo psicologo Dario Bacchini definisce i bambini e gli adolescenti dei nostri giorni sempre più arrabbiati, annoiati, fragili emotivamente, bisognosi di protezione, presentando cosi contemporaneamente le caratteristiche di prepotenti e vittime. Ne consegue un ruolo mutato anche della famiglia che adotta stili educativi tolleranti, dove si cerca di ottenere il consenso più che l’obbedienza, che concede ampie autonomie ai figli e che ha un ridotto controllo sul loro tempo libero.

I bambini di oggi hanno due famiglie, quella naturale e quella del gruppo di amici; quest’ultima ha un’influenza e un potere decisionale molto superiore a quella della famiglia naturale. Il gruppo pur essendo un’organizzazione sociale rilevante per la costruzione dell’identità del soggetto nelle varie fasi evolutive, può rappresentare anche un enorme potenziale di rischio e diventare deviante e cattivo.

Il bullismo comporta un coinvolgimento di tutti gli alunni della classe che, seppure in ruoli diversi da quello del bullo legittimano e fortificano, diventando complici, l’atteggiamento del bullo. Secondo lo psicologo statunitense Daniel Goleman i nuovi bambini sono carenti di intelligenza emotiva, incapaci di compartecipazione  affettiva e quindi impossibilitati a provare empatia necessaria alla comprensione tra gli esseri umani.

Un accenno va anche al cyberbullismo, cioè una forma di bullismo che viene esercitato attraverso i mezzi elettronici come e-mail, facebook, youtube, e l’uso di telefoni cellulari. Spesso, questo tipo di comportamento, è affiancato a quello tradizionale o è espresso in forma anonima. Vi sono varie forme di cyberbullismo come: harassment, cyberstalking, denigrazione, outing estorto, impersonificazione ed esclusione.

Per far fronte a questo fenomeno e in generale a tutte le forme di abuso, il  Parlamento ha promulgato la L. 71/2017 per dare disposizioni, a tutela dei minori, per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo. Nella L. 71/2017 vi è l’obbligo della rimozione entro 24 ore o dell’oscuramento dei dati, su richiesta dei genitori dei minori implicati e degli interessati, se maggiorenni. Inoltre la Legge prevede l’emanazione di Linee Guida di orientamento in ambito scolastico, attraverso la formazione del personale  con la nomina di un referente per Istituto, la promozione attiva degli studenti in attività di peer education, la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti.

Viene sottolineata la necessità di assumere un particolare rigore nei confronti di comportamenti di violenza e sopraffazione nei confronti dei coetanei. La sanzione irrogata, anziché orientarsi ad espellere lo studente da scuola,  deve tendere ad un maggior coinvolgimento e responsabilizzazione dell’alunno all’interno della comunità scolastica. La scuola dovrà indicare a chi ha violato, non solo una maggiore assunzione di consapevolezza della propria condotta ma anche la volontà di adoperarsi per riparare il danno, attraverso lo svolgimento di attività di rilevanza sociale o orientate all’ interesse generale della comunità.

L’ art. 5 bis del DPR. 235/2007 introduce il Patto Educativo di Corresponsabilità che mira ad una sempre più forte  alleanza tra scuola e famiglia e vede la partecipazione di quest’ultima nella condivisione delle strategie da seguire nei casi di bullismo o cyberbullismo. Altra iniziativa è l’insegnamento obbligatorio di Cittadinanza e Costituzione, per una maggiore acquisizione di una coscienza civile espressa nell’adempimento dei propri doveri, nell’esercizio dei propri diritti e nel rispetto dei diritti altrui. Il Miur ha attivato delle politiche d’intervento con progetti, come “Generazioni Connesse”, tesi a realizzare programmi di sensibilizzazione sull’ uso  corretto di internet, creando una helpline per le problematiche legate alla rete, realizzando due hotline per segnalare la presenza in rete di materiale pedopornografico.

Il bullismo non sempre emerge in modo evidente agli occhi degli insegnanti, quindi è opportuno attivare appositi corsi di sensibilizzazione e formazione che aiutino a cogliere i segnali di disagio connessi al bullismo. E’ importante affrontare la questione in classe aprendo finestre d’aiuto, anche garantendo l’anonimato e soprattutto creare diffuse occasioni di ascolto. Concludo con una frase dello scrittore Davide Rondoni che in un articolo pubblicato da “Il Tempo”, afferma che “Occorre voler bene. Cioè occorre per sé e per i propri figli, desiderare la libertà. Quella vera, che fa amare con ardore e tenerezza la vita” e in quest’ottica bisogna allontanarsi dagli atteggiamenti di sopraffazione tendendo la mano ai più deboli.

Inclusione a metà…

La scuola italiana è la più democratica ed inclusiva d’Europa. Ma questo basta per parlare di una vera inclusione?

L’Italia, a differenza degli altri Paesi Europei, può sicuramente vantare una grande esperienza, in tematiche come l’integrazione e l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Eppure rimane nella collettività, la convinzione che l’impianto normativo, pur illuminato, non sia stato sufficiente al fine di sviluppare reali  condizioni per una vera inclusione sociale dei soggetti con disabilità. L’inclusione scolastica, eccellenza italiana in Europa, rischia infatti ogni giorno, di essere svuotata, a causa delle politiche di contenimento dei costi. Il senso di abbandono e di solitudine delle persone con disabilità e delle loro famiglie è in continuo aumento, malgrado i grandi cambiamenti ed i progressi  culturali avuti nel corso degli anni.

Recentemente i ricercatori hanno condotto una rilevazione nelle Asl italiane,  per fornire una mappa sui servizi riabilitativi e socio sanitari integrati sui quali possono contare i disabili italiani. Hanno poi confrontato l’offerta di tali servizi e le strategie adottate con quattro Paesi europei: Spagna, Inghilterra, Francia e Germania. È emerso che l’Italia spende poco rispetto agli altri e pur vantando un sistema scolastico inclusivo, che annulla la diversità e la disabilità tra i banchi di scuola, non riesce a sostenere tali soggetti nel lungo percorso della vita.   La disabilità, al di fuori delle mura della scuola diventa soprattutto un problema di assistenza, rispetto ad altri Paesi europei, che pur adeguandosi più tardi all’idea di realizzare una società davvero inclusiva, hanno poi puntato maggiormente sulle pari opportunità, l’uguaglianza, l’eliminazione delle discriminazioni in tutti i settori, non solo in quello scolastico.

Dopo la scuola, dunque, il processo d’inclusione si blocca, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento lavorativo  e la qualità dei servizi offerti alle persone con disabilità ed ai loro familiari. A bloccare l’inclusione è dunque la politica del risparmio?

Osservando il percorso normativo italiano è evidente che la mancata realizzazione di una società che includa e non escluda i diversamente abili, non è dovuta certamente all’assenza di leggi idonee. Il nostro paese già nel lontano 1923 era, per quanto concerne la legislazione scolastica, all’avanguardia sul tema dell’integrazione dei soggetti portatori di handicap o diversamente abili. Infatti, mentre in altri paesi il superamento dei percorsi differenziati e delle classi speciali ha fatto e fa tuttora fatica a scomparire, in Italia l’abolizione delle classi differenziali si ha con la L. 118/71 e successivamente con la Legge 517/1977 si individuano modelli didattici flessibili con i quali attivare forme di integrazione trasversali, esperienze di interclasse o attività organizzate per gruppi di alunni, affidati ad insegnanti specializzati.

Dalla Riforma Gentile, che estese l’obbligo scolastico anche agli alunni ciechi e sordi, si passò nel 1933 alle classi differenziali per alunni con lievi deficit cognitivi e alle scuole o istituti speciali per i casi più gravi, che addirittura permettevano soggiorni in luoghi lontani dalle famiglie. Ci troviamo in un periodo storico che escludeva totalmente tali soggetti dalla società;  chi non ricorda lo sterminio del progetto nazista? Fin dall’antichità la disabilità veniva dunque vista come deformità o deviazione rispetto all’ integrità della persona umana, come ritardo o come inferiorità.

La storia della disabiltà è tutta racchiusa in questi due termini: minorati e diversamente abili. Mentre la società li riteneva minorati, la scuola invece avviava un lento ma importante cambiamento verso l’integrazione. Fino alla fine degli anni ’60 infatti, la logica prevalente era quella della separazione: l’allievo disabile veniva percepito come un malato da affidare ad un maestro-medico e come potenziale elemento di disturbo. Ma dal  1971 in poi, con la Legge n.118, si inizia a pensare all’inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo. L’allievo con disabilità, che fa il suo ingresso nelle classi comuni, deve però sapersi adeguare al contesto. Si fa strada il concetto di integrazione, riferito a tutti gli alunni diversamente abili e si cominciano a progettare interventi educativi individualizzati e finalizzati al pieno sviluppo della personalità degli alunni.

Nel 1977 tutti gli studenti con disabilità vengono così integrati nelle scuole comuni e si assiste all’abolizione delle classi speciali, alla nascita di modelli didattici flessibili e ad insegnanti specializzati.  Ma è sicuramente la L. 104/1992, LEGGE QUADRO per l’integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità a rappresentare una vera innovazione in materia di diritto allo studio dei disabili. L’obiettivo dell’integrazione scolastica viene ampliato e si giunge, dunque, finalmente ad una legge quadro, organica, che riordina gli interventi e non si concentra solo sull’assistenza ma anche sull’integrazione e sui diritti dei disabili.

L’obiettivo del legislatore è infatti quello di promuovere la massima autonomia individuale e l’integrazione scolastica viene propugnata per tutti e per ogni ciclo scolastico, compresa l’Università. Un aspetto centrale ed innovativo riguarda anche  la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi e sportivi, perché una reale integrazione poggia le sue basi sul coinvolgimento di tutto il territorio e la cittadinanza. Si inizia a parlare di diversità come valore e di conseguenza a rendere ciascun soggetto con disabilità protagonista della propria vita, in ogni suo aspetto, in vista di un progetto di vita futuro.

Con la legge 53/2003 e con il concetto di personalizzazione viene data ancora un’altra opportunità alla disabilità, in quanto la personalizzazione diviene elemento essenziale della costruzione dei processi di apprendimento, intesa come la realizzazione di percorsi diversi all’interno del curricolo della classe, percorsi che devono rispondere a precisi bisogni formativi dell’individuo, mettendo al centro del programma scolastico non le discipline tradizionalmente intese, ma l’alunno e quindi nel nostro caso specifico l’alunno diversamente abile che necessitava in certi casi di una personalizzazione degli apprendimenti.

Nel 2009 viene ratificata la CONVENZIONE ONU per i diritti delle persone con disabilità e viene introdotto il concetto di INCLUSIONE. Oggi, il termine “integrazione” scolastica è stato ormai racchiuso e sostituito dal termine “inclusione”: intendendo con questo il processo attraverso il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, studenti, insegnanti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di un ambiente che risponde ai bisogni di tutti i bambini e in particolare dei bambini con bisogni speciali.

Non è più l’allievo ad adattarsi al contesto ma il contesto che tiene conto delle sue difficoltà. Successivamente vengono emanate ulteriori  leggi che approfondiscono la tematica sull’inclusione: la L. 170/2010 per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento  e viene introdotto il concetto di BES, alunni con bisogni educativi speciali dalla Direttiva ministeriale del 2012, proseguita con la C.M. 8 del 2013 tra cui rientrano anche gli alunni con disabilità certificati dalla L. 104/1992. La disabilità ha acquisito oggi più visibilità grazie al maggiore interesse alla tematica, ma in realtà essa si presenta come una costante nella storia del genere umano ed è per questo che non va considerata in maniera negativa bensì come una risorsa per tutti noi.

Una società che parla di inclusione non può dunque escludere i diversamente abili dal loro progetto di vita, rilegando alla sola scuola il compito di abbattere le barriere mentali e lavorare per l’inclusione e la L.107 del 2015 e il Dlgs 66 del 2017 – Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità – non possono restare semplicemente l’ultima novità  nell’ ambito dell’inclusione di tali soggetti.

Cosa  cambia di concreto con l’ultimo intervento legislativo in materia di inclusione e quali sono novità del Dlgs 66/17? Alcune di queste novità modificano significativamente il dettato della L. 104/92.  Ma basteranno per la vera inclusione dei futuri studenti con disabilità?

Il problema in realtà, non sarà tanto la creazione di una scuola inclusiva, quanto l’inserimento di tali soggetti in una società che purtroppo non possiamo ancora definire tale. Nell’età adulta, le politiche di inclusione sociale riguardano, anche l’aspetto occupazionale, oggi purtroppo ancora carente. E’ importante dunque, che si crei una vera e propria alleanza educativa che coinvolga tutti i soggetti interessati, dalla famiglia agli Enti locali perché la vera inclusione necessita ancora di comportamenti strategici e di coordinamento delle risorse economiche, finanziarie, strutturali e  professionali non solo di una buona organizzazione e gestione del sistema scolastico.

Una scuola per tutti…

Parlare di scuola come ambiente di apprendimento porta a prendere in considerazione due aspetti fondamentali: il primo è la dimensione cognitiva che attiene alla scuola in quanto produttrice di apprendimento, il secondo è la dimensione emotiva che attiene alla scuola in quanto ambiente sociale  in cui l’apprendimento si verifica.

La scuola italiana, secondo le Indicazioni Nazionali del 2012, sviluppa la propria azione educativa in coerenza con i principi dell’inclusione delle persone e dell’integrazione delle culture, considerando l’accoglienza della diversità un valore irrinunciabile. Attraverso specifiche strategie e percorsi personalizzati, favorisce la prevenzione e il recupero della dispersione scolastica e del fallimento formativo precoce, attivando iniziative in collaborazione con Enti locali e le agenzie educative presenti nel proprio territorio.

Il D.M. 254 del 2012 dedica un paragrafo e un capitolo all’importanza degli ambienti di apprendimento. Nella parte dedicata alla scuola dell’infanzia si legge che il curricolo si esplica in un’equilibrata integrazione di momenti di cura, di relazione, di apprendimento, dove le stesse routine svolgono una funzione di regolazione dei ritmi della giornata offrendosi come base sicura per nuove esperienze e nuove sollecitazioni. L’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione, l’azione, il contatto con gli oggetti, la natura, l’arte, il territorio, in una dimensione ludica, da intendersi come forma tipica di relazione e di conoscenza.

Nella parte dedicata alla scuola del primo ciclo, il documento, pone al centro la persona che apprende. Promuovendo un percorso di attività nel quale ogni alunno possa assumere un ruolo attivo nel proprio apprendimento, sviluppando al meglio le proprie inclinazioni, curiosità, consapevolezza di sé, costruendo un proprio progetto di vita. Viene sottolineata la dimensione comunitaria dell’apprendimento, si parla di aiuto reciproco, di apprendimento cooperativo e di apprendimento tra pari.

Negli ultimi  anni, in maniera graduale, si è passati dal paradigma dell’insegnamento (classi tradizionalmente intese con i docenti in cattedra e i discenti tra i banchi) a quello dell’apprendimento per scoperta( spazio aperto sul mondo).  Non più una visione incentrata sull’insegnamento, ma un’attenzione sul soggetto che apprende e quindi sui suoi processi (dal teaching centered al learning centered). Oggi i docenti hanno un ruolo fondamentale, in questa nuova prospettiva, dovendo far evolvere le classi in comunità che apprendono e in comunità di pratiche.

Stiamo assistendo a  rapidi cambiamenti nelle nuove tecnologie che pongono  alle scuole nuove e difficili sfide. Uno degli obiettivi di miglioramento è trasformare l’aula in un ambiente di apprendimento innovativo e interattivo, in cui gli studenti siano protagonisti.  È convinzione comune, infatti, che un ambiente di apprendimento ottimale garantisce una gestione costruttiva della classe, un aumento di interesse e maggiori motivazioni negli studenti. In questo nuovo scenario il docente è chiamato a svolgere un ruolo di facilitatore, con il compito di supportare e stimolare gli allievi, affinché in maniera autonoma questi possano determinare i propri obiettivi di apprendimento, scegliere le attività da svolgere, accedere alle risorse informative e agli strumenti messi a disposizione nell’ambiente di lavoro.

Per poter realizzare «una crescita sostenibile, intelligente ed inclusiva» (Europa 2020) si rende necessario organizzare, quindi, una didattica che integri linguaggi, strumenti e contenuti in nuovi quadri d’insieme. Le tecnologie digitali sono di grande supporto per il docente, che assume sempre più il volto di un «co-designer dell’apprendimento». Esse sono parte integrante degli attrezzi che mediano la relazione tra docente e discente, veicolano informazioni e saperi mettendo l’insegnante in condizione di porre in atto una didattica multimediale. Talvolta il supporto tecnologico risulta indispensabile all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni con disabilità.

Secondo il modello ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento della Salute e della disabilità) ogni persona si situa all’interno di un continuum di funzionamento a seconda dell’incontro tra le sue caratteristiche personali e le caratteristiche del contesto in cui vive. Ovvero, non esiste una netta distinzione tra la normalità e la patologia, esistono dei diversi livelli di funzionamento che dipendono dalle caratteristiche interne di ogni individuo e il tipo di contesti ambientali nei quali la persona vive.

Secondo una logica inclusiva la sfida è quella di strutturare interventi mirati e specifici, per una scuola che lavora sul contesto al fine di promuovere un’educazione per tutti, in una prospettiva ICF bio-psico-sociale, dove il concetto di «salute» supera il significato della semplice assenza di malattia per abbracciare il concetto di benessere bio-psico-fisico. Bisogna pensare la scuola, i suoi spazi, e i suoi tempi avendo come focus un approccio didattico globale, una didattica inclusiva.

Non più il ragazzo con la sua disabilità (che creerebbe discriminazione), ma tutte le condizioni educative che rendono la classe scolastica ambiente ospitale, accogliente, per TUTTI. Un ambiente dal punto di vista didattico capace di essere strumento in grado di promuovere gli apprendimenti in maniera differenziata, attento alla promozione e alle potenzialità di ognuno. Il contesto ambientale, quindi, può rappresentare una grande facilitazione se riesce a venire incontro al funzionamento della persona e limitarne o minimizzarne le difficoltà. La scuola si pone nei confronti di chi vi entra, siano essi alunni, personale scolastico o genitori, o come una facilitazione o come un ostacolo. Una scuola inclusiva cerca di diventare sempre più una scuola che trasforma i contesti in modo da renderli accessibili a tutti,  non solo da un punto di vista strutturale. Una scuola per tutti!

Chi sono gli alunni stranieri?

I minori stranieri, come quelli italiani, sono innanzitutto persone e in quanto tali, titolari di diritti e doveri che prescindono dalla loro origine nazionale.

L’Italia è stata tra i cinque Paesi, insieme a Germania, Grecia, Svezia e Ungheria, cui è stato chiesto di presentare le politiche educative in questo ambito e avviare un confronto di idee costruttivo. Negli ultimi 10 anni, nel nostro Paese si è avuto un forte aumento del numero totale degli alunni stranieri con cittadinanza non italiana: nel 2005/2006 il loro numero superava appena le 400.000 unità; nel 2014/2015 risultava quasi raddoppiato, raggiungendo circa le 830.000 unità.

Il Miur ha pubblicato nel febbraio 2014 le linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri nelle scuole italiane. La tutela di accesso del minore all’educazione scolastica trova le sue fonti normative nella legge sull’immigrazione n° 40 del 6 Marzo del 1998 e nel decreto 286 del 26 Luglio 1998. L’autonomia scolastica (275/99) ha poi consentito di affrontare con soluzioni flessibili le problematiche specifiche sull’immigrazione adattandole ad ogni scuola. L’istituzione scolastica infatti, occupa un ruolo centrale per la costruzione di regole comuni e rispetto della convivenza civile.

Le nuove indicazioni nazionali ed i nuovi scenari richiamano l’attenzione sull’importanza dell’inclusione vista come intercultura e crescita del bambino. L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione che quella di una convivenza formata da comunità chiuse tra di loro.

Ma chi sono gli alunni stranieri e come dovrebbero comportarsi le scuole secondo le indicazioni nazionali?

  1. Alunni nati in Italia ma con cittadinanza non italiana (genitori non italiani); a questa tipologia di alunni devono essere applicate le norme previste dalla legge sui cittadini stranieri residenti nel nostro paese (Ius Soli-Ius Culturae)
  2. Alunni con ambiente familiare non italofono (studenti che hanno frequentato la scuola nel paese di origine e che però vivono in un ambiente familiare dove si parla poco italiano). Questi alunni sono spesso estremamente competenti, e talvolta alfabetizzati, nella lingua d’origine della famiglia perché hanno frequentato la scuola nel Paese d’origine, o perché studiano la lingua con l’aiuto dei genitori o di associazioni gestite all’interno di ciascuna comunità. Queste competenze vanno tenute in grande considerazione perché aiutano a combattere l’insicurezza linguistica e agevolano considerevolmente i processi cognitivi legati all’acquisizione dei meccanismi di letto-scrittura in italiano
  3. Minori accompagnati (alunni provenienti da altri paesi che si trovano per qualsisasi ragione nello stato italiano privi di assistenza e rappresentanza). Per il loro inserimento si dovrà tenere conto che, a causa delle pregresse esperienze di deprivazione e di abbandono, anche le competenze nella lingua d’origine – oltre a quelle in italiano – potranno risultare fortemente limitate rispetto all’età anagrafica dell’alunno, rendendo necessaria l’adozione di strategie compensative personalizzate.
  4. Alunni figli di coppie miste (papà della stessa nazione e mamma italiana o viceversa).  Le loro competenze nella lingua italiana sono efficacemente sostenute dalla vicinanza di un genitore che, di solito, è stato scolarizzato in Italia,  ottimo per bilinguismo.
  5. Alunni arrivati per adozione internazionale. Per l’inserimento scolastico di questi bambini sono da prevedere interventi specifici e percorsi personalizzati, sia in considerazione di eventuali pregresse esperienze di deprivazione e abbandono, sia per consolidare l’autostima e la fiducia nelle proprie capacità di apprendimento.
  6. Alunni rom, sinti e caminanti, questi bambini presentano molteplici differenze di lingua, religione, costumi. Una parte di essi proviene dai paesi dell’Est Europa, anche da paesi membri dell’UE, spesso di recente immigrazione e non possiede la cittadinanza italiana. Lavorare con alunni e famiglie rom, sinti e caminanti richiede molta flessibilità e disponibilità ad impostare percorsi di apprendimento specifici e personalizzati, che tengano conto del retroterra culturale di queste popolazioni. Una lunga esperienza delle scuole ha consolidato molte buone pratiche con tale approccio.

