Diritto allo studio: D. Lgs. 63/2017

In ottemperanza alla delega legislativa conferita al Governo dalla legge n. 107/2015 (art. 1, c. 180 e 181, lett. f), il 13 Aprile 2017, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 63 concernente le disposizioni per garantire, come afferma il titolo del provvedimento, l’effettività del diritto allo studio attraverso la definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali, nonché il potenziamento della carta dello studente.

Il testo normativo chiarisce le finalità del legislatore: garantire su tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo studio degli alunni del Sistema Nazionale di Istruzione e Formazione, statale e paritario, fino al completamento di tutto il percorso di istruzione secondaria di secondo grado. L’intenzione, quindi, appare quella di andare oltre la mera disciplina normativa, consentendo a coloro che frequentano le istituzioni del sistema scolastico di disporre di strumenti che diano concreta possibilità di ottenere il più ampio sostegno per giungere al “completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado”.

In quest’ottica, il decreto intende individuare e definire le modalità delle prestazioni in materia di diritto allo studio in relazione ai servizi erogati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali, nel rispetto delle competenze e dell’autonomia di programmazione.

Gli interventi che il D. Lgs. 63/2017 disciplina, non costituiscono in ogni caso innovazioni sostanziali esistendo già da tempo forme di intervento per agevolare il diritto all’istruzione/studio. Ciò che emerge è l’intenzione del legislatore delegato di ampliare la platea di coloro che possono accedere ai “servizi” e un più accentuato impegno di carattere finanziario. I “servizi” individuati sono i seguenti:

  • servizi di mensa;
  • servizi di trasporto e forme di agevolazione della mobilità;
  • fornitura dei libri di testo e degli strumenti didattici indispensabili negli specifici corsi di studi;
  • servizi per le alunne e gli alunni, le studentesse e gli studenti ricoverati in ospedale, in case di cura e riabilitazione, nonché per l’istruzione domiciliare.

Il provvedimento, dunque, riorganizza le prestazioni per il sostegno allo studio promuovendo un sistema di welfare studentesco fondato sull’uniformità territoriale dei servizi tesi a garantire il diritto allo studio. A tal fine è stato istituito il Fondo Unico per il welfare dello studente e per il diritto allo studio, che, oltre al compito di finanziare l’erogazione di borse di studio, deve essere utilizzato per l’acquisto di libri di testo, per la mobilità e per il trasporto, nonché per l’accesso a beni e servizi di natura culturale.

Nel provvedimento legislativo, inoltre, si definiscono i principi generali per il potenziamento della Carta dello Studente “Io Studio”: tessera nominativa che consente di attestare lo status di studente in Italia e all’estero e di usufruire di vantaggi, agevolazioni e sconti offerti dai partner nazionali e locali aderenti al progetto. Per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, la Carta “Io Studio-Postepay” è integrata con nuovi servizi digitali e, grazie alla collaborazione di Poste Italiane, può essere attivata come un borsellino elettronico.

La cornice costruita dal decreto legislativo n. 63/2017 contiene molte immagini attraenti, che tuttavia sbiadiscono mano a mano che ci si addentra nei meccanismi di attuazione degli strumenti legislativi. Ciò si evince dalla mancanza di un vero piano di investimenti che renda realizzabili e a lungo termine gli effetti annunciati dal provvedimento.

I maggiori oneri che comunque si verificheranno (tasse scolastiche, libri di testo, scuola in ospedale e istruzione domiciliare, borse di studio) trovano una specifica copertura attingendo al Fondo per la Buona Scuola ad esclusione della scuola in ospedale, la cui fonte di finanziamento viene indicata nell’autorizzazione di spesa per la realizzazione dell’autonomia (legge 440/1997).

STEM, nuove tendenze e didattica del (prossimo) futuro

Perché STEM?