Alcune novità in tema d’immigrazione però arrivano anche dalla rete Eurydice (Rete europea d’informazione sull’istruzione). La scorsa primavera è partito uno studio sugli alunni immigrati nelle scuole europee che ha messo in luce anche per l’Italia un coinvolgimento maggiore  per gli studenti che arrivano nella nostra nazione ad anno in corso. La lingua L2 che prima era considerata come una ‘buona conoscenza’ da parte dell’alunno, ora diventa ‘fondamentale’ visto l’aumento esponezniale degli stranieri nel nostro territorio. Permane in ogni caso il limite del 30% di alunni non italiani sul totale iscritti al fine di equilibrare la distribuzione dei ragazzi con cittadinanza non italiana fra scuole di uno stesso territorio.

BES e non… includiamo?!?!

Mi permetto di proporre alcune riflessioni in riferimento al dibattito in corso nel mondo della scuola e degli ambienti pedagogici sulla questione dei cosiddetti “bisogni educativi speciali” che ha trovato una sua esplicita formalizzazione nei documenti del Miur di dicembre 2012 e marzo 2013. Considero la questione estremamente delicata e complessa ma anche importante poiché è il riflesso di una concezione della scuola e di una visione della gestione delle differenze in termini di apprendimento, crescita individuale e collettiva. In sostanza ne va del modello di società che vogliamo costruire formando le future generazioni e quindi della nostra idea di democrazia. Faccio rapidamente alcune considerazioni e pongo alcuni quesiti sui quali invito il mondo della scuola ma anche dell’educazione in generale a riflettere seriamente.

I rischi della logica differenzialistica e delle stigmatizzazioni sofisticate.

Ricordo che nel 1977 con la legge sull’integrazione scolastica degli alunni disabili nella scuola di tutti si superava, almeno così si pensava allora, la logica differenzialistica delle classi differenziali , delle scuole speciali e delle sezioni ghetto. Si affermava il principio dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso all’istruzione e all’educazione predisponendo strumenti e risorse (vedi insegnante di sostegno) per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni tramite un’attività pedagogica accogliente, in grado di promuovere l’individualizzazione dei percorsi di apprendimento e l’attività di gruppo (produttrice di esperienze di socialità).

Tutto andava quindi nella direzione di lottare contro l’esclusione, la marginalizzazione e la stigmatizzazione/inferiorizzazione dell’alunno disabile. Negli anni si sono sviluppate esperienze didattiche e pedagogiche ricche di innovazione ma sono anche emersi molti limiti e tante criticità. Con una direttiva del 2010 il ministero pone la questione degli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia); si promuovono corsi di formazione per insegnanti (curriculari e di sostegno).

Comincia a porsi una domanda: se è giusto essere attenti al fenomeno dei DSA non v’è il rischio di una identificazione rapida tra difficoltà di apprendimento e disturbi specifici? Non v’è anche il rischio di accentuare lo sguardo clinico-diagnostico a scapito dello sguardo pedagogico che dovrebbe essere quello dell’insegnante? Abbiamo anche visto gli alunni con ADHD (sindrome da deficit di attenzione e iperattività); anche qui una nozione e categoria ambigua e molto discussa: cosa vuol dire? Chi sono?

Quale attenzione pedagogica da parte dell’insegnante (una volta lo psicopedagogista francese Henri Wallon parlava di “bambino turbolento”; si capisce che dire turbolento e dire iperattivo non è la stessa cosa, non è lo stesso sguardo; il primo colloca la questione nell’ambito educativo, il secondo in quello clinico-sintomatologico).

Adesso abbiamo i BES: chi sono? In parte si riprendono alcune categorie precedenti e si aggiungono:

  • gli alunni con difficoltà di apprendimento (quale alunno non presenta difficoltà di apprendimento?),
  • gli alunni con disagio psico-sociale (la povertà sociale è un problema?),
  • quelli con difficoltà linguistico culturali (l’essere figlio/a d’immigrati è un problema?),
  • gli alunni con un ‘funzionamento intellettivo limite’ (cosa vuol dire esattamente?).

Insomma un’ulteriore categoria insieme ambigua, generica e anche funzionale al paradigma clinico-diagnostico-terapeutico che sta colonizzando culturalmente la scuola e la società. Faccio notare che le categorie usate non sono per niente neutrali e che mentre la logica differenzialistica tende a produrre e riprodurre diseguaglianze (stigmatizzazioni sofisticate), il riconoscimento delle differenze passa tramite un’azione pedagogica basata sul principio di eguaglianza nell’accesso ai saperi e alle conoscenze. Insomma la logica differenzialistica delle categorizzazioni continue non ha nulla a che fare con il riconoscimento delle differenze.

Quale inclusione?

Anche sulla questione dell’inclusione occorre confrontarsi e chiarire meglio di cosa stiamo parlando. Per anni si è parlato di integrazione, in particolare in riferimento all’integrazione scolastica e sociale degli alunni con disabilità (distinguendo la disabilità-prodotta da un deficit sensoriale, motorio, intellettivo dall’handicap prodotto o conseguenza socio-culturale, ostacoli generati dalla società nell’interazione con il soggetto con disabilità); si diceva che fosse importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e formative in grado di rimuovere barriere e ostacoli. Di modificare tramite la mediazione dell’azione educativa pregiudizi e situazioni produttrici di esclusione, autoesclusione e stigmatizzazione/interiorizzazione.

Poi da alcuni anni si è cominciato a parlare d’inclusione, precisando che si voleva sottolineare che il cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco (soggetto e ambiente). Troviamo queste considerazioni già nei lavori dello psicopedagogista sovietico Lev Vygotskij che parla di mediazioni: quello che oggi vengono definite con le espressioni strumenti compensativi e dispensativi (uso di tecniche, ausili e di accompagnamento e supporti). Produrre esperienze di apprendimento mediato per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni, appunto in una prospettiva d’integrazione e/o d’inclusione. Ma sorge un dubbio: se il concetto d’inclusione è strettamente connesso agli indirizzi proposti sui cosiddetti Bes si muove nella direzione del differenzialismo, allora cosa vuol dire includere?

Un concetto chiave rimane quello di adattamento funzionale. Quindi si tratta di adattare, per il bene dell’alunno “Bes”, di “normalizzare”, di “curare”, di “riparare”. Ma a questo punto non si rischia di riprodurre le diseguaglianze che si dichiara di volere combattere? Non si rischia di fornire una giustificazione “scientifica” all’esistenza, purtroppo reale, delle sezioni ghetto nelle scuole, e, quindi, di riprodurre la logica delle classi differenziali? Nei documenti del ministero si parla della valutazione dell’inclusività delle scuole: ma chi si occuperà di questa valutazione? Quale formazione e competenze avranno i valutatori? Quali criteri di valutazione saranno utilizzati? Non vorrei che i criteri (diffusi nei sistemi di valutazione PISA) usati (successo scolastico, abbandono e dispersione scolastica, autofinanziamento, progettualità approvate e realizzate) finissero per penalizzare ulteriormente le scuole delle periferie, le scuole povere dei quartieri emarginati, le scuole collocate nelle zone ad alta presenza di immigrati…

Vorrebbe dire riprodurre e accentuare le diseguaglianze e essere in contraddizione con il detto costituzionale della Repubblica italiana. Sono quesiti posti sia sul piano della riflessione filosofica, pedagogica e sociologica da eminenti studiosi e pensatori come il tedesco Jurgen Habermas (l’inclusione dell’altro) e il francese Charles Gardou (la società inclusiva). Inoltre si pone anche la questione della relazione e del tipo di collaborazione tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno, ma anche quella del rapporto tra scuola, famiglie e territorio: è quello che, nei loro recenti lavori, dei colleghi belgi come J.P. Pourtois, H. Desmett e B. Humbeeck chiamano “processi co-educativi”: come si costruisce l’alleanza co-educativa tra i diversi attori della comunità? Come si può attivare e realizzare insieme dei processi di emancipazione che garantiscono la giustizia nei processi di apprendimento?

Didattica o didatticismo? La marginalizzazione della pedagogia

La gestione del gruppo classe e l’organizzazione degli apprendimenti sono due aspetti fondamentali dell’attività docente. La tendenza va sempre di più (lo si vede nella formazione stessa del personale docente) nella direzione delle procedure didattiche, della tecnologia didattica, dell’uso degli strumenti; si sostituisce la didattica come processo vivo (che implica la relazione complessa tra docente, alunni, metodi, strumenti, comunità scolastica) con il didatticismo inteso come procedura.

Interessante notare che la figura dell’alunno come soggetto significante del processo d’insegnamento/apprendimento è assente. Se è presente lo è solo come fonte di problemi. Il rischio è di vedere l’insegnante diventare un operatore della diagnosi e della procedura tecnica per valutare la performance dell’alunno in termini stretti d’istruzione (come se istruzione e educazione non fossero interconnesse in modo vivo nell’esperienza in classe). La pedagogia (quindi la formazione pedagogica dell’insegnante che dovrebbe andare a caccia di risorse, capacità, potenzialità e non di “comportamenti problema”) viene marginalizzata nella cultura scolastica e colonizzata dallo sguardo di una certa psicologia clinica. Non a caso i documenti ministeriali non fanno praticamente mai riferimento alla lunga e ricca esperienza delle pedagogie attive e dell’educazione nuova; ancora meno di quelle prodotte dalla pedagogia speciale.

Quale modello organizzativo, quale politica? Logica burocratica o democratica?

Si parla di docenti esperti e preparati sui “BES”, si parla di Centri territoriali per l’inclusione: ma cosa vuol dire in modo preciso? Chi saranno questi docenti esperti dei BES? Quale formazione avranno? Quali compiti e competenze? Che fine faranno gli insegnanti specializzati o di sostegno? Vediamo in tutto questo una risposta tecnocratica-burocratica ad una questione di ordine culturale, pedagogica e sociale; di nuovo vediamo una scuola e un corpo docente deprivato del proprio protagonismo, della possibilità di partecipare all’analisi e anche all’elaborazione di proposte concrete per favorire l’effettiva eguaglianza delle opportunità per tutti gli alunni nell’accesso all’istruzione e all’educazione.

V’è bisogno del contributo degli insegnanti che ogni giorno attivano delle esperienze pedagogiche e didattiche nelle loro classi, che ogni giorno affrontano la complessità e le difficoltà del mestiere dell’insegnante in una società sempre più atomizzata e individualistica. Gli alunni portano a scuola le contraddizioni che vivono nelle loro famiglie e che nascono da una società che fa di ognuno un consumatore-spettatore e non un soggetto responsabile consapevole del legame tra individualità e comunità, tra diritti e doveri, tra desideri personali e bene comune. Gli insegnanti vanno coinvolti non come destinatari di indagini predisposte da pool di esperti, non come meri esecutori di direttive ministeriali o di tecniche specializzate ma come attori/autori in grado di produrre senso e di fornire, tramite la loro pratica, proposte e indicazioni per un rinnovamento della nostra scuola repubblicana.

Mi fermo qui. Sono solo alcuni spunti di riflessione; sono convinto che occorre rimettere al centro l’azione pedagogica e promuovere un autentico confronto dando voce agli operatori della scuola, agli insegnanti, agli educatori, ma anche agli alunni e ai genitori che spesso si trovano a dovere fare delle scelte senza capire di cosa si sta parlando. Ne va del futuro dei nostri figli, della scuola della Repubblica e anche del futuro della democrazia in questo paese.

Il dirigente scolastico: leader e artefice del processo di inclusione?

La società in cui viviamo presenta peculiarità di complessità che non sempre sono facili da decifrare e comprendere. Indiscutibilmente, essa si evolve e trasforma i suoi assetti con un ritmo più convulso rispetto al passato. É rilevante evidenziare le attuali esigenze educative per compararle con le realtà didattiche in atto e le linee di evoluzione presenti. La vera disfida concerne l’abilità del sistema scolastico di riuscire a mantenere il passo con il cambiamento sociale, l’apporto che la formazione scolastica può dare alla costruzione di cittadini attivi e consapevoli, il nesso tra l’istruzione scolastica e i bisogni individuali e sociali: in concreto, il legame tra scuola e realtà. É anche vero che la trasformazione è radicata con l’esperienza umana; il compito educativo è governare tale trasformazione alla luce di un progetto esistenziale e dei valori che lo ispirano.

Nello specifico, il tema dell’inclusione scolastica, in questo momento storico, diventa un argomento rilevante per le istituzioni sociali: la scuola e la famiglia. Il concetto di inclusione, avendo a che fare con le persone, con le diversità e con il superamento delle barriere all’apprendimento e alla partecipazione, sottace un processo dinamico in continua evoluzione. Il suo raggio di azione non si limita alla disabilità e ai bisogni educativi speciali, ma va oltre, abbraccia l’isolamento o le esclusioni derivanti dalla classe sociale, dallo svantaggio socio-economico, dalla razza, dal sesso e da altri fattori. Si occupa di pari opportunità, di diritti umani, di etica e altri concetti spesso difficili da tradurre in fatti concreti. Ed è per questa ragione che negli ultimi decenni l’inclusione è diventata uno dei principali temi di interesse per l’affermazione di diritti civili e sociali.

Le pratiche per l’inclusione degli alunni con Bisogni Educativi Speciali implicano attenzione e impegno da parte dei vari soggetti con funzioni di sostegno e intervento mirato ai più diversi livelli, nell’ottica di un coinvolgimento condiviso e responsabile in politiche educative, scolastiche, sanitarie e sociali coerenti e coordinate fra loro.

Nel mondo della scuola, il lavoro di promozione, di mediazione e di messa in atto di specifiche attività è prerogativa del Dirigente scolastico che, attraverso il coinvolgimento di tutta l’organizzazione-scuola, garantisce o meno la buona riuscita dell’inclusione dell’alunno con bisogni speciali. Il processo di inclusione deve incentrarsi sul progetto educativo da costruire, però, in collaborazione con tutti gli attori della comunità scolastica vista come comunità educante ed inclusiva.

Quanto e cosa può fare un leader educativo di fronte ai Bisogni Educativi Speciali? Emerge, dunque, la consapevolezza di considerare determinante il ruolo del dirigente scolastico nella promozione di una cultura dell’inclusione e della conseguente valutazione della stessa, che dimostri la capacità di riflettere sui dati di contesto e di saperli interpretare per il miglioramento, di coltivare la dimensione di senso delle decisioni e delle azioni per lo sviluppo culturale, pedagogico, gestionale e organizzativo di una scuola che possa dirsi inclusiva.

Alla luce dei più recenti studi psicopedagogici e didattici, i progressi in ambito educativo, la sempre maggiore presenza a scuola di alunni con bisogni educativi speciali, il diritto all’integrazione come valore ormai condiviso, i servizi esistenti sul territorio, l’apertura del mondo del lavoro ai disabili, devono rappresentare una base fondamentale per ulteriori conquiste civili e sociali, legate soprattutto al problema della competenza e della professionalità di coloro che si occupano del bene comune, che lavorano in posti di responsabilità sociale ed educativa, di coloro che soprattutto gestiscono il percorso formativo degli alunni con bisogni educativi speciali.

Con la Legge 59/97, le istituzioni scolastiche hanno acquisito personalità giuridica, ed autonomia organizzativa e didattica, esercitabile nei limiti della legge e nel rispetto dei principi di logicità e congruità in modo da evitare atti caratterizzati da disparità di trattamento quali potrebbero essere, in primo luogo, la mancata partecipazione di tutte le componenti scolastiche al processo di integrazione finalizzato alla costruzione di un progetto di vita che consenta agli alunni con bisogni educativi speciali di “avere un futuro”.

In particolare, i Principi Guida per promuovere la qualità della scuola inclusiva, nel 2009, definiscono le pari opportunità in termini di educazione, come partecipazione concreta e accesso reale alla formazione, non come una semplice “socializzazione in presenza”. Quello che diventa importante, al di là degli interventi e delle risorse, umane e strumentali, di cui una scuola dispone, che potranno essere più o meno vicine agli indicatori di qualità della formazione inclusiva, è la promozione di una cultura, di un atteggiamento inclusivo, delle convinzioni profonde, degli atteggiamenti e della disposizione professionale di quanti operano nella scuola, in primo luogo, del dirigente scolastico.

Per quanto attiene alle caratteristiche di una scuola inclusiva, il documento della European Agency for Development in Special Needs Education, fornisce indicazioni preziose non tutte indirizzate alla sola classe docente. Si tratta di “raccomandazioni politiche”, quindi rivolte a chi deve prendere decisioni di indirizzo e controllo del sistema, non solo agli attori del sistema stesso. In ogni caso, la complessità del progetto di inclusione di una istituzione scolastica pone la necessità di poter contare su squadre multidisciplinari, formate da specialisti di diverse competenze e settori. In queste squadre dovrebbero essere presenti anche i genitori: le sfide complesse si vincono se si è in grado di ampliare gli spazi d’azione e le prospettive di soluzione.

Il decentramento amministrativo, la riforma delle autonomie locali e della Pubblica Amministrazione, il riconoscimento dell’autonomia alle scuole, stanno cambiando le prospettive e chiedono con sempre maggiore urgenza di formare reti locali per la soluzione dei problemi. La necessità di stabilire accordi, intese, reti e, soprattutto, collaborazioni reali con gli enti del territorio e le famiglie rientra nello spazio di azione proprio del dirigente scolastico.

Dal punto di vista organizzativo, le scuole devono dotarsi di strumenti di gestione dell’inclusività, sia per rendere trasparenti le politiche di inclusione adottate, (premessa questa per la collaborazione anche con le risorse esterne), sia per fornire un quadro comune sul quale poi riflettere per migliorare le azioni di intervento. Strumenti di gestione del processo di inclusione, di cui si farà carico il dirigente in prima persona affinchè trovino piena attuazione, sono:

– Sezione del P.T. O.F. che riguarda in modo specifico il Piano Annuale per l’Inclusività;

– Profili di personalizzazione;

– Modalità di gestione del processo di individuazione e segnalazione dei bisogni educativi speciali;

– Modello di PDP in uso nell’istituto.

Facendo riferimento alla dimensione inclusiva dell’istituzione scolastica che si trova a coordinare, il dirigente scolastico dovrebbe:

  1. Promuovere una cultura dell’inclusione: per implementare questo obiettivo si devono sviluppare piani di formazione professionale che siano il più possibile estesi e generalizzati a tutto il personale. Non si potrà pensare di aumentare il grado di diffusione della didattica inclusiva se non si interviene sulle metodologie di insegnamento, se non si convincono i docenti a modificare le prassi didattiche.
  2. Sviluppare sostegni all’inclusione orientati al sistema: l’insegnante può molto, ma da solo non potrà garantire che l’alunno sia effettivamente inserito in modo produttivo in tutta l’esperienza scolastica. Per orientare la scuola verso l’inclusione, l’azione dirigenziale dovrà orientarsi non solo sulle persone, (formazione dei docenti) ma sul sistema tutto, in modo che questo possa essere predisposto per realizzare percorsi diversi in situazioni diverse e per offrire opportunità formative personalizzate organizzando, ad esempio, uno spazio-scuola che preveda attività, laboratori, strumenti e strutture che facciano da sostegno all’inclusione.
  3. Porre al centro dell’attenzione dei docenti il curricolo e la valutazione: aspetti sostanziali di ogni processo inclusivo sono la costruzione di un curricolo capace di dare indicazioni chiare in merito agli elementi essenziali della disciplina e di esprimere una sensibilità valutativa in grado di sostenere realmente lo sviluppo di tutti i soggetti in apprendimento. L’azione del dirigente deve promuovere la costruzione di un curricolo “a più velocità”, portando gli organi collegiali a ripensare le strategie valutative adottate, problematizzando le prassi, dando il giusto rilievo alle decisioni collegiali per far fronte ai problemi dei singoli, assumendo come prioritario l’impegno di rendere i processi collegiali attività sostanziali e vicine alla didattica quotidiana, non pratiche formali e burocratiche.
  4. Porre attenzione alle fasi critiche del percorso scolastico dell’alunno: per tutti i soggetti, ma in particolar modo per quelli più fragili, possono accentuarsi le problematicità nel momento del passaggio da un grado di istruzione al successivo. Sostenere questi processi di transizione è assolutamente indispensabile e deve essere sensibilità del dirigente scolastico preoccuparsi di attuare una adeguata politica di controllo sugli apprendimenti successivi degli alunni BES, soprattutto per rimodulare, se necessario, la dimensione organizzativa e metodologica della propria scuola.

Il sistema di istruzione risponde ai bisogni educativi e formativi dei giovani cittadini fino al compimento del percorso scolastico, favorendo il passaggio al mondo del lavoro e all’attuazione del progetto di vita che riguarda la crescita personale e sociale dell’alunno. Questo passaggio è particolarmente delicato per l’alunno con BES e va condiviso dalla famiglia e dagli altri soggetti coinvolti nel processo di integrazione: «Centrale diviene quindi la dimensione educativa, rivolta al disabile, agli operatori e alla rete parentale e sociale in cui il soggetto è inserito».

A tal fine il dirigente scolastico predispone adeguate misure organizzative per realizzare forme efficaci di relazioni con i soggetti deputati al servizio per l’impiego e con le associazioni.

Per rendere più efficace ed efficiente l’intervento dell’istituzione scuola nel processo di crescita e sviluppo dell’alunno disabile, il dirigente scolastico promuove la costituzione di reti di scuole, per un utilizzo più efficace dei fondi stanziati, una condivisione di risorse umane e strumentali, momenti di aggiornamento; in tal modo si dota il territorio di un punto di riferimento per i rapporti con le famiglie e con l’extrascuola. In questo panorama complesso di azioni, funzioni e buone pratiche da mettere in atto, il ruolo del dirigente scolastico promotore di azioni inclusive prevede che:

«Accanto ad una professionalità tecnica, è necessario associare una professionalità relazionale che sappia accomunare e ibridare modalità operative valide e funzionali alle diverse situazioni scolastiche, con riflessioni individuali e collegiali che valorizzino capacità personali e interazioni significative».

L’educazione interculturale: la nuova sfida per costruire una cittadinanza attiva

Le differenze culturali nella nostra società impongono un investimento sull’educazione culturale, inteso come progetto intenzionale che promuove il dialogo e il confronto rivolto a tutti, non solo agli alunni stranieri. La presenza di alunni non italiani a scuola deve diventare una risorsa, un punto di forza. Quella dell’intercultura deve essere una sfida, e la scuola tutta deve saperla rilanciare come prospettiva di innovazione educativa e didattica.

Una caratterizzazione della scuola in questa direzione consiste nel rispondere ai bisogni specifici non solo degli alunni non italiani, ma anche ai più ampi bisogni formativi della società complessa e multiculturale, che prevede una apertura delle menti ed uno sguardo non solo alle realtà locali, ma anche a quelle globali. Il progetto interculturale deve essere connesso all’educazione ai linguaggi; tutti i linguaggi, creativo, musicale, L2, motoria, ecc, devono essere considerati in chiave interculturale.

Il tempo prolungato, la curvatura musicale, teatrale, devono significare un grande punto di forza che apre la strada alle potenzialità educative anche in chiave interculturale. La scuola come contesto di educazione, oltre che di istruzione in senso stretto, offre infatti la possibilità di un lavoro serio di integrazione sociale e interculturale.

Sarebbe auspicabile dunque introdurre nei PTOF, in modo trasversale, le varie questioni inerenti l’intercultura. Alla voce “accoglienza” potrebbe essere arricchito il riferimento agli alunni di cittadinanza non italiana e alle prassi di prima accoglienza. Utile è la costituzione di una Commissione Intercultura, le cui funzioni andrebbero sommariamente delineate all’interno del PTOF.

Questo renderebbe più agevole il raggiungimento dell’obiettivo in questo modo esplicitato: “favorire la piena integrazione dell’alunno/a diversamente abile, promuovere iniziative di accoglienza e integrazione degli alunni/e stranieri, tutelandone la lingua e la cultura, anche attraverso la realizzazione di iniziative interculturali, stimolare riflessioni e attivare percorsi volti al benessere e alla tutela della salute dell’alunno/a”.

La traduzione del PTOF o di una sua sintesi nelle principali lingue d’origine degli studenti stranieri (albanese, rumeno, …), oltre che in inglese, francese, spagnolo. Sul lavoro di traduzione possono essere coinvolti gli insegnanti di lingua straniera e i genitori stranieri con buone competenze in italiano. La traduzione del POF costituisce non solo una forma di comunicazione istituzionale efficace e chiarificatrice, ma anche una prima forma di accoglienza che mira a coinvolgere genitori e alunni nella comunità scolastica, promuovendo collaborazione e partecipazione.

Nelle progettazioni curricolari è opportuno inserire riferimenti alla didattica interculturale nelle diverse aree disciplinari. Inserendo per ciascuna di essa almeno uno o due obiettivi o contenuti di questo tipo, costituisce uno stimolo per i docenti ad assumere una prospettiva interculturale e ad avviare un ripensamento del curricolo e dell’identità della scuola.

Potrebbe essere sottolineata la vocazione interculturale non solo attraverso la segnalazione di un progetto ad hoc, quanto attraverso una premessa al PTOF che potrà essere declinata all’interno di tutte le altre voci, anche quelle relative agli obiettivi tratti dalle Indicazioni Nazionali.

L’implementazione della progettualità interculturale nelle scuole può avvenire capitalizzando le esperienze di formazione del personale docente e non docente, istituendo, per esempio, la commissione intercultura. Questa commissione non va intesa come l’ennesimo organo con funzioni burocratiche, ma come laboratorio di idee e ricerca di strategie. La commissione intercultura cerca di sensibilizzare il collegio docenti sulle scelte effettuate, sulle loro motivazioni, fornendo al contempo consulenza didattica per chi prova disorientamento verso le questioni inerenti l’educazione interculturale.

Nel rispetto delle Linee guida del 2014 e delle migliori pratiche adottate, il momento dell’iscrizione va gestito attraverso un’accurata comunicazione con le famiglie, anche mediante una modulistica, una presentazione della scuola e del PTOF tradotte nella lingua d’origine, e l’individuazione del gruppo classe che meglio risponde ai bisogni dell’alunno. L’accoglienza dell’alunno nella classe va curata e gestita non solo sul piano normativo ma anche su quello didattico. La Commissione accoglienza individua e predispone a tal fine uno strumentario utile a tutti i docenti e rivolto a:

  1. raccogliere informazioni rilevanti sugli alunni (scolarizzazione pregressa, tempo libero, aspettative), anche attraverso brevi questionari bilingui (si segnalano i questionari bilingui per gli studenti migranti della casa editrice Vannini nelle seguenti versioni: italiano-cinese, italiano-albanese, italiano-rumeno, italiano-arabo, italiano-romanè, italiano-spagnolo, italiano-urdu);
  2. individuare i livelli di competenza linguistica mediante un test (sono disponibili numerosi strumenti standardizzati reperibili sul web e frutto del lavoro di altri progetti europei) utile ad ottenere dati rilevanti ai fini della progettazione educativa e didattica e a stabilire i livelli di partenza su cui lavorare;
  3. stabilire le attività dei primi giorni dell’inserimento scolastico, differenziate per i tre ordini di scuola, come ad esempio giochi di presentazione degli alunni, cartellini bilingui da apporre sugli oggetti della scuola e dell’aula, evidenziare i luoghi di provenienza mediante carte geografiche, far emergere le lingue d’origine, utilizzo dei linguaggi non verbali, ecc.

L’organizzazione dei servizi di mediazione interculturale non sempre è possibile e dipende da finanziamenti ottenuti ad hoc. Il lavoro educativo in sé per sé, tuttavia, postula la mediazione come prassi, consapevole o inconsapevole, che permette l’acquisizione dei significati, dei valori, degli apprendimenti.

La scuola dunque può lavorare per meglio esplorare le prassi della mediazione, attraverso un lavoro di riflessione e di emersione delle sue potenzialità. Nella prospettiva interculturale questo si traduce anche nell’assunzione del compito di mediare sia attraverso l’aiuto di uno o più mediatori culturali, sia senza di essi.

Paradossalmente, una scuola senza mediatore può essere in grado di promuovere efficacemente mediazione interculturale, e una scuola con mediatore può essere poco incline alla cultura della mediazione stessa. La differenza sta nel ruolo e nella funzione che la scuola assume: se si delega in toto al mediatore la funzione di mediazione, la scuola rinuncia al suo mandato e non acquisisce la cultura organizzativa necessaria per promuovere contatto, apertura, comprensione, comunicazione.

Nelle prassi, spesso la figura del mediatore viene assimilata a quella dell’insegnante di sostegno: viene in questo modo non solo travisata la sua funzione, ma si costruisce anche un alone, intorno agli alunni migranti, che restituisce un’immagine di essi che rimanda alle idee di svantaggio, di pedagogia compensativa, di diversabilità.  Uno dei compiti della Commissione può essere quello di sensibilizzare la scuola e di inserire nel PTOF proposte di lavoro in tale direzione. Tutti i docenti, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di I e II grado, possono essere stimolati in questo modo ad inserire nella loro programmazione curricolare, obiettivi e contenuti di tipo interculturale. Orientare il curricolo scolastico in direzione interculturale significa lavorare su più livelli:

  1. analizzare il curricolo e i libri di testo per individuare impostazioni e messaggi etnocentrici e svalorizzanti nei confronti della differenza e degli altri;
  2. prevenire e contrastare stereotipi e pregiudizi;
  3. mettere attenzione alle componenti del curricolo che passano attraverso l’organizzazione, la comunicazione in classe, il modo di verificare e valutare gli apprendimenti;
  4. progettare percorsi curricolari con approccio interculturale.

La revisione del curricolo in senso interculturale cerca di prendere in esame i quattro elementi che lo definiscono: gli obiettivi, i contenuti, l’organizzazione scolastica, la valutazione. Non si tratta soltanto di scoprire la diversità e di accettarla, ma di “integrarla” come fatto assolutamente normale all’interno del corpus dei saperi scolastici, in linea con quell’idea di identità terrestre che secondo Morin dovrebbe attivare un’educazione aperta alla complessità, allo sconfinamento dei limiti e dei punti di vista, alla costruzione dell’idea di comunità di destino che non può più mettere al centro soltanto le dimensioni locali e nazionali.

Questo non significa rinunciare allo studio della realtà locale e nazionale, ma di allargare lo sguardo al globale, al mondo delle interdipendenze, alle varie espressioni culturali che non solo ci permettono di riflettere sul valore della differenza, ma anche di scoprire gli elementi trasversali, transculturali che ci accomunano in quanto appartenenti alla specie umana. Per la scuola dell’infanzia, i campi di esperienza rappresentano il terreno analogo sul quale investire in direzione interculturale. Laddove siano presenti alunni di cittadinanza non italiana, si può dare risalto, attraverso le discipline, alle loro culture di appartenenza (fiabe, favole, lingua, espressioni letterarie ed artistiche, ecc.).

Interessante sarebbe, in ogni istituzione scolastica, la realizzazione di laboratori permanenti di livello di alfabetizzazione della lingua italiana. Laboratori dove si accolgono gli alunni stranieri in qualsiasi momento dell’anno scolastico. Per gli iscritti nei tempi ordinari questi laboratori possono iniziare nei primi giorni di settembre in modo da avviare una prima alfabetizzazione e individuare le reali esigenze per inserirli nelle realtà più idonee ad accoglierli.

Inoltre, gli inserimenti andrebbero fatti, dalle figure di sistema, sempre dopo un’attenta valutazione delle potenziali classi in cui gli alunni verranno inseriti. Al momento dell’iscrizione sarebbe necessaria la presenza di un mediatore culturale per adempiere tutto l’iter burocratico, e per poter svolgere test di verifica per individuare le competenze possedute dall’alunno e esportarle all’età anagrafica e a quanto dichiarato rispetto al percorso di studio vissuto. Il momento dell’accoglienza è determinante per dare il via ad un processo di inclusione che non sia solo di inserimento.

Dall’integrazione all’inclusione

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori,

ma nel possedere altri occhi,

vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro,

di centinaia d’altri:

di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva,

che ciascuno di loro è.

(MARCEL PROUST)

L’idea di integrazione rimanda soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della cultura dominante, quindi assume un significato più vicino ad “assimilazione” in cui mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Una parola come “inclusione” contiene in sé, invece, il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza, poiché l’ambiente è più sintonico rispetto all’elemento che si inserisce. Non si tratta quindi di sinonimi, perché veicolano significati differenti e vengono usati da prospettive differenti. Pertanto, vi è una sfumatura semantica sottile, tra l’uso di integrazione scolastica e quello di inclusione che sembra aver avuto un forte valore performativo ad esempio nell’evoluzione della normativa, di seguito sinteticamente riportata, dove si abbandona progressivamente il termine di integrazione, per sostituirlo con quello dell’inclusione.

– L’integrazione delle persone con disabilità nella scuola di tutti ha inizio nei primi anni Settanta, quando viene promulgata la legge 118/71. Comunque, è con la legge 517/77 che ebbe ufficialmente inizio il processo di inserimento delle persone con disabilità nelle scuole del nostro Paese, sempre all’insegna dell’obiettivo di integrarle.

– La legge 104/92 rappresenta poi una tappa fondamentale perché colloca il diritto all’integrazione scolastica tra i diritti fondamentali della persona e del cittadino.

– A seguire vi è il DPCM n. 185/06 (“Regolamento recante modalità e criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289”) che presenta elementi innovativi soprattutto rispetto alla certificazione della disabilità, che per la prima volta viene scorporata dalla classificazione della persona (soggetto con disabilità e non più soggetto disabile).

– Nel Decreto n. 5669 del 12 luglio 2011, emanato in attuazione della legge 170/2010, i DSA rappresentano una questione distinta dalle problematiche dell’handicap. Il Decreto, con l’Allegato: “Linee guida”, illustra in modo puntuale e articolato i percorsi didattici da privilegiare con gli alunni affetti da DSA e apre un canale di tutela del diritto allo studio diverso da quello previsto dalla L. 104/92 perché focalizzato sulla didattica individualizzata e personalizzata, sugli strumenti compensativi, sulle misure dispensative e su adeguate forme di verifica e di valutazione.

– L’espressione “Bisogni Educativi Speciali” (BES) entra in uso in Italia con l’emanazione della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” e successiva C.M. n° 8 del 6 marzo 2013, che riprende le indicazioni UNESCO del 1977: il concetto di Bisogno Educativo Speciale si estende al di là di quelli che sono inclusi nelle categorie di disabilità, per coprire quegli alunni che vanno male a scuola (failing) per una varietà di altre ragioni che sono note nel loro impedire un progresso ottimale. Se questo gruppo di bambini, più o meno ampiamente definito, avrà bisogno di un sostegno aggiuntivo, dipenderà da quanto la scuola avrà bisogno di adattare il curricolo, l’insegnamento, l’organizzazione o le risorse aggiuntive umane e/o materiali per stimolare un apprendimento efficace ed efficiente.

Analizzando in dettaglio il valore performativo della normativa, sembra che l’ integrazione sia sottintesa all’offerta formativa individualizzata, che è rivolta ai soli alunni con disabilità certificata; come garanzia del diritto ad apprendere degli studenti con DSA viene poi introdotto il concetto di didattica personalizzata , che si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno; l’inclusione invece consente di coinvolgere tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali.

Quindi nell’integrazione esiste una distinzione tra la persona con disabilità e la persona senza disabilità; nell’inclusione invece, tutti sono considerati persone, ognuno con i propri bisogni. Il termine inclusione, sempre nella DM del 2012, viene inteso come processo attraverso il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, alunni, docenti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di un ambiente che risponde ai bisogni di tutti, ed in particolare a quelli di alunni con Bisogni Educativi Speciali. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi, come viene specificato anche dall’I.C.F., (Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità)  , proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2000).

Dunque l’inclusione è un passo avanti rispetto all’integrazione, perché non solo garantisce un’offerta formativa individualizzata a tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ma definisce anche che ciò debba avvenire in un contesto favorevole. In questa prospettiva, la mancanza di inclusione e/o di successo scolastico di un alunno non dipenderebbe da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e delle sue pratiche didattiche, definibile come “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”.

Associata al concetto di Bisogno Educativo Speciale e di inclusione vi è dunque l’idea di didattica inclusiva, che non è più speciale (cioè diretta solo a chi ne ha bisogno) ma ordinaria, cioè per tutti. La Direttiva 27/12/12 del Ministro Profumo parte proprio da: «l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta.

Va quindi potenziata la cultura dell’inclusione: un approccio educativo, non meramente clinico dovrebbe dar modo di individuare strategie e metodologie di intervento correlate alle esigenze educative speciali, nella prospettiva di una scuola sempre più inclusiva e accogliente, senza bisogno di ulteriori precisazioni di carattere normativo. È sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: una didattica inclusiva più che una didattica speciale.

L’attenzione al contesto, piuttosto che al soggetto, è in linea con l’uso della ICF (2002) dell’OMS, che ci fornisce un’ottima base concettuale di funzionamento globale del soggetto: il funzionamento educativo-apprenditivo scaturisce dalla stretta relazione tra condizioni fisiche e fattori legati al contesto che inevitabilmente lo condizionano. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi. Quindi una scuola davvero inclusiva deve eliminare eventuali barriere relazionali o didattiche che potrebbero determinare o influire negativamente su forme di Bisogno Educativo Speciale, mettendo in atto strategie in grado di stimolare un apprendimento efficiente ed efficace.

Alunni adottati

Il 18 dicembre 2014, con la nota n. 7443, il MIUR ha emanato le “Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati”, uno strumento di lavoro finalizzato a fornire al personale scolastico conoscenze di carattere teorico-pratico e modalità di intervento per venire incontro in maniera organica e funzionale all’aumento – registrato negli ultimi anni – delle adozioni di bambini e di ragazzi provenienti principalmente da paesi extraeuropei.

Successivamente con la legge n. 107/2015, (art. 1, comma 7, lettera l) si fa esplicito richiamo alle linee di indirizzo, che rappresentano pertanto un documento ben strutturato, estremamente concreto e dettagliato, indispensabile punto di partenza per comprendere la specificità degli alunni/figli adottivi e per costruire percorsi formativi individualizzati e personalizzati che consentano una concreta inclusione degli alunni adottati e delle loro famiglie nel contesto scolastico e territoriale di appartenenza.

Per quanto riguarda l’ambito amministrativo-burocratico, conviene soffermare l’attenzione sulle c.d. buone prassi: iscrizione, tempi d’inserimento e classe d’inserimento.

Per entrambi i tipi di adozione – nazionale ed internazionale – si possono iscrivere i figli in qualsiasi periodo dell’anno, basta recarsi direttamente presso gli uffici di segreteria della scuola prescelta, fermo restando la possibilità di inoltrare la domanda di iscrizione on line secondo la tempistica e l’iter burocratico previsti.

Un elemento particolarmente complesso è quello che attiene ai  tempi di inserimento: è preferibile che all’alunno – adottato internazionalmente – sia concesso un tempo sufficientemente lungo al fine di creare un legame affettivo con la famiglia, procrastinando pertanto l’inserimento nel gruppo classe non prima di dodici settimane dal suo arrivo in Italia nel caso della scuola dell’infanzia/primaria e quattro/sei settimane in quella secondaria.

Altro momento cruciale è la scelta della classe: il dirigente scolastico, tenuto conto del DPR N. 394/99, assegna la classe in accordo con i docenti, la famiglia e  le eventuali figure di supporto generalmente previste nella fase post-adottiva: équipe adozioni, enti autorizzati e gli altri soggetti coinvolti, tra cui le associazioni cui spesso le famiglie fanno riferimento.

È importante essere a conoscenza del fatto che i minori stranieri soggetti all’obbligo scolastico vengono iscritti alla classe corrispondente all’età anagrafica, salvo che venga deliberata l’iscrizione ad una classe diversa, tenendo conto dell’ordinamento e del titolo di studio conseguito dall’alunno del paese di provenienza, che può determinare l’iscrizione ad una classe immediatamente inferiore o superiore rispetto a quella corrispondente all’età anagrafica.

Tutti questi aspetti finora citati rientrano all’interno del protocollo di accoglienza per gli alunni adottati, un documento elaborato da ogni istituzione scolastica, che contenga criteri, principi, indicazioni, al pari di quello per alunni stranieri.

Altra buona prassi è quella di nominare un docente referente, figura identificata in sede di Collegio dei Docenti – generalmente tale incarico viene ricoperto dalla funzione strumentale per l’inclusione – con il compito di accompagnare l’alunno e la famiglia nelle diverse fasi di inserimento a scuola, avendo cura di raccogliere le informazioni necessarie (situazione personale e scolastica pregressa, padronanza della seconda lingua), di valutare la necessità di elaborare un piano didattico personalizzato (PDP) in collaborazione con il consiglio di classe/interclasse/sezione, di considerare l’attivazione di corsi di alfabetizzazione della lingua italiana come L2, di suggerire idonei sussidi didattici per facilitare le prime esperienze di studio, infine di monitorare costantemente il processo di inclusione, creando una rete di coordinamento tra e con la famiglia, l’ente comune, i servizi socio-sanitari, le associazioni familiari e le altre agenzie educative presenti sul territorio.

Il ruolo dell’insegnante risulta fondamentale per favorire il benessere scolastico e una corretta inclusione dell’alunno adottato all’interno del gruppo-classe. Pertanto è buona prassi che il docente prenda visione del protocollo di accoglienza e dell’informativa sull’alunno messa a disposizione dal docente referente, che nella fase iniziale utilizzi specifici sussidi didattici, testi a tematica interculturale ad esempio, e che predisponga percorsi di studio calibrati sulle esigenze di apprendimento del bambino/ragazzo adottato.

Come indicato nelle linee di indirizzo, al dirigente scolastico, quale garante delle opportunità formative offerte dalla scuola e della realizzazione del diritto allo studio di ciascuno, spetta il compito di inserire nel PTOF le modalità di accoglienza e le specificità degli alunni adottati, di avvalersi della collaborazione del docente referente per il coordinamento con la famiglia e le figure di supporto, di provvedere alla stesura del protocollo di accoglienza e alla relativa modulistica (qualora tale documento non sia presente), di favorire l’attivazione di progetti di inclusione e alfabetizzazione, di monitorare i processi e gli esiti di apprendimento del bambino/alunno, infine (ma non ultimo in termini di importanza) di provvedere alla formazione e all’aggiornamento del personale, anche in rete.

Per quest’ultimo aspetto, ad esempio, è possibile realizzare brevi filmati di carattere informativo oppure mettere a disposizione dei docenti materiale esplicativo o didattico attraverso una pagina dedicata del sito internet della scuola. Altro aspetto particolarmente delicato per il dirigente scolastico é il trattamento dei dati personali, che, alla luce delle nuove indicazioni sulla privacy, merita particolare attenzione, soprattutto nei casi di iscrizione di bambini/alunni in adozione nazionale o in affidamento provvisorio.

Nel corso della mia esperienza è capitato di avere in classe alunni adottati, però per nessuno di loro l’istituzione scolastica aveva formalizzato un percorso ad hoc di inserimento/inclusione. Si procedeva, come da consuetudine, ad una condivisione all’interno del consiglio di classe di strategie e strumenti per migliorare il rendimento scolastico.

Nella scuola in cui insegno attualmente, un istituto comprensivo appartenente ad una comunità montana, sono stati iscritti da pochissimo tempo due fratelli (S., una bambina di 8 anni e J., un bambino di 10) di origine colombiana, figli di una collega.

La dirigente scolastica ha applicato la prassi indicata nelle Linee di indirizzo, e pur non essendoci un protocollo di accoglienza specifico per i bambini adottati, ma soltanto quello per alunni stranieri, ha approntato un piano di inserimento avvalendosi della collaborazione con la docente funzione strumentale per l’inclusione: gli alunni sono stati affiancati dalla docente di Inglese della scuola Primaria con conoscenza di lingua Spagnola, affinché fosse semplificato l’approccio linguistico con i compagni italiani. Trascorso il primo periodo di inserimento, saranno seguiti da questa docente per quattro ore settimanali fino al termine delle lezioni.

Questa esperienza è stata significativa, in particolare per i docenti che hanno avuto modo di confrontarsi e crescere professionalmente attraverso una situazione scolastica inusuale per la realtà locale; sarà inoltre l’occasione per dotare l’istituto di un protocollo di accoglienza specifico e, in vista del prossimo anno scolastico, per strutturare un percorso formativo mirato che sia realmente inclusivo per i due fratellini colombiani.

Il Cooperative learning: metodologia efficace ed efficiente per alunni con Bisogni Educativi Speciali?