I primi cambiamenti in ambito scolastico negli USA sono avvenuti dopo la firma del Presidente Obama per l’aggiornamento della riforma No Child left Behind del 2002. Il focus si calibra su un nuovo tipo di preparazione dei ragazzi in modo da garantire loro maggior successo in campo universitario e lavorativo. Questa riforma ha dato il via ad ulteriori iniziative per migliorare il sistema educativo statunitense, garantendo l’insegnamento di materie scientifiche ed informatiche a tutti gli sudenti, dall’asilo all’università, permettendo loro di ottenere quelle competenze proprie del pensiero computazionale di cui hanno bisogno per non essere solo dei consumatori passivi, bensì dei cittadini attivi, in un mondo guidato dalla tecnologia. Si tratta di rispondere ad una domanda crescente di competenze sempre più specifiche richieste dal mondo del lavoro. Tante posizioni nel campo tecnologico, infatti, restano scoperte, ma soprattutto ci saranno sempre più lavori STEM nell’ambito delle tecnologie informatiche, ma anche in tutti gli altri settori. Questo crea la necessità impellente di una formazione adeguata per le professionalità ricercate.

Cosa succede in Europa?

La manovra più recente adottata dall’Unione Europea è il Digital Education Action Plan, redatto proprio per rispondere alla sfida, indicando come l’educazione e la formazione possono supportare lo sviluppo di quelle competenze digitali necessarie nella vita di tutti i giorni e nel mondo del lavoro. Questo piano d’azione nasce dalla consapevolezza dei vantaggi offerti da un’istruzione informatica che può, ad esempio, aiutare a ridurre il divario di apprendimento tra alunni appartenenti a livelli socio-economici diversi, ma anche incrementare la motivazione degli studenti nell’utilizzo di strumenti divertenti e accattivanti. Anche in Europa, secondo le stime, nel prossimo futuro il 90% degli impieghi richiederanno competenze informatiche, per cui è essenziale che i sistemi educativi offrano la preparazione adeguata alle qualifiche richieste. In questo senso si è mobilitata la Commissione Europea ma anche i Ministeri e gli Enti per l’istruzione di tutti i Paesi.

In Italia durante l’anno scolastico 2014/15 il MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) e il CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) hanno lanciato il progetto Programma il futuro. L’obiettivo fin dall’inizio è stato quello di diffondere il pensiero computazionale ed introdurre in modo strutturale lo studio dell’informatica all’interno delle scuole, aiutando gli studenti a sviluppare competenze logiche e capacità di risolvere problemi in modo creativo ed efficiente. Il nostro paese si sta ponendo tra le prime posizioni in Europa per l’impegno profuso in attività ed eventi relativi alla Settimana Europea del Coding, che mira a realizzare un’alfabetizzazione digitale. Questo grazie anche al Professor Alessandro Bogliolo, dell’Università di Urbino, che è il coordinatore della European CodeWeek, ma anche del gruppo di insegnanti che ha costituito una comunità di lavoro per inserire le pratiche del coding nel curriculo delle varie discipline scolastiche.

Tendenze e risorse

Una delle ultime tendenze è quella di aggiungere la A di Art alle STEM che diventano STEAM appunto per creare un approccio interdisciplinare e non confinare le discipline scientifiche al loro proprio ambito di applicazione. Gli studenti sono così incoraggiati ad assumere un atteggiamento sistematico e sperimentale, oltre che a ricorrere all’immaginazione e a fare nuovi collegamenti tra le idee.

Un altro orientamento è la sensibilizzazione ad avvicinare ragazze e donne al mondo informatico nel quale, per tante ragioni, sono sempre state sottorappresentate. In Italia le iniziative legate alle STEM arrivano dal Dipartimento delle Pari opportunità, ma anche dalle organizzazioni digitali sul territorio, basti pensare al Movimento RosaDigitale (rosadigitale.it) che combatte lo stereotipo e le disuguaglianze di genere in campo informatico (e non solo).

Numerosi progetti sul coding e sulle STEM sono stati attivati negli ultimi anni per coinvolgere sempre più docenti e studenti. Lo sviluppo delle STEM nella didattica è strettamente legato alla collaborazione tra docenti e tra scuole. Le piattaforme Scientix e eTwinning offrono un grandissimo aiuto in tal senso trasformandosi in Comunità di buone pratiche. Gli insegnanti trovano e condividono progetti, kit pronti, lezioni, idee e suggerimenti per una didattica basata sull’interazione e centrata sullo studente.