Il Cooperative Learning costituisce una metodologia complessiva di insegnamento e di gestione della classe attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso. In questo contesto l’insegnante assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività, strutturando “ambienti di apprendimento” nei quali gli studenti, favoriti da un clima relazionale positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo di “problem solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo personale di tutti, ovviamente anche degli alunni definiti BES.

Tali obiettivi possono essere conseguiti se all’interno dei piccoli gruppi di apprendimento gli studenti sviluppano determinate abilità e competenze sociali, intese come un insieme di abilità interpersonali e di piccolo gruppo indispensabili per sviluppare e mantenere un livello di cooperazione qualitativamente elevato. Tale metodo si distingue sia dall’apprendimento competitivo che dall’apprendimento individualistico e, a differenza di questi, si presta ad essere applicato ad ogni compito, materia e curricolo. Il lavoro di gruppo non è una novità nella scuola, ma la ricerca dimostra che gli studenti possono anche lavorare insieme senza trarne profitto. Può infatti accadere che essi operino insieme, ma non abbiano alcun interesse né soddisfazione nel farlo. Nei gruppi di apprendimento cooperativo, invece, i bambini si dedicano con piacere all’attività comune, si sentono e sono realmente protagonisti di tutte le fasi del lavoro, dalla pianificazione alla valutazione. I cinque elementi che rendono efficace la cooperazione sono:

  1. l’interdipendenza positiva, per cui gli alunni si impegnano per migliorare il rendimento di ciascun membro del gruppo, non essendo realizzabile il successo individuale senza il successo collettivo.
  2. La responsabilità individuale e di gruppo: quest’ultimo è responsabile del raggiungimento degli obiettivi ed ogni membro è responsabile del proprio contributo.
  3. L’interazione costruttiva, ovvero gli studenti sono chiamati a relazionarsi in maniera diretta per lavorare, promuovendo e sostenendo gli sforzi di ciascuno e congratulandosi a vicenda per i successi ottenuti
  4. La realizzazione di abilità sociali specifiche e necessarie nei rapporti interpersonali all’interno del piccolo gruppo: gli alunni si impegnano nei vari ruoli richiesti dal lavoro e nella creazione di un clima di collaborazione e fiducia reciproca. Particolare importanza in quest’ambito rivestono le competenze di gestione dei conflitti, ossia le competenze sociali che richiedono un insegnamento specifico.
  5. La valutazione di gruppo che osserva con sguardo critico il proprio modo di lavorare e si pone degli obiettivi di miglioramento.

Come si applica nel contesto classe? Perché?

Nel contesto del lavoro in classe, sembra dunque necessario adottare degli stili di insegnamento-apprendimento che possano consentire in particolare agli alunni BES di poter imparare con gli altri senza alcuna differenza sostanziale. Tutto questo può avvenire solo nel momento in cui i docenti saranno in grado di: non sostituirsi mai agli alunni, ma aiutarli ad organizzarsi, mostrarsi incoraggianti e ottimisti sulle loro capacità, dunque limitando il più possibile inutili rimproveri. Promuovere esperienze positive di socializzazione, cercando anche di rivedere, oltre che gli obiettivi di apprendimento, anche gli obiettivi comportamentali ed adattivi.

Le metodologie e strategie didattiche dovranno dunque essere volte a:

  • ridurre al minimo i modi tradizionali “di fare scuola” (lezione frontale, completamento di schede che richiedono ripetizione di nozioni o applicazioni di regole memorizzate, successione di spiegazione – studio – interrogazioni…)
  • favorire attività nelle quali i ragazzi vengano messi in situazione di confronto cognitivo con se stessi e con gli altri, dove ciascuno ricopre un ruolo specifico e di fondamentale importanza per il conseguimento dell’obiettivo finale;
  • sfruttare i punti di forza di ciascun alunno, adattando i compiti agli stili di apprendimento degli studenti e offrendo varietà e opzioni nei materiali e nelle strategie d’insegnamento;
  • utilizzare mediatori didattici diversificati (mappe, schemi, immagini).

Lo scopo di queste strategie sarà essenzialmente rivolto alla partecipazione attiva degli alunni, stimolando il recupero delle informazioni tramite il brainstorming, insegnando a collegare l’apprendimento alle esperienze e alle conoscenze pregresse. Nel contempo favorire l’utilizzazione immediata e sistematica delle conoscenze e abilità, mediante attività di tipo laboratoriale e sollecitare la rappresentazione di idee sotto forma di mappe da utilizzare come facilitatori procedurali nella produzione di un compito. Infine grande importanza riveste il puntare tutto il lavoro sulla motivazione ad apprendere.

Per fare questo occorre dunque che il docente sia capace di essere molto chiaro nel dare istruzioni, evitando troppo informazioni alla volta, di strutturare l’aula e la lezione sottolineando sempre l’importanza della partecipazione attiva da parte degli alunni che si possano sentire protagonisti del processo educativo e non solo semplici recettori di sterili informazioni. Agire sull’autostima dei bambini è una delle carte vincenti per consentire oggi un nuovo modo di apprendere sintetizzabile nello slogan “imparare ad imparare”.

Un metodo efficace al fine dell’inclusione

Rispetto ad un’impostazione del lavoro che si potrebbe definire tradizionale, il Cooperative Learning presenta alcuni innegabili vantaggi: anzitutto produce migliori risultati da parte degli alunni, i quali lavorano più a lungo sul compito assegnato, perfezionando la motivazione intrinseca e sviluppando maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico. In secondo luogo si instaurano relazioni più positive tra i bambini, i quali sono coscienti dell’importanza dell’apporto di ciascuno al lavoro comune e sviluppano pertanto il rispetto reciproco e lo spirito di squadra.

Infine, si registra maggiore benessere psicologico: gli studenti sviluppano un maggiore senso di autoefficacia e di autostima, sopportando meglio le difficoltà e lo stress. Quest’ultimo vantaggio risulta di grande valore soprattutto nei confronti di bambini che rientrano nella macro-categoria dei BES. L’efficacia della metodologia cooperativa è confermata inoltre dal supporto di alcuni comportamenti e valori specifici, che facilitano la partecipazione attiva anche da parte dei BES coinvolti.

All’interno di questo quadro generale, le diverse interpretazioni del principio di interdipendenza e delle variabili più rilevanti nell’apprendimento (interazione, motivazione, compito e ruolo dell’insegnante) hanno originato lo sviluppo di diverse correnti o modalità di Cooperative Learning. Alcuni aspetti del Cooperative Learning sono ancora oggi oggetto di discussione e di approfondimento, tra questi ricordiamo: la situazione dei più dotati, l’inserimento di alunni con handicap grave, le modalità in relazione a specifici obiettivi trasversali, la possibilità di sviluppare questo metodo combinandolo con altri e con l’uso delle nuove tecnologie, non da ultimo la sfida dei BES e il loro apprendimento. Risulta importante che anche in Italia questa metodologia continui ad essere approfondita, studiata e implementata e che non diventi un metodo educativo e innovativo che prima crea entusiasmo e poi viene presto accantonato per una presunta inefficacia dovuta più a un’inadeguata applicazione che non al metodo in sé.

Considerazioni finali

In conclusione, riflettendo sulla sfida attuale dei BES, sembra che agli insegnanti possano essere affidate alcune funzioni fondamentali per intervenire dando risposte individualizzate e per studiare metodologie e strategie di insegnamento utili da attuare per gestire situazioni problematiche sempre più variegate. La prima funzione è quella di istruire, cioè di aiutare in particolare gli alunni BES ad acquisire padronanza di abilità e di conoscenze disciplinari. La seconda è quella di condurre la classe, cioè di definire regole e procedure, tenendo costante l’attenzione e la partecipazione durante la lezione. Infine i docenti sono chiamati a far socializzare gli studenti e a mantenere un buon clima di classe.

Spesso succede che non tutti gli alunni reagiscano in maniera positiva agli interventi di istruzione, gestione della classe o socializzazione e che sia necessario un lavoro suppletivo, che richiede ulteriori abilità. Sono dunque necessarie la capacità di analizzare la situazione, di decodificare le diagnosi dei diversi specialisti, di condurre interviste anche con i genitori, finalizzate a raccogliere le informazioni utili alla costruzione di un piano di intervento. Ma prima ancora è essenziale la disponibilità ad accorgersi che esiste un problema e che su quest’ultimo è possibile intervenire efficacemente, anche se risulta difficile.

Risulta di vitale importanza pensare che sia effettivamente possibile risolvere il problema in stretta alleanza e collaborazione con le famiglie e i genitori e che il primo passo per fare ciò consista nell’affrontarlo, superando l’ansia, l’impotenza, l’inadeguatezza o la rabbia, che coglie chiunque di fronte ad una situazione nuova, complessa e stressante, ma che nonostante tutto rende il lavoro del docente sempre carico di novità e di impellenti sfide educative.

Scuola e nuovo liberismo

Pasolini,  nella sua opera intitolata “Fascista”, del 1974, sosteneva che, a ben guardare “negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini”, la “civiltà dei consumi” è una “civiltà dittatoriale”, che è determinante nella trasformazione dei giovani, nel loro cambiamento a livello dell’anima, proprio. Tenendo ben presenti le sollecitazioni che provengono dalla società cosiddetta “dei consumi”, l’Istruzione, in quanto concorrente nella costituzione delle politiche economiche e sociali, detiene un ruolo fondamentale per intervenire e modificare la realtà.

Nel Documento, a cura del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari”, si fa riferimento ad un aumento della “vulnerabilità” che, a causa di drammatici fenomeni che interessano il campo economico e quello culturale, costringe le persone a fare a meno di servizi e beni di ordine primario. Si fa riferimento, altresì, all’ “instabilità politica in aree già calde del pianeta” e alle “vecchie e nuove emergenze ecologiche ed economiche planetarie”.

Importanti documenti di istituzioni sovranazionali, quali ONU, UE, Consiglio d’Europa, sollecitano gli Stati ad un più ragguardevole impegno verso la sostenibilità e la coesione sociale. Il documento programmatico chiamato Europa 2020, ha una “mission”, rintracciabile anche negli obiettivi e nelle finalità della Legge 107 del 2015, che è individuata nel raggiungimento di una crescita “intelligente”, “sostenibile”, “inclusiva”.

La “crescita sostenibile” consiste nella promozione di un’economia più efficiente in ordine alle risorse, un’economia più verde, più competitiva.

La “crescita inclusiva” promuove un’economia con un alto tasso di occupazione, in grado di favorire la coesione sociale e territoriale. Nel programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, denominato Agenda 2030, l’ONU enuncia diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Di questi obiettivi, quello che coinvolge direttamente la scuola è il numero quattro: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.

Nondimeno, l’acquisizione di competenze culturali, sociali e metodologiche, conseguibile con l’istruzione, può favorire il raggiungimento degli altri obiettivi. Fra questi, l’obiettivo numero otto: “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” e l’obiettivo numero dodici: “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo”.

Istruzione, Crescita ed Economia sono, dunque, connesse ed interdipendenti. Nel trentennio che fa seguito al Trattato di Maastricht, si è attivato un sistema volto all’apprendimento permanente per l’incentivazione e la valorizzazione del “capitale umano”, indispensabile per la produzione e lo sviluppo del sistema economico. Estremamente interessante, per dirla alla maniera dell’economista, sociologo, antropologo e filosofo austro ungherese Karl Polanyi, è l’essenza “embedded” dell’Economia che si evince dalla mission dei documenti sopracitati. Quanto meno attuale si può definire il pensiero di Polanyi (vissuto e attivo sino ai primi anni sessanta del secolo scorso, uno dei precursori dell’ “indagine multidisciplinare”, che non godeva dell’amore dei circoli liberisti e liberali), secondo cui l’Economia non esiste avulsa dalla società, ma ne è integrata, radicata al suo interno.

Come diceva l’economista e sociologo tedesco Werner Sombart nella sua opera maggiore, intitolata “Il Capitalismo moderno”, l’Economia, non essendo “un processo naturale”, bensì una “creazione culturale”, è frutto della libera scelta degli uomini, e sono questi ultimi a determinarne il futuro, o a strutturare un determinato sistema economico. In quest’ottica, la Scuola, incentivando il Lifelong learning per l’accrescimento del “capitale umano” (che sostituisce il “capitale materiale”), per far fronte al continuo cambiamento e alle mutevoli richieste della società, ha un ruolo fondamentale anche nella direzione dell’agire efficace, laddove “efficace” sta anche come “leale”, in campo economico (magari maggiormente volto all’interesse pubblico).

In tal senso, la Scuola può contribuire alla strutturazione di una nuova forma di liberismo, capace di mantenere alta l’attenzione al sociale, e, magari, non del tutto contraria ad un controllo dell’evoluzione dei mercati da parte dello Stato. L’economista austriaco Eugen von Bohm-Bawerk enunciava in tal modo l’essenza economica del liberalismo: “Un mercato è un sistema giuridico, in assenza del quale l’unica economia possibile è la rapina di strada”.

Scuola e società liquida

“La risoluzione dei problemi ed il perseguimento delle finalità debbono, necessariamente, comportare la riforma di pensiero e delle istituzioni” (Edgar Morin, La testa ben fatta, riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore. Milano 2000)

I due termini, pensiero ed istituzioni, mettono a fuoco, immediatamente, come l’etica della didattica e della formazione abbiano un’implicanza parallela, che coinvolge il singolo ed il plurale, l’individuo e la società, la persona e lo Stato.

Per ragionare e programmare in modo proficuo bisogna puntare ad un “insegnamento educativo” senza scindere i due termini, senza dimenticare che educare significa “mettere in atto dei mezzi atti ad assicurare la formazione e lo sviluppo di un essere umano”, aiutandolo a diventare “migliore e, se non più felice, insegnandogli ad accettare la parte prosaica del vivere ed a vivere la parte poetica della vita”.

Se educare significa “formare”, ciò implica anche le sue connotazioni di “lavorazione” e “conformazione”, ma si deve sempre ricordare che lo strumento principale attraverso cui perseguire questi obiettivi è l’ “autodidattica”, ossia la pratica che “suscita, desta e favorisce l’autonomia dello spirito”.

Troppo spesso si dimentica che la mole di conoscenze cui deve far fronte l’uomo moderno è immensa ed in costante e veloce espansione.

Morin la paragona ad una “gigantesca torre di Babele, rumoreggiante di linguaggi discordanti”. In tale situazione ecco che Eliot si domanda: “dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” e, di conseguenza, “dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?”.

Se a questi sostanziali dilemmi aggiungiamo la Multiculturalità e la multietnicità, i repentini cambiamenti legislativi e normativi, la crisi del ruolo della famiglia (interlocutrice primaria della Scuola) e la scarsa soddisfazione professionale in termini di riconoscimento valoriale del proprio operato, tutto ciò non può che provocare quel grave stato di stress ansiogeno che è la sindrome da burnout della classe docente.

Anche l’intromissione massiccia e fagocitante delle nuove tecnologie ha condotto ad una crisi del valore del pensiero, che ha perso importanza in virtù di un agire sempre più veloce e sempre meno meditato.

Bauman asserisce che noi viviamo in una fase di “interregno”, ossia in un periodo in cui “gli antichi modi di agire non funzionano più, gli stili di vita appresi/ereditati dal passato non sono più adeguati all’attuale conditio humana, ma ancora non sono state inventate, costruite e messe in atto nuove modalità per affrontare le sfide,  nuove forme di vita più adeguate alle nuove condizioni”.

Viviamo, quindi, in una fase di “modernizzazione” soggetta a cambiamenti repentini, compulsivi ed inarrestabili.

Su simili, ondivaghe ed instabili basi, la scuola ed i suoi docenti diventano l’agenzia della Formazione. Su basi così liquide essi hanno il compito di fondare un intervento significativo, coerente e stabilizzante.

Ciò lo si va a fare in modalità “modernità liquida” (Zygmut Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2017), ovvero nella convinzione che l’unica costante sta nel cambiamento e che l’unica certezza è l’incertezza. Tale liquidità, apparentemente, si manifesta con un’accezione negativa, in realtà non deve essere interpretata così. Lo stato di liquidità di cui parlo, infatti, non è in antitesi con quello di solidità, bensì ne è un’ evoluzione, un adeguamento.

La liquidità è lo stato utile, direi indispensabile, al fine di affrontare la modernità, che per la sua struttura costitutiva non può essere affrontata in una condizione di rigidità.

Partendo da questi presupposti teoretici di sociologia ci si addentra nel mondo tangibile e realistico della scuola.

Una condizione di apprendimento liquido presuppone la capacità di non fissare lo spazio e di non legare il tempo.

E’ in questo nuovo status sociale che si inserisce il nuovo modo di fare scuola, quello che punta sui beni immateriali, ossia la conoscenza, per intervenire significativamente sull’autocoscienza di sé, sulle relazioni, sulla produttività e sul Mercato. Solo la conoscenza è un processo che si fonda sul sapere pregresso, sulla ricomposizione, sull’integrazione e sulla costruzione ex novo di idee. Essa è insita nelle persone e quindi è parte integrante di qualunque sistema sociale.

Una conoscenza siffatta non può dunque prescindere dalla socializzazione, dalla condivisione di finalità, obiettivi, strategie e strumenti. Parliamo di una società educante, cioè di una struttura reticolare di professionisti dell’ “insegnamento educativo”.

Si arriva a parlare di Saperi  Relazionali e Sentimentali perché la Persona è, prima di tutto, Individuo in Relazione, animale sociale con un’innata propensione alla condivisione.

Per un perverso gioco dell’assurdo, su simili considerazioni ecco stagliarsi lo spettro dell’incomunicabilità, dell’insicurezza esistenziale, del monadismo relazionale.

La liquidità di tutta questa “massa” mette il docente innanzi ad una rivoluzione copernicana del proprio io e del proprio ruolo. Egli deve reinventarsi e quindi destrutturarsi per ricomporsi e ricostruirsi. Ma per fare ciò ci vogliono elementi costituenti dell’individuo e del professionista, dell’operatore e del formatore, che necessitano di essere sistematicamente stimolati, potenziati e substanziati in un processo senza soluzione di continuità, che comporta un’inesauribile e costante “corsa” dietro, o forse contro, l’evoluzione, o l’involuzione, di una società in cerca di sé, di generazioni sempre più “precocizzate” dall’ utile, dal produttivo, dal significativo. Generazioni cui non è più concesso sbagliare, fermarsi, tornare indietro e ricominciare perché la china intrapresa è lineare, in accelerazione e priva di piazzole di sosta, di momenti “vuoti”, di pause.

Il successo formativo di tutti e di ciascuno

DECRETO LEGISLATIVO n. 66/17

Il D.Lgs 66/17, attuativo delle Legge 107/15, ha lo scopo di implementare l’inclusione scolastica, tema centrale e da sempre all’attenzione della scuola e del sistema di istruzione-formazione.

Il testo normativo, in particolare, interviene a favore di studenti con disabilità certificata (L. 104/92) per i quali introduce il modello bio-psico-sociale della ICF (1) adottato dall’OMS (2) che pone in primo piano i “processi di funzionamento” della persona disabile piuttosto che la sua condizione di “carenza” o “mancanza”.

Obiettivo della riforma è, infatti, rafforzare il concetto di “scuola inclusiva” che accoglie le “diversità” non per dovere assistenzialistico, ma per promuoverne e valorizzarne le potenzialità di modo che esse diventino risorse per il contesto. Si tratta di una impostazione pedagogica che prevede nuovi ambienti di apprendimento caratterizzati da dinamiche relazionali di interazione e  piena condivisione, presupposti essenziali di convivenza democratica e cittadinanza costruttiva .

La normativa, in vigore a decorrere dall’anno scolastico 2019/20, rilancia la funzione della scuola che realizza il diritto costituzionale ad apprendere con nuove più funzionali misure operative ed il coinvolgimento fattivo di tutte le sue componenti. Si entra, per così dire, in un’ottica sistemica che ridefinisce competenze familiari ed istituzionali ai fini della crescita personale e del successo formativo di tutti e di ciascun alunno.

Questi sono gli orientamenti europei che mirano alla “crescita inclusiva” attraverso la prevenzione di ogni forma di disagio, ineguaglianza o emarginazione nella prospettiva dell’integrazione sociale e della coesione mondiale, visione auspicata nella strategia “Europa 2020”.  

Prestazioni e competenze

La legge definisce in modo dettagliato ruoli e compiti spettanti a Stato, Regioni ed Enti locali nelle politiche di inclusione scolastica. Per la prima volta, si tiene conto, nel riparto delle risorse del personale ATA,  della presenza, in ciascuna scuola, a partire da quella dell’infanzia, di alunni disabili. Inoltre, in base al genere di disabilità presentata si determina l’assegnazione di collaboratori scolastici per i compiti di assistenza alla persona.

L’implementazione dell’inclusione si realizza anche mediante un’accresciuta qualificazione professionale delle commissioni mediche deputate all’accertamento della condizione di disabilità. Esse, nel caso operino per persone in età evolutiva, sono composte da un medico legale con funzione di presidente e da due medici specializzati in pediatria o in neuropsichiatria infantile (o nella specializzazione inerente la condizione di salute dell’alunno). Vi farà parte anche un assistente specialistico individuato dall’ente locale mentre resta confermata la presenza sia del medico INPS che delle associazioni delle famiglie.

Nuovi documenti

Il D.Lgs 66/17 innova anche la documentazione relativa agli alunni con disabilità. La Diagnosi Funzionale (DF) ed il Profilo Dinamico Funzionale (PDF), tuttora in vigore, lasceranno il posto ad un unico documento, il Profilo di Funzionamento, che sarà redatto, dopo la certificazione della condizione di disabilità, dalla commissione medica con la collaborazione dei genitori e di un rappresentante dell’amministrazione (preferibilmente un docente della scuola frequentata dall’ alunno).

Il nuovo documento, aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione (o per sopravvenute condizioni di “funzionamento” della persona), definirà la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica. Esso risulterà propedeutico e necessario alla predisposizione del Piano Educativo Individualizzato (PEI) elaborato dai docenti del Consiglio di classe con il supporto dei genitori e dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare. Il Piano, nel quale saranno definiti anche gli strumenti per lo svolgimento dell’alternanza scuola-lavoro, dovrà confluire nel Progetto Individuale (PI) che sarà redatto a cura dell’ente locale su richiesta ed in collaborazione con la famiglia (DPR 328/2000).

Progettazione e organizzazione

Tra le misure per una scuola inclusiva, figura la previsione di un Piano per l’Inclusione che ogni istituzione scolastica è tenuta ad elaborare quale principale documento programmatico-attuativo in materia. Esso dovrà riportare, annualmente, le modalità per l’utilizzo coordinato delle risorse e gli interventi di miglioramento della qualità dell’inclusione, divenendo parte integrante del Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF).

Nella stessa prospettiva si muove il riassetto dei Gruppi di lavoro per l’inclusione  ai sensi del D. Lgs 66/17. Sono previsti Gruppi di lavoro interistituzionali regionali (GLIR) istituiti dal I settembre 2017 presso ogni USR con funzione di consulenza e proposta su accordi di programma. Essi dovranno anche supportare le reti di scuole e  orientare i futuri Gruppi per l’inclusione territoriale (GIT) che nasceranno  dal I gennaio 2019. Il loro compito consisterà nel quantificare,  per ogni ambito territoriale (L.107/15), le risorse da destinare al sostegno didattico, come proposte, dopo l’analisi dei PEI, dalle singole scuole. Qui operano, dal I settembre 2017, i Gruppi di lavoro per l’inclusione (GLI), con funzione di programmazione, proposta e supporto al Collegio docenti per la definizione del Piano per l’inclusione. Tali gruppi, costituiti da docenti, personale ATA (novità rilevante della normativa) e specialisti dell’Azienda sanitaria locale, si avvalgono del supporto di studenti, genitori ed associazioni delle persone con disabilità.

La formazione iniziale ed in itinere

Il D.Lgs 66/17 ridisegna la disciplina di accesso alla carriera di docente di sostegno nelle Scuole dell’infanzia e primaria istituendo un Corso annuale di specializzazione in pedagogia e didattica speciale (per la Scuola secondaria di I e II grado, come è noto, interviene, al riguardo, il D.Lgs. 59/17 sulla formazione iniziale).

La formazione per l’inclusione è compiuta anche in servizio ed è estesa a tutto il personale scolastico, compresi gli ATA. Ogni scuola attiverà, nell’ambito della propria offerta educativa, progetti di formazione mirati, in linea con le priorità  del Piano nazionale di formazione relativo al triennio 2016/19 (L.107/15).

Al fine di implementare pratiche concrete di inclusione, la legge prevede, per la prima volta, che il dirigente scolastico, per motivi di continuità educativa e didattica, possa proporre ai docenti dell’organico dell’autonomia in possesso del titolo di specializzazione anche attività di sostegno. Nella stessa prospettiva, egli ha facoltà di prorogare (e reiterare il più possibile) un contratto a tempo determinato  al medesimo docente di sostegno nell’ anno scolastico successivo nel caso di proficuità del rapporto docente-discente e sulla base di eventuale richiesta della famiglia.

Valutare l’inclusione

L’inclusione scolastica, infine, diviene parametro fondamentale di valutazione delle scuole attraverso l’utilizzo di specifici indicatori che ne misurano il livello di inclusività raggiunto. Alla loro predisposizione prende parte l’Osservatorio per l’inclusione scolastica istituito presso il MIUR e composto da tutti gli attori istituzionali coinvolti nel processo di inclusione, a completamento e garanzia del suo approccio sistemico ed integrato. Qui si colloca anche il ruolo strategico del dirigente scolastico chiamato ad assicurare, nell’esercizio della propria autonomia funzionale ed operativa, l’effettività delle previsioni normative  per l’ attuazione di una scuola democratica, equa e di qualità, sfida e finalità precipua della riforma voluta dalla L.107/15.

1) Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute

2) Organizzazione Mondiale della Sanità

La scuola in ospedale

La Scuola in Ospedale

La Scuola in Ospedale è il luogo della normalità inserito in un’istituzione di emergenza, qual è l’ospedale.

La scuola in ospedale è calibrata sul singolo bambino/ragazzo, tenendo conto delle tempistiche di visite, terapie e della specificità delle patologie. Privilegia i piccoli gruppi, attuando il rapporto uno a uno, docente-alunno, programma le attività didattiche utilizzando tecnologie multimediali e comprende anche attività ludiche e ricreative. L’obiettivo è assicurare pari opportunità di istruzione a tutti gli alunni ricoverati, per far sì che possano proseguire il proprio percorso didattico senza rischiare difficoltà di reinserimento o dispersione scolastica.

Il docente in ospedale deve ricorrere a strategie di individualizzazione e di personalizzazione del percorso formativo, e garantire al contempo una mediazione tra la famiglia e l’ospedale.

La scuola in Ospedale è oggi diffusa in tutti gli ordini e gradi di scuola e la sua presenza nelle strutture ospedaliere garantisce ai bambini e ai ragazzi ricoverati il diritto all’istruzione come diritto a conoscere e ad apprendere in ospedale, nonostante la malattia. Nata inizialmente dalla disponibilità e volontà di singoli operatori e istituzioni, è oggi un concreto esempio di come istituzioni, soggetti, operatori, pur con obiettivi diversi, possono incontrarsi e interagire positivamente per la messa a punto di interventi che hanno un solo fine, quello di promuovere il benessere e la crescita della persona, pur in situazioni di difficoltà.

Gli insegnanti della Scuola in Ospedale operano per:

  • adeguare la proposta formativa alle esigenze di ciascuno. A tutti gli alunni deve essere data la possibilità di sviluppare al meglio la propria identità e potenzialità, favorendo la valorizzazione delle diversità contro ogni forma di emarginazione, discriminazione ed esclusione e affermando pari opportunità per tutti;
  • perseguire il diritto di ognuno ad apprendere, nel rispetto dei tempi e delle modalità proprie, progettando percorsi atti al superamento delle difficoltà, in un clima sereno e cooperativo, finalizzato allo “star bene”, educando all’autostima e al promuovere l’intelligenza creativa per far emergere il talento espressivo dell’alunno;
  • valorizzare le risorse esistenti sul territorio (enti locali, associazioni) allo scopo di realizzare un progetto educativo ricco e articolato affinché l’offerta formativa della scuola non si limiti alle sole attività curricolari e assuma un più ampio ruolo di promozione culturale e sociale capace di favorire processi di orientamento;
  • rendere chiare le ragioni delle scelte educativo-formative, favorendone la visibilità. L’arricchimento e la diversificazione del percorso formativo sono finalizzati a garantire a tutti gli alunni uguali opportunità di crescita culturale. La frequenza scolastica di alunni ricoverati, deve essere agevolata da interventi che utilizzino anche strategie multimediali ed informatiche (postazioni mobili, audiovisivi, cooperazione attiva con i compagni).

Istruzione Domiciliare

L’Istruzione Domiciliare riconosce ai minori malati il diritto-dovere all’istruzione anche a domicilio per consentire a chi, già ospedalizzato per una grave patologia e impedito alla frequenza della scuola per un periodo non inferiore ai 30 giorni (anche non continuativi), di esercitare il proprio diritto allo studio.

Il servizio di istruzione domiciliare viene garantito a tutti gli alunni, iscritti a scuole di ogni ordine e grado, a seguito di una formale richiesta della famiglia e di una idonea e dettagliata certificazione sanitaria, rilasciata dal medico curante ospedaliero (C.M. n. 149 del 10/10/2001). L’Istruzione Domiciliare non è un intervento a carattere permanente: rappresenta una fase del percorso formativo che ha come obiettivo il rientro nel contesto della classe.

In generale l’Istruzione Domiciliare è svolta dagli insegnanti della classe di appartenenza in orario aggiuntivo oppure, se presenti, eventualmente dai docenti dell’organico potenziato; in mancanza di costoro, può essere affidata anche ad altri docenti della stessa scuola che si rendano disponibili o ad altri docenti di scuole vicine; non è da escludere il coinvolgimento dei docenti ospedalieri. I percorsi didattici e le relative prove di valutazione sono elaborati dal Consiglio di classe (o gruppo docente della classe) di appartenenza. Ogni situazione presenta bisogni e criticità da gestire: gli insegnanti della classe di appartenenza collaborano con gli insegnanti ospedalieri condividendo percorsi didattici attraverso:

  • i consueti strumenti di comunicazione online (per esempio, Skype);
  • le piattaforme che consentono di gestire le classi online, le pratiche di flipped classroom (ad 
esempio Edmodo, Google Classroom, etc…).

Il Vademecum per l’Istruzione domiciliare del 2003 rappresenta un punto di riferimento essenziale ed esplicita quali siano le patologie effettive di fronte alle quali il servizio diventa una necessità per l’alunno. Inoltre il Vademecum precisa l’ambito di intervento e quali debbano essere gli atti formali da adempiere per la gestione del servizio: “la scuola interessata dovrà elaborare un progetto di offerta formativa nei confronti dell’alunno impedito alla frequenza scolastica, con l’indicazione del numero dei docenti coinvolti e delle ore di lezione previste. Il progetto dovrà essere approvato dal collegio dei docenti e dal consiglio d’Istituto, in apposite sedute d’urgenza previste dal dirigente scolastico, ed inserito nel POF (ora PTOF). La richiesta con allegata certificazione sanitaria e il progetto elaborato verranno presentati al competente Ufficio Scolastico Regionale, che procederà alla valutazione della documentazione presentata, ai fini dell’approvazione e della successiva assegnazione delle risorse.”

L’Accordo di Rete di Scopo delle Scuole Polo Ospedaliere

Negli ultimi anni la società ha subito notevoli cambiamenti, che hanno portato all’esigenza di riscrivere alcuni punti del Vademecum del 2003.

Le Scuole Polo Regionali hanno aderito ad un Accordo di Rete di Scopo, da cui hanno tratto delle proposte di elaborazione di linee guida condivise, che tengano conto dei cambiamenti sociali emersi da indagini recenti.

Le nuove patologie nella società che cambia

Nello specifico dell’istruzione domiciliare, servizio che in genere è conseguente all’ospedalizzazione per gli studenti malati, la Rete di Scopo evidenzia la necessità di rispondere adeguatamente all’attivazione di specifici percorsi di istruzione per gli studenti che vengano colpiti da patologie che non compaiono nel “Vademecum” del 2003.

Il “Vademecum” indicava già una lunga e ampia serie di patologie, e cioè:

  1. Patologie onco-ematologiche;
  2. Patologie o procedure terapeutiche che richiedono terapia immunosoppressiva prolungata;  
  3. Patologie croniche invalidanti;
  4. Malattie o traumi acuti temporaneamente invalidanti.

Il contesto delle emergenze è profondamente cambiato, a causa delle modificazioni sociali.      Molte patologie sono oggi di natura psicologica:

  • Fobie scolastica;
  • Stati d’ansia post trapianto;
  • Disturbi del comportamento;
  • Affaticamento cronico;
  • Sindrome ansioso-depressiva;
  • Attacchi di panico;
  • Comportamenti autolesivi;
  • Doppia diagnosi da abuso di sostanze;
  • Disturbo del comportamento alimentare;
  • Anoressia nervosa.

Si tratta di patologie che solo in casi estremi richiedono il ricovero ospedaliero, ma che in ogni caso comportano un lungo periodo di tempo nel quale gli studenti non riescono a svolgere le loro normali attività quotidiane, come la frequenza della scuola. Anche in tali casi l’istruzione domiciliare può costituire un validissimo intervento contro la dispersione scolastica, attraverso l’utilizzo delle tecnologie che permettono un collegamento a distanza: questo perché la scuola e il legame con i compagni rappresenta, in queste situazioni, un contatto fondamentale con la normalità e quindi apre alla possibilità della ripresa, del reinserimento.

Il servizio di Istruzione Domiciliare si attiva in genere a seguito delle dimissioni dell’allievo dall’ospedale, in presenza di alcune gravi patologie e come conseguenza delle condizioni cliniche dell’alunno e delle terapie e/o prestazioni sanitarie a cui è sottoposto, che ne impediscono la frequenza scolastica. In tutti questi casi, la certificazione avviene a cura del medico ospedaliero. Nel caso in cui l’attivazione del servizio sia conseguenza di patologie finora non comprese nel servizio, la certificazione sarà a cura del Servizio sanitario, che espliciterà la necessità del servizio d’istruzione domiciliare e la sua durata.

Modalità di reinserimento a scuola dopo la malattia

Per i progetti di istruzione e ospedalizzazione è altresì opportuno che le singole autonomie scolastiche specifichino le modalità di reinserimento nella classe di appartenenza (dopo una lunga assenza per malattia): modalità che non andrebbero lasciate all’impegno dei singoli docenti ma definiti a livello collegiale, per sviluppare una cultura della ri-accoglienza che prevenga atteggiamenti discriminatori.

Formazione del personale docente e Dirigente delle scuole Ospedaliere

È fondamentale che la formazione iniziale del personale docente e dirigente sia adeguata nell’ottica di servizio alla persona, in modo da mettere gli insegnanti in grado di intervenire efficacemente, modulando gli interventi didattici e relazionali sulla base della difficoltà riscontrata. Anche la formazione in servizio deve coinvolgere i docenti, i dirigenti e i referenti regionali con competenze relativi alla SIO e all’ID.

La formazione degli insegnanti e dei Dirigenti Scolastici, nel caso di uno o più progetti di istruzione ospedaliera o domiciliare, riveste un’importanza fondamentale: l’insegnante deve essere messo in grado – con modalità condivise dall’intera comunità educante che è la scuola – di promuovere nell’alunno le competenze necessarie che gli consentiranno di fronteggiare la malattia e le terapie, sia in ospedale che a casa.

Il contesto educativo deve trasformarsi in spazio di protezione, che garantisca continuità con i contesti educativi che caratterizzavano la normalità della vita. Deve inoltre favorire la riappropriazione di Sé, veicolare la possibilità di una progettualità della relazione genitore-figlio e agevolare la realizzazione fra il personale sanitario e il genitore, aiutando il primo a far comprendere la possibilità evolutiva, che spesso il genitore non percepisce.

La Scuola in Ospedale e a domicilio trattiene e salva quanto la malattia, al contrario, fagocita, e ciò recuperando senso e significato dell’educazione come un percorso di formazione e trasformazione che consente all’alunno di essere ‘autrement’, fino a raggiungere il “thriving” di una vita da riscrivere.

Le esperienze individuali degli insegnanti ospedalieri e domiciliari, scaturite da esigenze didattiche a volte “estreme”, come ad esempio studenti che non possono frequentare la scuola per gravi problemi psicofisici,  hanno fornito e continuano a fornire un contesto unico per una profonda riflessione su nuove forme di scolarizzazione e di insegnamento, un insegnamento di tipo “aperto” che, con il supporto delle nuove tecnologie, travalica la consueta dimensione spazio-temporale della classe, pur garantendo la dimensione sociale e comunicativa necessaria al pieno sviluppo del processo di insegnamento-apprendimento.

Il Dirigente Scolastico dev’essere anch’egli messo nelle condizioni di lavorare al meglio, avendo piena consapevolezza del profilo normativo degli interventi didattici ed educativi necessari. Ancor più, se il Dirigente è chiamato a dirigere una sezione ospedaliera, rappresenta una figura di riferimento territoriale con la funzione di counseling operativo, in grado cioè di consigliare, avviare, accompagnare, le azioni e gli interventi del Servizio (SIO/ID). Non va trascurato che, dietro un qualsiasi suggerimento metodologico, in particolare se centrato sull’uso inclusivo delle nuove tecnologie, debba essere sempre prevista una capacità di “leggere” lo specifico caso al fine di indirizzare/consigliare i docenti sull’uso di strumenti e metodi didattico-inclusivi.

 Rispetto alla migliore formazione, iniziale e in itinere, dei docenti e dei dirigenti scolastici, le Scuole Polo regionali hanno negli anni attivato numerosi corsi di formazione e di informazione e curato la pubblicazione degli atti dei convegni/seminari organizzati su temi specifici.

Il Master Universitario di secondo livello sulla Scuola in Ospedale e l’istruzione domiciliare dell’Università di Torino, al quale partecipano, in qualità di docenti e relatori, numerosi nomi autorevoli della medicina e della pedagogia, nazionale e internazionale, è un valido esempio di alta formazione, dedicata ai docenti della scuola ospedaliera. I focus-group, i gruppi di riflessione, i workshop (anche con l’utilizzo di piattaforme, forum online), si stanno rivelando altamente formativi internamente a un’esperienza formativa di questo tipo: agire competenze, condividere conoscenze, affinare capacità di confronto, di accettazione, rilevare resistenze e/o conflitti, per affrontare i possibili fallimenti e rallentamenti o regressioni cognitive, ed eventualmente anche la perdita dell’allievo.

L’analisi di caso e l’incidente critico, consentono ai soggetti la riflessione e la riformulazione di situazioni difficili che richiedono soluzioni efficaci e immediate. L’analogia e la generalizzazione che essi consentono, permettono di ricomporre le tematiche o le situazioni reali sulle quali si deve intervenire, per agire decisioni, soluzioni nel qui e ora, monitorare, verificare, riprogettare.

Le funzioni della scuola polo

La Scuola polo regionale per l’ospedale, oltre a fare un’analisi dei bisogni formativi, a raccogliere e registrare dati ed interventi delle sezioni ospedaliere della propria regione, coordina la realizzazione degli interventi educativo-formativi relativi a tale dimensione formativa, anche con riguardo all’attivazione di laboratori didattici attrezzati presso gli ospedali e favorisce la diffusione e la disseminazione di pratiche educative innovative ed efficaci in tutte le scuole del territorio. Ha un’azione di sensibilizzazione e rappresenta lo “sportello informativo” sul territorio riguardo l’istruzione domiciliare con il ruolo di supportare e formare le scuole che per la prima volta si avvicinano a questa realtà. È anche affidataria delle dotazioni tecnologiche a supporto dell’istruzione domiciliare ed è incaricata della gestione amministrativo-contabile delle risorse.

 Per i ragazzi ricoverati in ospedale, o degenti a casa, le tecnologie della comunicazione possono rivelarsi ottime mediatrici e attenuatrici dell’impatto con la malattia e l’allontanamento dagli ambienti, le abitudini e le relazioni quotidiane e dello smarrimento derivato dall’incomprensione dei linguaggi e dei comportamenti degli adulti estranei.

Con le nuove tecnologie si può tentare di realizzare efficacemente la condivisione degli apprendimenti sperimentati in classe, con regolarità di confronto. In ospedale come a casa viene a mancare la messa alla prova, la sperimentazione diretta, ‘sul campo’, delle acquisizioni maturate, e quindi lo scambio continuativo, esperienziale, fra pari, in una dialettica di crescita.

La Scuola in Ospedale negli ultimi vent’anni è stata terreno privilegiato di sperimentazione e innovazione anche nell’utilizzo delle tecnologie didattiche, sia a supporto della personalizzazione dell’insegnamento, sia a salvaguardia, per quanto possibile, della dimensione sociale dell’apprendimento attraverso il mantenimento, quando possibile e nei limiti imposti dalle terapie, del collegamento con la classe di appartenenza. Far leva sulle tecnologie mobili e di rete permette di dar vita a “spazi ibridi di apprendimento” in grado di favorire l’inclusione socio-educativa di studenti impossibilitati alla normale frequenza scolastica e di sviluppare importanti ricadute sulla crescita professionale dei docenti e sull’innovazione didattica della classe/scuola di appartenenza dello studente homebound.

Progetto di Ricerca Azione

“Crescere insieme a casa di Richy”

La scuola nel percorso di cura delle patologie gravi pediatriche. Un progetto pilota

OBIETTIVI

Quello che invade la vita dei giovani pazienti e delle loro famiglie subito dopo la comunicazione di una diagnosi grave, è un vero e proprio tsunami. Durante il ricovero e i day hospital dei ragazzi, la scuola in ospedale interviene cercando di rendere quanto più possibile “normale” una situazione diventata improvvisamente fuori controllo per l’intero nucleo familiare.

Alla fine del ricovero, se la situazione emergente non permette al giovane paziente di riprendere le attività didattiche nella sua classe di appartenenza, la scuola lo accompagna a casa con l’Istruzione domiciliare.

Ogni bambino è un mondo da rispettare, nella dinamica dell’inclusione.

Con tale intento è stato messo in atto il progetto “Crescere Insieme. A casa di Ricky”.

Ricky a 13 anni ha subito l’amputazione degli arti superiori ed inferiori per un GvHD dopo un trapianto eterologo per una leucemia che lo aveva colpito a 7 anni. Durante i ricoveri era seguito dagli insegnanti della scuola ospedaliera, ma le ore di istruzione domiciliare di cui poteva usufruire una volta a casa, non erano sufficienti per l’intero anno scolastico e per portare a termine i programmi della scuola superiore. La scuola è intervenuta disegnando un progetto sulle esigenze personali di Ricky, che ha previsto la presenza di tutti i suoi compagni di classe.

METODO

Dopo aver suddiviso in piccoli gruppi i ragazzi della classe, sono stati pianificati dei percorsi attivi di lavoro domiciliare, tenendo conto delle esigenze specifiche della programmazione.

Alternandosi nell’impegno i gruppi sono stati accompagnati da un docente responsabile a casa di Richy.   Ogni gruppo ha seguito la lezione presentata dal compagno in ppt. Tutti i presenti si sono arricchiti del lavoro dell’altro, portando a termine gli obiettivi proposti., sia dal punto di vista didattico, che psicologico e sociale.

RISULTATI

Richy si è integrato in un gruppo classe che non avrebbe potuto frequentare a causa della sua grave patologia , ed i suoi compagni hanno riportato ottimi risultati didattici. Ciò conferma un miglioramento dell’autoefficacia attraverso la peer- education, che porta allo sviluppo delle life skills, sia in Ricky che in tutti i suoi compagni.

CONCLUSIONI

Alla fine dell’anno scolastico il progetto ha ricevuto il riconoscimento del sottosegretario alla Pubblica Istruzione, che ha personalmente consegnato gli attestati di merito ai ragazzi della classe e a Richy, che continua a stupirci ogni giorno con la sua grande passione per la vita, che va oltre la sua grave patologia.