Stiamo sperimentando in questi anni il rafforzamento del concetto di reti sociali ed organizzative. L’unità di misura è la relazione; quella interna si delinea tra studenti, insegnanti e dirigenti e quella esterna si stabilisce con le famiglie, con il territorio, con il mercato del lavoro, con le altre agenzie formative e, in ultima analisi, con le strutture politiche e amministrative. Nella comunità di pratica i partecipanti si scambiano i saperi e divengono capaci di affrontare nuovi problemi e di risolverli secondo una prospettiva innovativa che nasce dalla valorizzazione delle diverse esperienze, ma anche dal coinvolgimento dei partecipanti.

La responsabilità degli insegnanti nel dare un contributo decisivo nella formazione dei bambini e ragazzi è grande. La scuola è adesso e questo è il momento di agire. E’ il nostro e il loro momento.

L’esame di Stato del secondo ciclo tra passato e futuro

Fino all’anno scolastico 2017/18 è stata la legge 11 gennaio 2007 n.1 a regolare gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, ma il comma 181 lett. i) dell’art.1 della legge 107/2015 conteneva una delega relativa all’adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, nonché degli esami di Stato del primo e del secondo ciclo di istruzione.

Il D.lgs. n. 62 del 13 aprile 2017, all’art. 12, delinea appunto oggetto e finalità dell’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo, che entrerà in vigore dal prossimo anno scolastico e che è  già atteso con trepidazione da studenti, genitori, docenti e dirigenti scolastici. Il nuovo esame, in relazione al profilo educativo, culturale e professionale specifico di ogni indirizzo di studi, tiene conto dello sviluppo delle competenze digitali, delle attività di alternanza scuola-lavoro, del percorso dello studente, di cui all’art.1, c. 28 della legge 107/2015 e delle attività svolte nell’ambito di “Cittadinanza e Costituzione”, come prevede la legge 169/2008.

L’art. 13 dello stesso decreto stabilisce poi le condizioni per l’ammissione all’esame, che prevede i seguenti requisiti:

  1. frequenza di  almeno tre quarti del monte ore personalizzato;
  2. partecipazione alle prove computer based somministrate durante l’ultimo anno  dall’INVALSI, in italiano, matematica e inglese;
  3. svolgimento delle attività di alternanza scuola-lavoro;
  4. votazione non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline valutate con attribuzione di un unico voto e voto di comportamento non inferiore a sei decimi.

Nel caso di votazione inferiore a sei decimi in una disciplina o gruppo di discipline, il consiglio di classe può comunque deliberare l’ammissione a maggioranza, con adeguata motivazione, e attribuisce il punteggio per il credito scolastico fino ad un massimo di quaranta punti suddiviso in dodici punti per il terzo anno, tredici per il quarto e quindici per l’ultimo anno. L’allegato A del decreto riporta una tabella di conversione del credito conseguito al terzo e al quarto anno per i candidati che sosterranno l’esame nell’anno scolastico 2018/2019. Non sono previste modifiche nella formazione delle commissioni d’esame.

L’art. 17 regolamenta le prove d’esame e apporta alcune novità rispetto all’esame previsto dalla legge del 2007. Le prove scritte sono infatti due; viene abolita la terza prova a carattere pluridisciplinare che consisteva nella trattazione sintetica di argomenti, nella risposta a quesiti singoli o multipli ovvero nella soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o nello sviluppo di progetti; la prova era strutturata in modo da consentire, di norma, anche l’accertamento della conoscenza di una lingua straniera.

Nel nuovo esame la prima prova scritta rimane italiano, mentre la seconda, in forma scritta, grafica o scritto-grafica, pratica, compositivo/esecutivo musicale o coreutica, ha per oggetto una o più discipline caratterizzanti il corso di studio. Una ulteriore novità riguarda l’istruzione professionale dove la seconda prova, di carattere pratico, è in parte predisposta dalla commissione d’esame in coerenza con il piano dell’offerta formativa.