Riferimenti normativi

Normativa relativa ai diritti per l’infanzia e l’adolescenza:

  • 1924, Dichiarazione di Ginevra sui diritti del bambino approvata dalla V assemblea generale delle Nazioni Unite.
  • 1948, Costituzione Italiana, art. 32 (diritto alla salute) e art. 34 (diritto all’istruzione).
  • 1948, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
  • 1959, Dichiarazione sui diritti del bambino approvata dall’Assemblea Generale delle 
Nazioni Unite, che prescrive la necessità di offrire ai bambini cura, protezione e spazi dove 
sviluppare la creatività.
  • 1986, Carta Europea dei diritti dei bambini, della “EuropeanAssociation for children in 
hospital”.
  • 1989, Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia.
  • 1992, Legge Quadro n. 104: “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti 
delle persone handicappate”.
  • 1997, Legge n. 285 del 28 agosto 1997, Disposizioni per la promozione di diritti e di 
opportunità per l’infanzia e per l’adolescenza.
  • 1997, Legge n. 440 del 23/12/1997, Istituzione del fondo per l’arricchimento e 
l’ampliamento dell’offerta formativa e per gli interventi perequativi.
  • 2003, Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196: Codice in materia di protezione dei dati 
personali.
  • 2006 – 2009, CCNL Contratto Nazionale Comparto scuola
  • 2011 – 2013, Piano Sanitario Nazionale.
  • 2013, D.M. n. 821/2013, art. 8.
  • 1998, Dichiarazione mondiale sulla salute adottata dall’OMS.

Autonomia scolastica e amministrativa

  • Legge 15 marzo 1997, n. 59, in particolare l’art. 21 relativo all’autonomia delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.
  • Decreto Legislativo 31 marzo 1998 n. 112, relativo al trasferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle Regioni e agli Enti Locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997 n. 59.
  • Decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999 n. 275, con il quale è stato emanato il regolamento recante norme in materia di autonomia didattica e organizzativa delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 Legge n. 59/1997.
  • Legge 8 novembre 2000 n. 328, relativa alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Scuola in ospedale

  • Circolare Ministeriale n. 345 del 12 gennaio 1986: scuole elementari statali funzionanti presso i presidi sanitari.
  • Circolare Ministeriale n. 353 del 7 agosto 1998: Il servizio scolastico nelle strutture 
ospedaliere.
  • Protocollo d’intesa del 27 settembre 2000: Tutela dei diritti alla salute, al gioco, 
all’istruzione ed al mantenimento delle relazioni affettive ed amicali dei cittadini di minore 
età malati.
  • Circolare Ministeriale n. 43 del 26 febbraio 2001: Trasmissione Protocollo d’intesa “Tutela 
dei diritti alla salute, al gioco, all’istruzione ed al mantenimento delle relazioni affettive ed amicali dei cittadini di minore età malati” e protocollo d’intesa “La scuola in strada e nelle zone a rischio”.
  • Protocollo d’intesa MPI-Beni Culturali-Sanità del 23 febbraio 2001
  • Circolare Ministeriale n. 149 del 10 ottobre 2001: La scuola in ospedale. E.F. 2001 – L. 
440/1997. Piano riparto risorse.
  • Circolare Ministeriale n. 84 del 22 luglio 2002: La scuola in ospedale. E.F. 2002 – L. 
440/1997. Piano riparto risorse.
  • Nota prot n. 1391 del 13 settembre 2002: La scuola in ospedale. Anno scolastico 2002/2003. 
Trasmissione Cd Rom “Insegnare in ospedale”
  • Nota Prot. n.696 del 25 agosto 2003: Progetto di ricerca: “La scuola in ospedale come 
laboratorio per le innovazioni nella didattica e nell’organizzazione “. Istituzione Scuole polo ospedaliere.
  • Decreto dirigenziale del 13 ottobre 2004: Istituzione del Comitato tecnico nazionale per la scuola in ospedale.
  • Nota prot. 4308 del 15 ottobre 2004: La scuola in ospedale e il servizio d’istruzione domiciliare. L.440/1997 – E. F. 2004.
  • Nota prot. 5526 del 7 dicembre 2004: Iniziative volte al potenziamento ed alla qualificazione dell’offerta formativa per alunni ricoverati in ospedale o seguiti in day hospital. AA.SS. 2002/2003 e 2003/2004.
  • Nota Prot. n.5483/A4° del 23 settembre 2005: L. 440/1997 – E.F. 2005. Piano di riparto per la scuola in ospedale e l’istruzione domiciliare.
  • Nota Prot. n.2810 del 12 aprile 2006: Richiesta informazioni circa l’utilizzo fondi per il Progetto di ricerca “ La scuola in ospedale come laboratorio per le innovazioni nella didattica e nell’organizzazione”.
  • Nota Prot. n.5296 del 26 settembre 2006: E.F. 2006 – L. 440/1997. Piano riparto risorse per la scuola in ospedale e l’istruzione domiciliare.
  • Nota prot. n. 2870 del 7 giugno 2007: Monitoraggio azioni e risorse per la scuola in ospedale. AA.SS. 2005/2006 e 2006/2007.
  • C.M. n. 108 del 5 dicembre 2007: Piano di riparto delle risorse per la scuola in ospedale e l’istruzione domiciliare. E.F. 2007.
  • Nota prot.n. 2039 del 16 aprile 2008: Giornata di studio e confronto sulle problematiche della scuola in ospedale e dell’istruzione domiciliare. Roma, 20 maggio 2008
  • Nota prot.n. 3260 del 4 luglio 2008: Monitoraggio azioni e risorse per la scuola in ospedale. A. S. 2007/2008.
  • C.M. n.87 del 27 ottobre 2008: Piano di riparto delle risorse per la scuola in ospedale e l’istruzione domiciliare. E.F. 2008.
  • Nota prot. n. 122 del 13 gennaio 2009: Risposta a quesiti sull’attribuzione della quota €. 258,00.
  • Nota prot.n. 3915 del 13 luglio 2009: Monitoraggio azioni e risorse per la scuola in ospedale, A. S. 2008/2009.
  • Nota prot.n. 2701 del 9 aprile 2010: Piano di riparto delle risorse per la scuola in ospedale, E.F. 2009.
  • Nota prot.n. 4870 del 21 luglio 2010: Monitoraggio conclusivo azioni e risorse assegnate alla scuola in ospedale per l’a.s. 2009/2010.
  • Nota prot. n. 5477 del 5 luglio 2011: Monitoraggio conclusivo azioni e risorse scuola in ospedale e Istruzione Domiciliare, assegnate per l’a.s. 2010/2011.
  • Nota prot. n. 7736 del 27 gennaio 2010: Chiarimenti sulla validità dell’anno scolastico, ai sensi dell’art. 14, comma 7 del DPR n. 122/2009.
  • C.M. n. 24 del 25 marzo 2011: Piano di riparto risorse E.F. 2010 e percorsi operativi.
  • C.M. n. 20 del 4/03/2011 (DG Ordinamenti scolastici): Validità dell’anno scolastico per la 
valutazione degli alunni nella scuola secondaria di 1 e 2 grado. Artt.2 e 14 DPR 122/2009
  • C.M. n. 60 del 16/07/2012 (prot. n. 0004439): Indicazioni operative per la progettazione dei percorsi di scuola in ospedale e a domicilio per alunni temporaneamente malati ( a. s. 2012- 
2013).
  • Nota prot. n. 586 dell’11/03/2014: indicazioni operative per la gestione degli interventi 
relativi alla scuola in ospedale e l’istruzione domiciliare. A.S. 2013/2014.
  • Nota prot. n. 4670 del 28/07/2014: Monitoraggio azioni e risorse assegnate per la scuola in 
ospedale e l’istruzione domiciliare. A. S. 2013-2014 ( D.M. n. 821/2013, art. 8).
  • Nota prot.1586 dell’11 marzo 2014
  • Nota prot. n.2939 del 28 aprile 2015

Norme relative alla valutazione

  • DPR 22 giugno 2009, n. 122: Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto-legge 1° settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169.
  • Nota prot. n. 6051 dell’8/06/2009: Valutazione finale degli alunni di scuola secondaria di 1° grado.
  • Nota prot.n. 7736 del 27/01/2010: chiarimenti sulla validità dell’anno scolastico, ai sensi dell’art. 14, comma 7 del DPR n. 122/2009.
  • C.M. n. 20 (prot. n. 1483) del 4 marzo 2011: Validità dell’anno scolastico per la valutazione degli alunni nella scuola secondaria di 1° e 2° grado.
  • D.lgs 62/2017, art 22

Riferimenti specifici per Istruzione Domiciliare

  • Protocollo d’intesa MIUR – Ministero della Salute del 24 ottobre 2003: Servizio d’istruzione domiciliare
  • Vademecum per l’istruzione domiciliare, 2003, prodotto nel Seminario nazionale sul servizio di istruzione domiciliare. Viareggio, 1-2-3 dicembre 2003 (trasmesso a tutte le scuole dalla D.G. per l’organizzazione dei servizi nel territorio).
  • Nota prot. n. 4104 del 4/09/2007: Seminario nazionale di studio e produzione sull’istruzione domiciliare. Viterbo, 26 – 27 settembre 2007.
  • Decreto direttoriale, 16 settembre 2009: Istituzione del Comitato paritetico nazionale per l’istruzione domiciliare.
  • Nota prot. n. 7333 del 15/11/2010: Indagine quanti-qualitativa sull’istruzione domiciliare. Progetto WISE (Wiring Individualised Special Education), sito: http://www.wisefirb.it/, dell’Istituto delle Tecnologie Didattiche del CNR di Genova (http://wise- domiciliare.itd.cnr.it – http://polaris.itd.cnr.it/questionario/index.php?sid=95951&lang=it).

FA CI LE

FA.CI.LE.: progetto inclusivo dell’I.I.S.S. Otranto

L’Istituto Alberghiero di Otranto, insieme ad altre quattro istituzioni scolastiche della Puglia, è stato partner del progetto sperimentale FA.CI.LE. (FormAzione Civico Linguistica E servizi sperimentali), finanziato dal Ministero dell’ Interno attraverso il Fondo Asilo Migrazione ed Integrazione.

Il progetto ha avuto inizio nell’agosto 2017 con la formazione on line e in presenza di docenti coinvolti a vario titolo: Proff. Serena Ampolo e Arianna Guido quali docenti di lingua italiana; Prof. Antonio Rizzo, docente di laboratorio di enogastronomia; Proff. Nicolina Leomanni e Silvia De Mitri, mediatori linguistici; Prof.ssa Lara D’Amore in qualità di tutor, in un corso  volto all’acquisizione delle competenze fondamentali per la didattica della lingua italiana a livello A1 e A2 che ha permesso di acquisire il titolo di certificatori CELI di lingua italiana L2.

Sin dalla prima fase, relativa all’accoglienza, della durata di 20 ore, il gruppo classe composto da 20 alunni, di cui 19 alunni regolarmente frequentanti (7 ragazze e 12 ragazzi), provenienti da paesi d’origine diversi: Nigeria, Senegal, Mali, Costa D’Avorio…, si è presentato piuttosto disomogeneo per provenienza,esigenze e livello di apprendimento. Quattro di loro non hanno mai frequentato la scuola e, alcuni di loro, non comprendevano neanche i messaggi più elementari in lingua italiana.

La convivenza tra i due gruppi, tutti appartenenti a categorie vulnerabili, è stata sin dall’inizio connotata da alcuni episodi di irascibilità e aggressività nei confronti dei ragazzi e dei docenti soprattutto da parte delle ragazze, le quali rappresentavano la parte più schiva del gruppo, poco propensa allo scambio e all’interazione con l’intera classe.

Ha fatto seguito l’azione formativa di base strutturata in due moduli; il primo pari a 100 ore, volto alla certificazione della lingua italiana a livello A1; il secondo pari ad 80 ore per l’acquisizione della certificazione della lingua italiana livello A2. A conclusione l’azione formativa specialistica della durata di 100 ore caratterizzata da attività tecnico pratica di laboratorio di enogastronomia, al fine di acquisire il lessico specialistico e le tecniche di cottura della cucina mediterranea.

A fronte delle difficoltà emerse e a seguito dell’analisi dei bisogni degli alunni, i docenti hanno cercato soprattutto di favorire un’iniziale  interazione e conoscenza fra i membri del gruppo e con i docenti,al fine di creare le basi per un clima di collaborazione e apprendimento per poi passare alla sperimentazione di prassi didattiche con il gruppo classe, così da valutarne gli effetti e da apportare le dovute modifiche.

Alla luce dei dati di partenza e di quelli emersi dall’osservazione in itinere si è optato per le seguenti metodologie didattiche:

  • una comunicazione semplice e diretta all’intero gruppo classe, mediata in caso di incomprensione dal mediatore presente;
  • un approccio esperienziale ai contenuti;
  • un riepilogo costante di quanto appreso nell’/negli incontro/i precedente/i per favorire la conferma dell’apprendimento relativo alle strutture sintattiche di base e al lessico;
  • il lavoro in sottogruppi per garantire a ciascuno uno spazio di espressione di sé;
  • la mediazione di alcuni alunni verso i compagni, laddove inglese e francese non fungessero da lingue veicolari;
  • la visita guidata del centro cittadino della città di Otranto che ospita il corso insieme all’intero gruppo ;
  • l’avvicinamento iniziale di ogni alunno a livello personale per favorire il senso di appartenenza e la familiarità.

Al termine delle attività formative si sono riscontrati risultati positivi in merito alla socializzazione e all’integrazione all’interno di un sistema strutturato da parte di tutti i discenti, i quali hanno acquisito le regole fondamentali della vita scolastica  e delle prassi di laboratorio.

I risultati di apprendimento della lingua italiana L2 sono risultati abbastanza diversificati in relazione alla situazione di partenza, al livello di partecipazione e alle biografie di ciascuno, ma per tutti gli esiti di apprendimento  possono considerarsi positivi in una gradazione che va dalla sufficienza sino all’eccellenza.

L’azione specialistica ha arricchito le competenze in lingua settoriale ed ha permesso a tutti  loro di acquisire il lessico di base e le tecniche fondamentali di “mise en place”, preparazione e servizio della cucina mediterranea attraverso un’analisi sensoriale finale. A ciò si è aggiunta la necessità di rivisitare alcune ricette tradizionali in funzione del loro credo religioso che impone l’osservanza di regole alimentari.

Tra i punti di forza si registra ,inoltre, con successo, l’instaurarsi di un clima sereno e familiare con i docenti che ha permesso a ciascuno di poter sviluppare il proprio potenziale.

Tra le criticità occorre invece sottolineare:

  • la distanza temporale tra la conclusione del modulo formativo di lingua e la calendarizzazione dell’esame di certificazione;
  • la non adeguatezza di alcune prove relative alla certificazione rispetto alle funzioni comunicative richieste dal livello di acquisizione linguistica;
  • la mancata segnalazione di alunni con deficit cognitivo e/o disturbi specifici di apprendimento che abbiamo riscontrato essere presenti nel gruppo e ai quali non c’è stata data l’opportunità di fornire loro strumenti personalizzati adeguati.

Tecnologie ed inclusione: quando la tecnologia a scuola diventa indispensabile per superare le barriere della disabilità

La Scuola è un’istituzione, ma anche un microcosmo, dove tante persone, nella loro diversa normalità, s’incontrano, si confrontano, crescono insieme, apprendono, dubitano di tante certezze, costruiscono la propria identità, ragionano su nuovi valori e ideali, vivono pienamente attimi che costituiranno alcuni dei loro ricordi indelebili.

In un ideale girotondo di unicità, si attuano delle dinamiche, che, al di là degli aspetti comunicativi e relazionali, portano all’arricchimento reciproco e alla revisione del sé, pur in presenza di diversi approcci determinati proprio dalle peculiarità che caratterizzano ogni individuo e la sua storia personale. Tale incontro fra individualità genera magiche contaminazioni ed imprevedibili espansioni sociali, cognitive, emotive, esperenziali. Mai un incontro attraversa le fasi della vita di ognuno senza lasciare un segno, il che, a scuola, si traduce in un’alchimia intangibile ed estremamente delicata tra docenti e discenti.

Nel suo ruolo di mentore, coach e bussola, il docente inclusivo non ha filtri, non ha barriere, non ha pregiudizi, non riconosce l’idea del limite, non ha vincoli se non quello di cogliere, far emergere, tirar fuori e valorizzare talenti, sogni, passioni, interessi e curiosità propri di ogni discente, il quale spesso non è ancora consapevole della propria mirabolante unicità. La paideia aveva come fulcro la valorizzazione delle peculiarità proprie di ciascun alunno, travalicando qualunque programmazione dettata da esigenze terze. L’alchimia propria di un percorso didattico, pregno di nodi e connessioni significative, fluisce spontaneamente verso una fase di catarsi che riqualifica le specificità del singolo e del gruppo in un continuo processo di dilatazioni e trasformazioni.

Aprirsi all’altro, donare parte di sé, auspicare il cambiamento, valorizzare ogni aspetto di uno strabiliante percorso di crescita, coinvolge ed entusiasma ogni attore scolastico, ciascuno nel suo ruolo. Perdono di significato le definizioni, le etichette e i pregiudizi, se il clima è stimolante ed il contesto è pronto ad accogliere ogni nuova avventura. Il docente inclusivo focalizza l’attenzione sull’ambiente di apprendimento, proprio per assicurarsi il ben-essere e l’entusiasmo di ogni studente. La predisposizione del setting viene curata con dovizia di dettagli, partendo dalle documentazioni a disposizione, in modo da impedire la frammentazione ed il carattere episodico di un percorso che perderebbe di significato.

E’ in questa luce che va interpretata l’esperienza  narrata da due team di docenti della scuola primaria dell’Istituto Comprensivo “Sante Giuffrida” di Catania, durante il seminario di documentazione e pubblicizzazione delle buone pratiche “Tecnologie ed inclusione: quando la tecnologia a scuola diventa indispensabile per superare le barriere della disabilità” del 28 maggio scorso, promosso, organizzato e moderato dalla Dirigente Scolastica Maria Concetta Lazzara. Il seminario ha rappresentato un prezioso momento di confronto e riflessione sul ruolo del docente inclusivo e sulle evidenti quanto indispensabili opportunità e facilitazioni offerte dalle nuove tecnologie.

L’animatrice digitale della scuola – insegnante Adriana Daniela Musumeci – ha richiamato l’attenzione sul Piano Nazionale Scuola Digitale e sullo sforzo progettuale ed economico che l’Unione Europea e lo Stato Italiano stanno compiendo per attrezzare tutte le scuole e formare ed aggiornare ogni docente, puntando ad una scuola innovativa e realmente inclusiva, che superi barriere, disuguaglianze e frammentazioni. Per quanto attiene agli aspetti legislativi inerenti il passaggio dall’inserimento all’integrazione e lo sforzo che si sta compiendo per realizzare una scuola inclusiva in una società inclusiva, nonché l’interesse dell’Unione Europea nel certificare le competenze digitali ormai necessarie per acquisire tanto le competenze disciplinari quanto quelle trasversali e di cittadinanza, la scrivente, nel corso del proprio intervento, dopo un excursus storico, si è soffermata sul recente Quadro Europeo delle Competenze Digitali.

Dopo un accurato intervento del Dott. Leonardo Sutera Sardo – responsabile del Centro di Consulenza Tiflodidattica U.I.C. Catania – che ha indotto gli astanti a riflettere sulle specificità del setting e della programmazione didattica di una scuola che accolga e includa un alunno ipovedente, le docenti Nunzia Pellegrino, Maria Luisa Iachelli e Agatina Caruso hanno descritto l’esperienza propria e della loro classe con un bambino che presenta una sensibile riduzione del campo visivo e le cui difficoltà si rilevano maggiormente nella coordinazione oculo-manuale e visuo-motoria.

Grazie all’adozione di una didattica multimediale basata su ausilii tiflotecnologici e tifloinformatici accuratamente selezionati, è stato possibile garantire al bambino la fruizione dei contenuti disciplinari e lo svolgimento di ogni attività didattica in relazione alle diverse discipline, dandogli la possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi formativi ed educativi del gruppo classe.

Il bambino dispone di un banco reclinabile, la cui posizione è determinata dall’attività da svolgere, di un tablet e di un videoingranditore da tavolo, oltre che di software ingrandente, ebook e software didattici specifici, ove possibile con sintesi vocale, soprattutto per la lettura di testi lunghi; inoltre, utilizza autonomamente penne e matite a punta ferma e quaderni con righe e quadri a rilievo in bianco e nero forniti dall’Unione Italiana Ciechi.

In classe vengono abitualmente utilizzati notebook e LIM, che, nel caso specifico, diviene un efficacissimo schermo ingrandente degli ebook in adozione. Quotidianamente si ricorre ad Adobe Acrobat Reader, CmapTools e Mind Map per le mappe, Geogebra e Declic per la geometria, il pacchetto Office per la videoscrittura e la preparazione di presentazioni in slide, la macchina fotografica e la videocamera per le attività laboratoriali e di ricerca-azione. Si ricorre spesso allo scanner per fotocopiare ed acquisire pagine ed immagini, garantendo una migliore nitidezza del contorno delle lettere e, in generale, una qualità molto buona della copia ingrandita. Grazie alle tecnologie quali indispensabili strumenti compensativi e all’uso funzionale delle stesse nella prassi didattica da parte del team docente, il bambino ha raggiunto una buona autonomia operativa, superando le barriere della propria disabilità.

Successivamente, un secondo team, composto dalle docenti Tiziana Milazzo, Deborah Garofalo e Maria Cristina Tudisco, ha descritto l’esperienza particolarmente toccante di inclusività nella propria classe e, grazie a loro, in tutta la scuola. Le capacità motorie di un’alunna della classe sono compromesse al punto da costringerla a stare in posizione supina, 24 ore su 24, sul proprio letto. E’ in grado di muovere gli occhi e di emettere suoni gutturali, con i quali dialoga con le insegnanti ed i compagni di classe in videoconferenza. Muove volontariamente solo l’indice della mano sinistra, grazie al quale gestisce una bacchetta che le consente di scrivere, disegnare ed utilizzare ogni funzione del suo tablet. Le sue capacità cognitive non sono compromesse. Ha senso critico, buona capacità di memorizzazione e tantissima voglia di imparare!

Il mondo per lei era il suo letto, finché le tecnologie non le hanno consentito di superare ogni barriera compensando le funzioni fisiche compromesse, di entrare in relazione con l’esterno, di conoscere, di apprendere, di dialogare, di acquisire una certa autostima, di divenire ogni giorno sempre più autonoma. La docente di sostegno si reca quotidianamente a casa dell’alunna e svolge le attività nella sua stanzetta, utilizzando libri, ebook e il tablet. Si è fatto ricorso a Skype per le videoconferenze, Hub Kids per gli ebook, Adobe Acrobat Reader, Adobe Fill & Sign, Photo Editor, pacchetto Office, diversi software e giochi didattici, anche con sintesi vocale.