Diversa è anche l’impostazione del colloquio, che non ha inizio con l’esposizione di un argomento disciplinare o pluridisciplinare scelto dal candidato; è la commissione, infatti, a proporre l’analisi di un testo, di un documento o di un problema per verificare l’acquisizione dei contenuti e la capacità dello studente di argomentare in maniera critica, anche utilizzando la lingua straniera. Il candidato deve esporre brevemente, attraverso una relazione o un elaborato in formato multimediale, l’esperienza di alternanza scuola-lavoro. In questo contesto sono accertate anche le competenze di “Cittadinanza e Costituzione”.

Il voto finale è espresso ancora in centesimi, ma la commissione dispone di un massimo di venti punti per ciascuna delle due prove scritte e per il colloquio (per un totale di sessanta punti, che sommati al massimo di quaranta punti del credito scolastico permette di totalizzare cento). Può essere attribuito, con congrua motivazione, un bonus fino a cinque punti a quei candidati che abbiano conseguito un credito di almeno trenta punti e un risultato complessivo di almeno cinquanta punti tra prove scritte e colloquio.

La lode è attribuita all’unanimità ai candidati che conseguono il punteggio di cento punti senza l’integrazione del bonus. È evidente che con il nuovo esame il curriculum dello studente ha un peso maggiore rispetto al passato (poiché in precedenza il credito scolastico era al massimo pari a venticinque punti).

L’ultima novità riguarda la certificazione che, fino ad oggi, era regolata dal D.M. n. 26 del 3 marzo 2009, ma il c. 3 dell’art. 21 prevede l’adozione, con apposito decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di nuovi modelli sia per il diploma finale, sia per il curriculum della studentessa e dello studente, in cui sono riportate le competenze, le abilità e le conoscenze acquisite, nonché le attività di alternanza scuola-lavoro, ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro.

Poli per l’infanzia: D. Lgs. 65/2017. Italia e Finlandia a confronto

Il decreto nasce sull’esperienza e dalla implementazione delle sezioni primavera e rappresenta una risposta concreta alle esigenze di continuità dal punto di vista pedagogico, organizzativo  e sociale, offrendo un servizio articolato per l’infanzia e rispondendo ai benchmark europei, con i quali si intende includere il 95% della popolazione infantile di quattro anni nel percorso educativo e scolastico.

Il sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita a sei anni ha la finalità di “sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento, in un adeguato contesto affettivo, ludico e cognitivo”, garantendo “pari opportunità di educazione e di istruzione, di cura, di relazione e di gioco, superando diseguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali”.

E’ costituito dai sistemi educativi per l’infanzia e dalle scuole per l’infanzia statali e paritarie; i servizi educativi comprendono i nidi e micronidi, le sezioni primavera (L 296/2006) che accolgono i bambini tra ventiquattro e trentasei mesi di età.

I servizi integrativi previsti nel decreto si articolano a loro volta in spazi gioco per bambine e bambini dai dodici ai trentasei mesi di età, inseriti in un ambiente finalizzato alla cura e alla socializzazione, con una frequenza flessibile ma senza il servizio mensa.

Vi sono poi i centri per bambini e famiglie che oltre a momenti di gioco e socializzazione, offrono spazi di confronto sui temi dell’educazione e della genitorialità; anche questi non prevedono il servizio mensa e sono strutturati per poter essere frequentati in modo flessibile.

Infine caratterizzati da un numero esiguo di bambini, vi sono i servizi educativi in contesto domiciliare che concorrono all’educazione e cura dei bambini da tre a trentasei mesi.

La scuola dell’infanzia organizzata già secondo il decreto legislativo n.59/2004, in questo disegno “assume una funzione strategica, operando in continuità con i servizi educativi per l’infanzia e con il primo ciclo di istruzione”, essa accoglie i bambini e le bambine  di età compresa tra i tre e i sei anni d’età.

Alla base di questa organizzazione vi è indubbiamente un legame forte con il territorio che raccoglie i cittadini dalla più tenera età, configurandosi come servizio alla persona, ma anche come comunità di appartenenza ove il cittadino radica la propria esistenza, all’insegna di un progetto ambizioso ed inclusivo,  che lo renda portatore in futuro di una cittadinanza sentita e quindi attiva.