Puntando sulla sua spiccata creatività, ad esempio, dopo aver presentato l’argomento didattico del giorno, l’alunna autonomamente cerca con il tablet immagini e video per comprenderlo meglio oppure si fotografa una scheda con il tablet, la si ritaglia con Photo Editor e poi la si apre con una delle applicazioni che consentono di lavorarvi, come Adobe Fill & Sign.

E’ stata prevista la suddivisione dei contenuti in unità parziali autosufficienti per consentirle di sviluppare saperi essenziali e significativi e di accrescere le sue abilità, verificando il percorso attraverso una gamma articolata di feedback, prevedendo tempi flessibili e la possibilità di entrare in relazione in qualsiasi momento con i compagni e i docenti attraverso la videoconferenza. La rete integrata di LIM, software per l’apprendimento, tablet e sintesi vocale hanno permesso di attivare lavori di gruppo, di annullare il suo isolamento e di farla accedere al mondo reale e della conoscenza.

Il seminario si è concluso con un dibattito aperto che ha dato evidenza di quanto la collaborazione sinergica tra la scuola e le famiglie, il CTRH ed i partner quali l’Unione Italiana Ciechi sia determinante nel raggiungimento degli obiettivi didattici e formativi, nonché di quanto le TIC siano fondamentali per superare ogni disuguaglianza e barriera, per garantire la reale inclusione, per consolidare i progressi raggiunti, per incoraggiare l’autoriflessione e l’autovalutazione, migliorando costantemente il processo di insegnamento-apprendimento e le fasi della valutazione e prevedendo, ove possibile, la creazione di nuovi contenuti digitali o la loro manipolazione e reinterpretazione, consentendo a docenti ed alunni di guidare la propria “nave” in autonomia nel mare dei saperi.

Con-TE-sto. Tre sillabe con tanti significati

Con TE sto” perché sto con te e questo lo facciamo insieme! Insieme a te, e a te, e a te e a tutti voi.

E lo facciamo insieme perché insieme è più facile capire, perché basta uno sguardo, una piccola smorfia, una domanda ingenua per condividere un’emozione, per vivere un’esperienza.

Gli alunni delle classi IV e V delle scuole primarie “I. Calvino” e “S. Foruli” dell’Istituto Comprensivo “Comenio” di Scoppito, il 6 aprile 2009 avevano pochi mesi, o poco più di un anno. Non potevano capire come fosse cambiato il contesto di ciò che li circondava. Hanno vissuto i loro primi anni di vita pensando che quella fosse la normalità. Ma non avevano, per fortuna, vissuto consapevolmente il dramma.

Nella visita ad Amatrice, ormai capaci di vedere ciò che il sisma lascia al suo passaggio, cresciuti abbastanza da avere coscienza del vuoto interiore della perdita di luoghi amati, hanno convissuto il dolore con i loro coetanei che si sono visti strappare la casa, la scuola, il quartiere.

L’uscita, voluta fortemente dal nostro Dirigente Scolastico, prof. Gilberto Marimpietri, sempre sensibile nel rispondere a occasioni di crescita per i suoi ragazzi e sostenuta nel trasporto dal Comune di Scoppito, aveva un diverso obiettivo.

In un altro contesto si parlerebbe di una azione di sensibilizzazione: i responsabili del progetto ” A Scuola con il CAI” – “I SENTIERI FANNO SCUOLA” hanno parlato di scelte di vita in quanto la montagna è la loro fabbrica, il loro ufficio, la loro bottega a cielo aperto.

La montagna è per Amatrice, infatti, la più importante fonte di reddito, così come le bellezze monumentali lo sono per L’Aquila.

E la montagna è lì, non offesa dal terremoto, integra nella sua bellezza, con un solo nemico, la nostra indifferenza.

Un sentiero, verso una meta con un nome quasi magico per le orecchie dei ragazzi, affrontato con zaino in spalla e scarpe da escursione, si è trasformato in un’aula didattica decentrata, mobile, interdisciplinare, viva, condivisa.

Ogni elemento del percorso è stato motivo di domande e di dialogo tra gli alunni.

Un “non ho capito” spiegato dal compagno vicino, con le sue parole, che sono le loro. “Non mettere i piedi sui sassi che si muovono” si raccomandavano l’un l’altro, dopo l’iniziale avvertimento della guida. “Guarda, quello è un faggio, l’ha detto il maestro Mauro”.

In un continuo scambio interpretativo docente-discente ha preso vita, in un con-TE-sto, un voler crescere insieme.

Una crescita diversa, anch’essa solidale, si è manifestata nei bambini delle classi prima e seconda della Scuola Primaria Italo Calvino, dell’Istituto Comprensivo “Comenio” alla giornata conclusiva del Progetto “Ma cosa mangi? (In fuga dal glutine)”, promosso dall’AIC Abruzzo, che si è tenuta a Città S.Angelo, in provincia di Pescara, il 17 maggio 2018.

Un’aula didattica decentrata con 1.300 allievi, che più sono piccoli, più è stretto il cerchio che si forma ed è difficile tenerne lontani i componenti, in un’unica classe di cappellini verdi, bianchi e rossi e con un unico argomento.

Un’esperienza, tutta gioiosa, nata da lontano in un momento laboratoriale su temi che avevano già affrontato a scuola, nell’aula con le pareti, e sui quali avevano lavorato tanto, con impegno serio e costante, per produrre gli elaborati grafici che avrebbero partecipato al concorso.

E durante i laboratori l’attesa, l’ansia positiva, il brusio: “Ma abbiamo vinto? Tu che dici?” “Non lo so…siamo in tanti.” Piccoli attimi di distrazione dalle attività proposte, che hanno spaziato dai laboratori di street art,  alle interviste ai partecipanti per la realizzazione di una cronaca del progetto, fino alla scrittura di un sogno di classe, che si moltiplicavano all’avvicinarsi del momento della premiazione.

Quindi, tutti insieme, nella composizione di un brulicante e vivo tricolore nel parcheggio del Palazzo Comunale di Città S.Angelo, in attesa della cerimonia, con un altro momento di condivisione di tante piccole aspettative.

Finalmente, dal palco qualcuno annuncia che loro, proprio loro, sono i vincitori del primo premio, quello dedicato alle scuole primarie e, una zona-verde, la parte della bandiera più lontana dal palco, quella occupata dagli allievi delle scuole della provincia dell’Aquila, si è improvvisamente animata, con una trentina di cappellini che non riuscivano più a stare seduti, mentre il loro lavoro, quello realizzato con entusiasmo e vera motivazione sotto la guida delle insegnanti Di Stefano e Mastropietro, veniva proclamato vincitore.

Infine l’enorme aula didattica decentrata ha nuovamente modificato i sui confini invadendo il centro storico della città, occupandone piazze e vie con panche e tavoli imbanditi per il menù previsto, in un’altra condivisione vissuta con una alimentazione adatta a tutti, in un laboratorio sul campo che ha coinvolto più di mille bambini.

Questa la cronaca di due momenti vissuti in un’aula didattica decentrata, uno organizzato dal CAI e uno dall’AIC, che,  in un casuale gioco anagrammatico hanno permesso di sviluppare l’esperienza “con Te sto” di vera crescita emozionale e sociale.

Dirigente Scolastico I.C.  “Comenio” Scoppito – L’Aquila Prof. Gilberto Marimpietri

Coordinatore del Progetto “A scuola con il CAI” – “I sentieri fanno scuola” I.C.  “Comenio” Scoppito – L’Aquila ins. Ciotti Mauro Coordinatrice del Progetto “Ma cosa Mangi; In fuga dal glutine” I.C. “Comenio” Scoppito – L’Aquila ins. Paola Rita Passi

Alternanza Scuola- Lavoro

L’idea di introdurre l’alternanza scuola- lavoro è nata, non solo per ottemperare ad una normativa, ma per migliorare una scuola che opera nella formazione di alunni orientati al mondo del lavoro e per attuare una metodologia didattica basata sul “saper fare”. Quindi, per favorire l’apprendimento di tutti e avvicinare la formazione fornita dal mondo della scuola alle competenze richieste dal mercato del lavoro attuale, è necessario sperimentare “altre” metodologie didattiche. A tal fine è necessario e fondamentale sia prendere atto della domanda del mercato locale per la definizione dei curricoli legati alla creazione di figure professionali adeguate, che coinvolgere il mondo nel lavoro (MdL), quale Parte interessata e fruitore diretto di ciò che lo studente ha appreso nella formazione. Gli studenti e le loro famiglie chiedono di soddisfare, una volta  conseguito il titolo di studio, i bisogni legati ai propri interessi, desideri, aspirazioni e all’inserimento lavorativo.

Con le leggi 107 del 2015 e 128 del 2013, l’ASL è stata riscritta e ripensata e soprattutto resa obbligatoria per tutti i ragazzi dell’ultimo triennio delle scuole superiori. Con la legge 107 l’esperienza dell’alternanza scuola lavoro è stata generalizzata per un periodo complessivo di 400 ore per i ragazzi dei professionali e dei tecnici e di duecento ore per gli studenti dei licei.

Il termine alternanza ha diversi significati: il primo più ampio, correlato al diritto dovere di istruzione e formazione fino a 18 anni o comunque fino all’ottenimento di una qualifica, in cui per alternanza può essere intesa una generica strategia formativa che prevede una integrazione delle modalità di insegnamento tipiche dell’ambiente formale/scolastico con quelle possibili anche in un ambiente di lavoro; quello, invece, più specifico per il quale l’alternanza indica una metodologia didattica di insegnamento- apprendimento, che valorizzi la dimensione culturale ed educativa del lavoro, che favorisca l’acquisizione e  l’organizzazione delle conoscenze, delle abilità e delle competenze attraverso l’esperienza operativa, laboratoriale o reale.

La diffusione di forme di apprendimento basato sul lavoro di alta qualità è al cuore delle più recenti indicazioni europee in materia di istruzione e formazione ed è uno dei pilastri della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente sostenibile e inclusiva e si è tradotto nel programma europeo di istruzione formazione “Education and Training 2020”. L’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro è finalizzata ad innalzare gli standard di qualità e il livello dei risultati di apprendimento per rispondere adeguatamente al bisogno di competenze e consentire ai giovani di inserirsi con successo nel mondo del lavoro.

La mission generale dell’istruzione e della formazione comprende obiettivi quali la cittadinanza attiva, lo sviluppo personale e il benessere, ma richiede anche che siano promosse le abilità trasversali tra cui quelle digitali necessarie affinché i giovani possono costruire nuovi percorsi di vita e lavoro. L’Alternanza scuola-Lavoro è una strategia sistemica introdotta dalla legge n. 53/03, art. 4, che consiste nel superamento dello “scolasticismo” e del mero studio nozionistico.  E’ utilizzata per gli studenti che hanno compiuto il sedicesimo anno di età e consente di realizzare gli studi del secondo ciclo anche alternando periodi di studio e di lavoro, sia all’interno del sistema dell’istruzione secondaria superiore che della formazione professionale. Questa modalità consente di motivare e orientare gli studenti, diffondere la cultura del lavoro e far acquisire loro competenze spendibili nel mondo del lavoro e delle professioni.

Molte scuole d’Italia avevano già sperimentato il progetto dell’alternanza scuola/lavoro prima che fosse inserito nell’attuale piano di Riforma della Scuola. Questo ha permesso di avere un sostrato di esperienza e una prima documentazione cui riferire l’innovazione nel percorso formativo. La scuola deve essere aperta al territorio e soddisfare le richieste dell’utenza, principi cardine che stanno alla base di ogni Istituzione scolastica, ed in tal senso lo stage permette l’inserimento dei ragazzi nel mondo del lavoro ed è finalizzato a far acquisire agli studenti qualifiche professionali e professionalità strettamente legate allo sviluppo economico e produttivo del territorio.

A ciò dobbiamo aggiungere anche la sempre maggiore aspettativa degli alunni che chiedono di poter operare in una forma strettamente connessa al mondo del lavoro. Oggi i giovani conoscono il lavoro solo dai libri di scuola o dai vissuti personali dei genitori o dei propri docenti. Vi è quindi la necessità di azioni specifiche mirate a far conoscere i diversi settori lavorativi e quelli che offrono le maggiori opportunità di lavoro nonché le competenze e le capacità necessarie per svolgere una professione. Le qualifiche professionali conseguibili sono quelle previste dal sistema della formazione. Per realizzare questo occorre la collaborazione stabile e continuativa di un consistente numero di aziende disposte ad investire sui giovani e con la scuola. Lo stage o traning viene valutato in termini di crediti formativi certificati dall’ente promotore e può essere utilizzato “per l’accensione di un rapporto di lavoro”, secondo quanto disposto dalla Legge 24 giugno 1997, n.196.

Fermo restando quanto previsto dall’art.18 (“tirocini formativi e di orientamento”) della suddetta legge, va comunque precisato che, rispetto alle esperienze di stage e tirocinio, l’alternanza si qualifica come una opzione pedagogica forte e come un nuovo stile di insegnamento e di apprendimento. Pertanto, la didattica dell’alternanza non è caratterizzata dal fatto che si svolga in orario aggiuntivo e non costituisce un’esperienza occasionale, ma è una metodologia di apprendimento sul campo che, a pieno titolo, richiede l’utilizzo del tempo scuola.

Naturalmente, tra i soggetti deputati a contribuire con il loro ruolo istituzionale alla trasformazione in atto nel mondo della scuola, troviamo anche il mondo imprenditoriale e, nello specifico le Camere di Commercio, le imprese e/o le rispettive associazioni di rappresentanza.

Il credito formativo rappresenta un requisito essenziale per l’apprendimento lungo il corso della vita, long life learning, nella logica dell’economicità del sapere.

L’asl, inoltre, permette di coinvolgere nel processo educativo oltre agli studenti ed agli insegnanti, anche le aziende che ospiteranno le alunne e gli alunni nel percorso di alternanza e le famiglie degli studenti.

Il tirocinio rappresenta un importante investimento sulle risorse umane ed una valorizzazione dei saperi. Inoltre il succitato art. 4 della legge 53/2003 prevede la necessità di estendere i tirocini formativi a tutti i percorsi di istruzione e formazione, come strumenti indispensabili per il raccordo tra formazione e lavoro.

In merito al succitato argomento, ho avuto il piacere e l’onore di conoscere la referente dell’USP di Catania prof.ssa Rosalba Laudani, che si è offerta di rispondere alle domande specifiche e dettagliate sull’ASL.

  1. Che cos’è per lei l’alternanza scuola-lavoro?

Potremmo intendere l’Alternanza Scuola–Lavoro (ASL) come un modello di apprendimento innovativo che permette ai ragazzi della scuola secondaria superiore, di età compresa tra i 15 e i 18 anni, di svolgere il proprio percorso di istruzione affiancando un periodo di formazione teorica in classe con uno di esperienza sul campo presso un’azienda o presso un Ente.

Questa metodologia consente di avvicinare il mondo della scuola a quello del lavoro contribuendo all’orientamento degli studenti e, allo stesso tempo, all’acquisizione di competenze trasversali coerenti con le indicazioni dell’UE.

L’ASL rappresenta uno dei temi più accesi nel dibattito sulla L. 107/2015, la cosiddetta BUONA SCUOLA. Si tratta di un dibattito tra voci discordanti: da una parte coloro che sostengono che l’ASL rappresenti un’innovazione didattica necessaria per creare un collegamento vero tra scuola e lavoro, cioè tra presente e futuro; all’estremo opposto, coloro che sostengono che essa sia una forma subdola di sfruttamento del lavoro, per di più spesso non coerente con i percorsi formativi scolastici.

Ritengo, personalmente, che si dovrebbe cercare il modo di avvicinare le due posizioni estreme; si potrebbe, magari, partire dal termine “ALTERNANZA”, che pone la scuola e il lavoro su due posizioni alternative e sostituirlo con il termine FORMAZIONE SCUOLA-LAVORO, che riposiziona le due parti sullo stesso piano, quello della formazione dello studente.

  1. Qual è il tipo di rapporto che intercorre tra Lei, referente regionale per le attività di ASL, e le istituzioni scolastiche?

Io inizio il mio mandato in un contesto, quello della provincia di Catania, che ha già esperienza di progettazione di ASL. Molte Scuole hanno già avviato interessanti e positive esperienze presso Aziende e Enti del territorio, tuttavia molti sono ancora i punti deboli, primo tra tutti quello di trovare partner e strutture ospitanti e subito dopo quello di integrare i nuovi obiettivi e le nuove attività nei piani di studio degli studenti, cercando di “ritagliare” le 200/400 ore triennali di attività in ASL senza intaccare le ore di didattica precedentemente destinate alle attività curricolari tradizionali.

Il mio ruolo si esplica, pertanto, nel fornire supporto alle istituzioni scolastiche attraverso una preliminare raccolta di bisogni e/o segnalazioni per facilitare la ricerca di partner aziendali o professionali. Tutto attraverso una rete di contatti anche con ANPAL servizi che mette a disposizione tutor preparati per coadiuvare le scuole nella costruzione di percorsi di qualità con le imprese.

Ho, prioritariamente, recepito la richiesta dei Licei che segnalano qualche difficoltà in più rispetto ai Professionali e agli Istituiti Tecnici nella co-progettazione di percorsi formativi in ASL in linea con i piani di studio e le competenze di indirizzo.

L’Ufficio VII dell’Ambito Territoriale (A.T.) di Catania, in cui opero, si è posto come interfaccia tra alcuni Ordini Professionali e le Istituzioni Scolastiche. Sono stati siglati Protocolli di Intesa che hanno favorito la stipula di convenzioni triennali tra Scuole e Professionisti per l’avvio di attività di formazione.

Nasce con questi presupposti la collaborazione tra A.T. di Catania e gli Ordini Professionali dei Commercialisti ed Esperti Contabili, degli Ingegneri e degli Architetti P.P.C. Collaborazione formalizzata con protocolli di intesa triennali che definiscono gli ambiti di azione dell’ASL per la formazione sul campo dei giovani studenti, in attesa che il Registro nazionale per l’alternanza scuola lavoro assuma la piena operatività.

L’Intesa con la Società Aeroportuale di Catania (SAC) ha coinvolto 17 Scuole della provincia e circa 1500 studenti accolti in formazione prima sulla sicurezza sui posti di lavoro e poi guidati alla conoscenza della organizzazione e gestione di sistemi complessi com’è quello aeroportuale, luogo di scambi internazionali e servizi ad alto contenuto professionale e tecnologico.

Il protocollo d’intesa siglato con la società Sidra Spa,  con il quale si è promossa la realizzazione di progetti di ASL, attraverso percorsi formativi che combinano lo studio teorico d’aula con forme di apprendimento pratico svolte in un sistema organizzativo complesso come l’acquedotto SIDRA , al fine di rendere gli studenti e le  studentesse in grado di acquisire conoscenze, abilità e competenze in merito al funzionamento del sistema acquedotto, agli aspetti normativi di settore e gestione tecnico-amministrativi, alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Agli studenti viene assicurata la possibilità di acquisire e sviluppare competenze inerenti la tutela dell’ambiente: riconoscimento di fattori inquinanti, concetto di potabilità, uso consapevole dell’acqua potabile.

Non solo quindi possibilità di sviluppare competenze strettamente inerenti al “lavoro negli impianti” di gestione delle acque, ma opportunità per sviluppare competenze di cittadinanza, come chiede la normativa.

  1. Che tipo di rete è riuscita a creare per supportare le Scuole?

Il mio ruolo di mediazione tra USR AT Catania – Istituzioni scolastiche – ANPAL servizi aziende – Enti è stato per l’appunto finalizzato alla facilitazione del dialogo tra scuole e aziende, ordini professionali, enti, in sinergia con gli esperti di ANPAL servizi.  Sono state create collaborazioni con Camera di Commercio, Confindustria, Confcommercio, Confcooperative e con la Sovrintendenza ai Beni culturali, allo scopo di supportare le scuole nella costruzione di percorsi di qualità. L’idea è quella di permettere il passaggio da una istruzione percepita spesso dagli studenti come «inerte» ad una scuola «viva», in grado di fornire ai giovani un “curricolo per la vita”, ricco di risorse culturali, di esperienze autentiche e di competenze che consentano loro di assumere in modo autonomo e responsabile il proprio progetto di vita e di lavoro attraverso un’alleanza formativa tra sistema scolastico e sistema produttivo.

Mettere in campo tante forze e tante professionalità è fondamentale considerato che   si tratta di un passaggio culturale complesso e assolutamente nuovo per la nostra società improntata ancora al modello educativo dei “due tempi”, prima studio e poi lavoro.

Nel mondo della scuola italiana l’idea della valenza educativa di esperienze di work based learning, già consolidata con successo in altri sistemi formativi europei e non europei (in particolare secondo il modello “duale”), appare ancora poco condivisa.

  1. Secondo le sue conoscenze, c’è differenza di organizzazione/gestione delle attività di ASL tra Nord e Sud?

È inutile negarlo, il divario tra Nord e Sud esiste, per differenti e molteplici motivi.

Il primo potrebbe essere di natura culturale, come precedentemente osservato, per cui i due momenti di studio e di lavoro sono, più che in altri contesti, ritenuti temporalmente staccati e susseguenti.

Il secondo, a mio avviso più importante e reale, consiste nella difficoltà di reperire strutture ospitanti e comunque strutture aziendali abbastanza capienti da ospitare “grandi numeri” di alunni.

Fino a qualche tempo fa il registro dell’alternanza era pressoché inesistente e i percorsi di alternanza scuola-lavoro che gli studenti dovevano svolgere erano spesso  affidati alle conoscenze personali dei docenti.

Quest’anno, con l’introduzione del suddetto registro, la situazione è cambiata, in quanto il numero delle  aziende che si sono registrate è aumentato.

Un problema non meno trascurabile  è quello riguardante i costi dei trasporti dalla scuola all’azienda, soprattutto per le scuole localizzate fuori le città, il cui onere principale  è spesso a carico delle scuole.

Sarebbe auspicabile che  la differenza finora rilevata  tra le regioni italiane, che registrano percorsi di alternanza scuola-lavoro di più facile realizzazione per il Centro-Nord rispetto al Sud che  evidenzia scarse prospettive di lavoro, sia ridotta quanto più possibile.

Ciò al fine di evitare ricadute negative sul futuro lavorativo degli studenti meridionali, costretti quasi sempre a fare i conti  con problematiche che spesso impediscono di mettere in atto le personali capacità intellettuali e per creare, invece, pari opportunità formative anche per coloro  che vivono in regioni d’Italia meno “attrezzate” al riguardo.

  1. Obiettivi futuri?

Credo che il progetto di ASL sia appena iniziato e che gli sviluppi saranno notevoli e di grande efficacia. Occorre qualche piccolo aggiustamento organizzativo, ma sono certa che attraverso l’azione sinergica di tutti – Scuole, aziende, studenti, famiglie – si potranno raggiungere in tempi brevi ottimi traguardi in termini di formazione.

Vorrei, perciò, continuare in questa particolare attività di coordinamento e di supporto perché mi sento parte attiva di questo processo innovativo.

trofeo scacchi a scuola

Trofeo Scacchi Scuola

Domenica 13 maggio si è concluso nella funzionale sala del palacongressi “Pala Dean Martin” di Montesilvano (Pescara) il Trofeo Scacchi Scuola organizzato dalla Federazione Scacchistica Italiana in collaborazione con il MIUR e il Coni Abbruzzo. La manifestazione iniziata il 10 maggio ha visto coinvolti 1724 studenti, suddivisi in 356 squadre (di cui 150 totalmente femminili), provenienti dalle scuole di tutta Italia per contendersi il titolo di campione nazionale nelle categorie Primarie, Ragazzi, Cadetti, Allievi e Juniores (femminili e maschili). Un lavoro immenso che si è potuto concretizzare grazie allo sforzo dei Dirigenti Scolastici, dei docenti e delle famiglie.

Questa massiccia partecipazione dimostra che ormai la disciplina degli scacchi si sta affermando sempre di più nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado. Il gioco degli scacchi permette di conseguire diverse finalità che rientrano nell’ambito degli obiettivi educativi e didattici generali. In particolare l’apprendimento dei concetti teorico-pratici elementari del “Nobil gioco” favorisce lo sviluppo del pensiero formale, la fiducia nei propri mezzi, il rispetto delle opinioni degli interlocutori, l’accettazione del confronto e favorisce l’integrazione della disabilità e delle diverse etnie.

Questo anche in linea con quanto deliberato dal Parlamento Europeo in data 15 marzo 2012 che ha approvato la “Dichiarazione Scritta 50/2011” – presentata a norma dell’articolo 123 del regolamento – nella quale si invitano formalmente le Nazioni che fanno parte dell’Unione Europea ad inserire gli Scacchi tra le materie curriculari della Scuola. Certo la strada è ancora molto lunga e le difficoltà non mancano perché si possa inserire la disciplina tra le materie curricolari, ma è anche vero che gli scacchi stanno trovando sempre più spazio tra le attività extracurricolari dell’offerta formativa.

Per consultare i risultati e le classifiche del Trofeo consultare l’indirizzo http://www.fideacademy.com/tss-turni-e-risultati/.

Fermare il cyberbullismo

Fermare il cyberbullismo con una comunità competente

Essere competenti per essere sicuri online

“Cyberbullismo: minacce digitali e rischi connessi” è il percorso formativo con cui l’I.C. Vittorio Alfieri di Taranto ha messo in campo la propria strategia “Fermare il cyberbullismo con una comunità competente”.

Il corso è stato rivolto ai genitori degli allievi dell’Istituto scolastico e finanziato dal Piano Operativo Nazionale come modulo del progetto “DIVERSAMENTE A SCUOLA: insieme si può fare!”.

L’intervento, della durata di 30 ore, ha informato/formato i genitori su come essere “guide competenti” dei propri figli nell’uso degli strumenti ed ambienti digitali seguendo un format utilizzato anche in altre scuole.

Scuola e famiglia, nell’esperienza d’apprendimento, si sono coordinate per tracciare una strategia condivisa di educazione alla cittadinanza digitale dei minori.

L’idea chiave su cui è stata sviluppata l’esperienza è che la sicurezza online dei nuovi cittadini è strettamente legata al loro livello di competenza digitale. Non si può contrastare il cyberbullismo se non si offre ai giovani studenti il supporto congiunto di scuola e famiglia per:

  • “far crescere” lo spirito critico
  • consolidare l’autonomia
  • allenare la capacità di affrontare situazioni problematiche.

L’attività è stata strutturata partendo dall’analisi dell’esperienza quotidiana vissuta dai genitori e dai minori valorizzando le testimonianze raccolte durante il corso e nel percorso di approfondimento “Nuovi cittadini competenti digitali” che vede gli studenti protagonisti di azioni didattiche sul tema della cittadinanza digitale (e della sicurezza online).

Cyberbullismo: minacce digitali e rischi connessi” rientra, inoltre, in un progetto di educazione digitale più ampio realizzato dall’Istituto scolastico presentato nell’ambito dell’edizione 2018 di Didamatica nel paper scientifico “DigComp 2.1, DigCompOrg e DigCompEdu nella Scuola. Esperienze di apprendimento per studenti, famiglie, personale scolastico”.

Cittadini e genitori

Qual è stato il ruolo della mamma o del papà che hanno frequentato il percorso formativo?

I genitori sono stati formati nel duplice ruolo di cittadini e responsabili dell’educazione digitale dei propri figli e sono stati coinvolti attivamente nel percorso attraverso l’uso di strumenti digitali e ambienti online. Per il progetto è stato creato un ambiente digitale dedicato (http://www.cittadinanzadigitale.eu/cyberbullismo/).

I corsisti, in fase di accoglienza, sono stati guidati a realizzare una prima auto-valutazione della propria competenza digitale utilizzando il tool Europass e, successivamente, a confrontarsi con il modello DigComp a cura del Centro comune della Commissione europea.

Il modello DigComp è un quadro comune per le competenze digitali, costituisce un punto di riferimento per le iniziative degli stati membri volte a sviluppare e migliorare le competenze digitali di tutti i cittadini. Individua e descrive le competenze digitali in termini di conoscenze, abilità e atteggiamenti, fornisce una definizione dinamica della competenza digitale che non guarda all’uso di strumenti specifici, ma ai bisogni di cui ogni cittadino della società dell’informazione e comunicazione portatore:

  • bisogno di essere informato,
  • bisogno di interagire,
  • bisogno di esprimersi,
  • bisogno di sicurezza,
  • bisogno di gestire situazioni problematiche connesse agli strumenti tecnologici ed ambienti digitali.

La competenza digitale, una delle otto competenze chiave europee a cui l’offerta formativa della scuola italiana fa riferimento, come indicato nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del 2012, si declina anche come “competenza in sicurezza” (protezione della privacy, dei dati, degli strumenti, della reputazione online, ecc.).

Il percorso ha fornito ai genitori riferimenti e indicazioni concreti per la tutela della sicurezza online dei minori e si è focalizzato sulla stretta connessione tra la dimensione analogica e quella digitale nella vita dei cittadini di ogni età.

Tra le 21 competenze digitali indicate nel DigComp (2.0/2.1) sono state selezionate:

  • 2.5 Netiquette

Essere consapevoli delle norme di comportamento e know-how mentre si utilizzano tecnologie digitali e si interagisce in ambienti digitali. Adattare le strategie di comunicazione ad un pubblico specifico ed essere consapevoli di diversità culturali e generazionali negli ambienti digitali.

  • 2.6 Gestire l’identità digitale

Creare e gestire una o più identità digitali, essere in grado di proteggere la propria reputazione, occuparsi dei dati prodotti mediante l’uso di diversi strumenti digitali, ambienti e servizi.

  • 4.2 Proteggere i dati personali e la privacy

Proteggere i dati personali e la privacy in ambienti digitali. Sapere in che modo utilizzare e condividere dati personali proteggendo se stessi e gli altri da eventuali danni. Essere a conoscenza che i servizi digitali utilizzano una “Privacy policy” per informare su come i dati personali sono utilizzati.

  • 4.3 Tutelare la salute e il benessere

Saper evitare rischi e minacce al benessere fisico e psicologico durante l’utilizzo di tecnologie digitali. Essere in grado di proteggere se stessi e altri da possibili pericoli in ambienti digitali (ad esempio cyber bullismo). Essere a conoscenza delle tecnologie digitali per il benessere e l’inclusione sociale.

e intorno a queste si è sviluppata l’esperienza formativa che è stata articolata in 4 fasi (dedicate all’ascolto dei bisogni, all’informazione/formazione, alla sperimentazione di strumenti ed ambienti  e alla valutazione).

L’attività è stata condotta utilizzando risorse ed ambienti digitali che i corsisti hanno fruito ed “abitato” utilizzando i loro device, con l’obiettivo di consentire loro di sperimentare in modo diretto quanto previsto dall’azione #6 del Piano Nazionale Scuola Digitale (Bring Your Own Device).

Tra le attività è stata effettuata la navigazione guidata delle diverse sezioni del sito del Safer Internet Centre Italia (http://www.generazioniconnesse.it ) che è servita da stimolo per il dibattito, la comprensione di espressioni e fenomeni (sexting, grooming, hate speech, …), l’apprendimento tra pari e la produzione collaborativa di output che hanno richiesto anche il contributo degli studenti.

Strumentale all’individuazione di comportamenti scorretti che mettono a rischio la sicurezza e il benessere del minore è stata la consultazione dei termini d’uso di Facebook, YouTube, Instagram, WhatsApp,… È stata, purtroppo, confermata la tendenza a non rispettare le indicazioni in merito all’età richiesta per l’accesso ed uso dei servizi anche per una sottovalutazione dei possibili pericoli da parte dei genitori e/o per evitare l’esclusione dal gruppo dei pari.

Notevole interesse è stato registrato in merito:

  • alle indicazioni fornite per impostare il “parental control
  • al Pan European Game Information (PEGI), il metodo di classificazione dei videogiochi attraverso categorie di età e otto descrizioni di contenuto,
  • all’analisi della Legge del 29 maggio 2017, n. 71 – Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo.

Tra i prodotti realizzati nell’ambito dell’esperienza di apprendimento, e resi accessibili attraverso l’ambiente web del progetto, si segnalano:

  • “La scuola laboratorio di innovazione” (carte per stimolare il dibattito tra il personale della scuola),
  • “Sei un genitore? Mettiti alla prova!” (test delle competenze digitali dei genitori di nuovi cittadini).

Banzi: una scuola aperta al mondo

Al Banzi in aumento il numero di studenti in mobilità individuale

Incoraggiare, accompagnare e valorizzare le esperienze di studio all’estero

Maddalena, Michela, Ludovico, Carlo, Riccardo, Maria Cristina, Ludovica, Chiara, Enrico, Pantaleo, Francesca, Viola… e tanti altri nomi a cui corrispondono tanti giovani studenti che in venti anni ho visto partire dal Liceo Scientifico Banzi Bazoli  per fare un’esperienza di studio all’estero. Molti di loro brillanti e determinati: la decisione  è stata coerente con la loro voglia di conoscere che già a scuola manifestavano; altri, invece, hanno stupito tutti con una scelta di percorrere sentieri nuovi, maturata in un’adolescenza molto tranquilla e protetta dalla consuetudine quotidiana. Eppure tutti sono tornati uomini e donne, a cui la vita aveva insegnato tanto nel periodo trascorso lontano dalla propria casa e dalla propria scuola.

Queste esperienze di mobilità, che nei primi anni coinvolgevano pochissimi studenti, nel tempo sono diventate sempre più diffuse, fino ad arrivare, oggi, ad un numero molto elevato: nel prossimo anno scolastico quattordici studenti, di cui nove per un intero anno, seguiranno un percorso di formazione all’estero. Sono numeri significativi che si spiegano non solo alla luce della nota MIUR del 10 aprile 2013, intitolata “Linee di indirizzo sulla mobilità studentesca internazionale individuale”, con la quale il Ministero sostiene le esperienze di mobilità internazionale degli studenti e regolamenta il riconoscimento degli studi effettuati all’estero ai fini della riammissione nella scuola italiana; così come invita a “valorizzare la presenza di studenti stranieri all’interno delle classi per favorire una crescita partecipata di tutte le componenti scolastiche stimolando l’interesse e la curiosità per culture diverse dalla propria”.

E’ certamente innegabile l’impatto su larga scala che essa ha avuto, dal momento che ha spinto le scuole a sciogliere dubbi, ad interrogarsi sull’internazionalizzazione della propria offerta formativa, a fare rete per mettere a sistema quanto di positivo già realizzato, tuttavia ciò che incentiva queste esperienze è la qualità delle stesse, a cui la scuola di provenienza contribuisce in maniera determinante. Il Liceo Banzi, già da decenni, grazie alla collaborazione con AFS Intercultura onlus, opera nella direzione indicata dal MIUR nel 2013.

La passione, la lungimiranza, l’intelligenza dei docenti e dei dirigenti che in questi anni si sono succeduti, insieme alla collaborazione con i volontari di Intercultura hanno reso possibile una scuola aperta al mondo, che incoraggia, accompagna e valorizza le esperienze di mobilità. Tutto ciò spiega lo slancio verso esperienze formative all’estero di studenti e famiglie, che consentono di realizzare iniziative di educazione interculturale di vario tipo, come gli scambi-classe e la Settimana Interculturale Salentina, giunta ormai alla sua undicesima edizione. E’ un circolo virtuoso che coinvolge attori diversi, ma che vede la scuola protagonista di un cambiamento nel modo di intendere la formazione dei giovani. Ogni studente che parte e ogni studente che arriva da un altro paese invitano a ragionare sugli assi portanti delle discipline, a riflettere sulla didattica, a coltivare aspettative alte sul successo scolastico dei propri alunni.

Sicuramente la didattica tradizionale, fondata sulla lezione frontale, non favorisce queste esperienze, ma oggi sono sempre più condivise metodologie didattiche di tipo inclusivo, come la flipped classroom. La riduzione della lezione frontale a vantaggio di una didattica laboratoriale facilita le esperienze di studio all’estero degli studenti italiani e l’inserimento degli studenti esteri nella scuola italiana con una ricaduta positiva su tutto il gruppo classe, coinvolto in attività di lavoro di gruppo e di peer education. La mobilità studentesca, pertanto, è anche un volano che spinge la scuola a sprovincializzarsi, a confrontarsi con altri modi di fare scuola, a sperimentare una didattica idonea all’età che viviamo. L’obiettivo è formare giovani che sentano l’appartenenza ad una comunità locale e globale e che siano capaci di impegnarsi attivamente  per costruire un mondo più giusto e sostenibile.

Cascate del Niagara

Banzi: lasciare il proprio cuore in Ontario

Un’esperienza di mobilità individuale in Canada

Sono passati già cinque mesi da quando sono tornato da Owen Sound, dove sono stato grazie ad un programma scolastico AFS Intercultura, e solo a pensarci mi sembra incredibile. Un paesino piccolo, ma di sicuro sento di averci lasciato un pezzo del mio cuore e mai avrei immaginato che quest’estate sarei voluto tornare.

Più precisamente la mia casa era a Kemble, un insieme di case tra le verdi foreste canadesi; la mia famiglia é stata fin da subito molto accogliente e gentile. Oltre ai genitori, una host sister (che poi ho ospitato in italia), una sorellina, un fratello, un nonno e una nonna adorabile, sempre pronta a portarmi a fare il bagno al lago dopo le prime calde giornate di scuola di settembre.

Se i primi giorni mi sono accorto che la mia host sister non era particolarmente coinvolgente, ho subito realizzato che, anche se le difficoltà esistono, bisogna imparare a “tuffarsi” e a farne un punto di forza. A scuola, infatti, ho conosciuto molti amici, non solo altri studenti di scambio come me, ma soprattutto locali, gli stessi con cui mi sento ogni giorno e a cui sono molto grato.

Certo ciò che ho imparato é che bisogna sempre sfruttare qualsiasi occasione, provare a fare il primo passo e vedere che gli altri verranno da sé.

Il sistema e le abitudini in Canada sono molto diversi da quelli italiani: ad esempio, a scuola si possono scegliere solo quattro materie  per semestre, ma la scelta é davvero molto ampia: io ho scelto inglese, biologia, sport e fotografia, che si é rivelata una piacevole sorpresa e un’ occasione di socializzazione. Poi si può uscire durante il pranzo: a me piaceva molto andare con i miei amici a Tim Horton’s, un bar canadese simile a Starbucks.

Il ricordo più bello che ho é quando sono andato con i miei amici a giocare a bowling: ci siamo divertiti tanto e mi sono sentito definitavamente inserito nel gruppo. Anche i posti sono fantastici: Toronto vi farà sentire liberi e le cascate del Niagara vi toglieranno il respiro. Ma ciò che conservo più gelosamente é la bandiera del Canada con le dediche dei miei coetanei; mi basta rileggerle per tornarci anche solo per poco e realizzare che lì avrò sempre una seconda vita.

Mainz Museo Gutenberg

Banzi: riflessioni su un’esperienza di scambio interculturale

Una settimana  in una famiglia e in una scuola tedesca a Mainz

“La terra ci offre di entrare in relazione reciproca” scrisse Immanuel Kant nel 1795. Oggi, a più di duecento anni di distanza, sono ancora troppi gli uomini che vivono sulla terra come inquilini, senza sentirsi cittadini del mondo. C’è però anche chi si sente portatore dello “Ius cosmopoliticum” e che, pertanto, è spinto a  formarsi all’insegna di un’educazione interculturale. Cogliere l’occasione di partecipare ad uno scambio classe con una scuola estera rientra certamente in tale modus vivendi.

Lo scambio di classe non è tra i più conosciuti dei programmi della Onlus Intercultura, ma non per questo è da considerarsi meno entusiasmante. Durante quest’anno scolastico insieme con altri venti studenti, frequentanti come me il Liceo scientifico Banzi di Lecce, ho avuto la possibilità di essere accolta  per una settimana presso una famiglia di Mainz, in Germania e di ricambiare quindi l’ospitalità. Nonostante la permanenza all’estero abbia una durata paragonabile a quella di un comune viaggio di istruzione, è bene saper discernere e dunque sottolineare come le due esperienze non siano assimilabili. Partecipare allo scambio con la consapevolezza  di tale differenza è stato per me di fondamentale importanza, in quanto mi ha consentito di cogliere a pieno il significato autentico del progetto.

Poter instaurare un rapporto diretto con uno studente di altra nazionalità, relazionarsi all’interno di un gruppo eterogeneo di italiani e stranieri, essere accolta da una famiglia ospitante e farne la conoscenza, entrare in contatto con la realtà scolastica di un altro paese, lasciarsi accompagnare nella visita e nella conoscenza di luoghi, tradizioni, costumi, mentalità dagli stessi studenti del luogo e non come turisti… Tutto ciò rappresenta per me il valore aggiunto dell’esperienza vissuta in Germania, ma penso che possa essere considerato comune denominatore di ogni altro programma interculturale.

Accogliere significa anche saper pensare “largo”, incontrare le aspettative dell’ospite, cercando di adottare un punto di vista diverso dal proprio. Tuttavia ricevere una calorosa accoglienza non è mai scontato, e quando la si riceve non si può che rimanerne piacevolmente sorpresi. Infatti ho molto apprezzato l’ospitalità tutt’altro che formale della famiglia tedesca, che ha manifestato un  reale desiderio di conoscermi, facendomi sentire parte integrante della loro quotidianità, seppure per pochi giorni. Questa disposizione favorevole nei miei riguardi si è estrinsecata in atteggiamenti, gesti, accortezze, che hanno dimostrato una grande apertura mentale, propria di chi non vuole limitarsi a dare vitto e alloggio ad una persona estranea, ma intende sinceramente accettarla e integrarla nella propria famiglia.

Lo scambio è stato anche occasione di riflessione per fare un paragone tra le due città interessate dallo stesso, Lecce e Mainz, che si possono considerare centri di media grandezza nel rispettivo panorama nazionale. Mainz rappresenta a pieno titolo il modello positivo di città europea che abbiamo nella nostra mente. Esemplare per il nostro gruppo di italiani è stata  la grande considerazione del tedesco medio per i luoghi pubblici, per il rispetto dell’ambiente. Degna di nota anche l’autonomia nei movimenti di cui gode ogni abitante di Mainz, disponendo sia di una efficientissima rete di trasporto pubblico a portata di app, ma anche di grande sicurezza, percepibile camminando per le strade cittadine.

A nostra volta, è stato estremamente stimolante immedesimarsi negli studenti tedeschi in visita, interrogare noi stessi sul nostro territorio, sui nostri punti di forza e di debolezza, cercando di individuare elementi significativi e caratterizzanti la nostra realtà.

Infine, affinché tali esperienze siano di stimolo per generare circoli virtuosi, o quantomeno abbiano una qualche ripercussione nel tessuto sociale, è prioritario mettere a disposizione degli altri il proprio arricchimento culturale, farsi testimone del proprio vissuto, nell’auspicio della realizzazione di un’etica cosmopolita.

Il lanternino

Con questo numero della rivista inauguriamo la sezione delle FAQ a cura di Maria Carmela Lapadula e lanciamo il nostro servizio di consulenza “Il lanternino” sempre a cura di Maria Carmela. Per ricevere risposta ai vostri dubbi potete scrivere a rivoluzionaria68@gmail.com.

Sarà data risposta alle domande a carattere generale, ritenute di interesse collettivo.

Ecco a voi le prime 2 FAQ sulla contrattazione integrativa di istituto

  1. Il dirigente scolastico può farsi sostituire dal collaboratore vicario nella contrattazione?                                                                                                                                                         La risposta è negativa. L’art. 25, comma 2 del D.Lgs, n. 165 /2001 stabilisce  che il dirigente scolastico è “titolare delle relazioni sindacali”, e pertanto non può delegarle. Infatti il dirigente esprime la volontà dell’amministrazione e sottoscrive il contratto di istituto in quanto parte datoriale.  Non è da escludere, tuttavia, che nella fase della trattativa egli possa essere assistito, per eventuale consulenza, da soggetti interni dell’istituzione scolastica.
  2. Un docente con incarico di funzione strumentale può accedere al fondo di istituto per altre attività, quali la partecipazione a progetti o a commissioni?                                                               Con le risorse del fondo di istituto si possono retribuire tutte le attività aggiuntive, indennità o forme di flessibilità che l’incaricato di funzione strumentale svolge nell’ambito del PTOF oltre i contenuti specifici dell’incarico assegnato. L’unica forma di incompatibilità riguarda il divieto di cumulare i compensi per le funzioni strumentali al POF con i compensi da corrispondere ai collaboratori del dirigente scolastico.