Non già una forma di chiusura nei propri limiti territoriali, perché come direbbe Morin apparteniamo ad un’unica comunità di destino, ma la volontà di rendere i territori protagonisti ed autonomi, in base a quel principio di sussidiarietà che ha lo scopo di  intercettare i bisogni dei cittadini per tradurli in servizi alla persona.

In questa ottica vanno visti i Poli per l’Infanzia che “accolgono, in un unico plesso o in edifici vicini, più strutture di educazione e di istruzione per bambine e bambini fino ai sei anni di età… si caratterizzano quali laboratori permanenti di ricerca, innovazione, partecipazione ed apertura al territorio, anche al fine di favorire la massima flessibilità e diversificazione per il migliore utilizzo delle risorse, condividendo servizi generali, spazi collettivi e risorse professionali”.

Il sistema integrato realizza obiettivi di lungo respiro che oltre a coinvolgere un’alta percentuale di popolazione infantile sotto i tre anni, almeno il 33%, tende a raggiungere il 75% dei  servizi offerti dai comuni, la generalizzazione progressiva della scuola dell’infanzia, l’inclusione e la qualificazione dei servizi offerti, attraverso la formazione universitaria del personale dei servizi educativi.

La formazione in servizio del personale coinvolto anche al fine di promuoverne il benessere psico-fisico, il coordinamento pedagogico-territoriale e l’introduzione di condizioni che agevolino la frequenza dei servizi educativi per l’infanzia, rappresentano punti di qualità, la cui realizzazione porterebbe il nostro sistema 0-6 alla pari con le moderne strutture di alcuni paesi europei.

Il decreto considera anche gli aspetti logistici, istituendo un Fondo nazionale con il quale finanziare la costruzione e ristrutturazione degli edifici pubblici, la gestione delle spese dei servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia; in ultimo la formazione continua in servizio del personale, in armonia con il Piano nazionale di formazione previsto dalla L 107/2015.

Con i Poli per l’infanzia si vuole costruire un sistema unico, in cui le autonomie locali facciano la propria parte: lo Stato indirizza, programma e coordina la progressiva ed equa estensione del sistema integrato, le regioni programmano la costituzione dei Poli e gli enti locali gestiscono in forma diretta e indiretta propri servizi educativi e scuole per l’infanzia.

Sulla scia dell’esperienza finlandese della scuola di base, le cui riforme sono state attuate coinvolgendo tutto il sistema sociale, politico ed economico del paese, il modello zero- sei sembra accogliere e sviluppare questa nuova dimensione.

In Finlandia l’educazione prescolare è praticamente inesistente e su base volontaria; la responsabilità di questo settore è del Ministero dell’istruzione. Esiste però una scuola di base unica della durata di 9 anni, in cui il Paese investe molto poichè la scuola viene concepita come elemento strategico nel piano di recupero economico; la qualità dell’insegnamento e lo status dell’insegnante rappresentano fattori importanti in una cornice nazionale in cui le scuole operano con ridotte indicazioni nazionali, quindi in autonomia.

Il protagonismo della  municipalità finlandese rappresenta un esempio chiaro che trasposto in Italia può vedere nella gestione degli enti locali del sistema integrato di educazione e di istruzione, un modello di scuola partecipato e comunitario, così come inteso dalla L 107/2015, un vero e proprio  laboratorio di ricerca: quella ricerca e  sperimentazione di soluzioni che rispondano ai bisogni dei cittadini utenti, in ultima analisi la sussidiarietà enunciata dalla  comunità europea, in un futuro che come direbbe Bauman “non esiste, ma è da costruire”.

Scuole italiane all’estero: D. Lgs. 64/2017

Il presente decreto ridefinisce le regole delle scuole italiane all’estero, a norma dell’art.1, comma 180 e 181 della legge 13 luglio 2015, n. 107.  Attua un effettivo e sinergico coordinamento tra il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (MAECI) e il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) per la gestione della rete scolastica e per la promozione della lingua e della cultura  italiana.  

L’obiettivo principale del D. Lgs. n.64  è quello di ridefinire e creare una rete di scuole innovative e all’altezza dei nuovi standard europei che risponda in maniera esaustiva alle esigenze degli alunni e delle loro famiglie diffondendo e valorizzando di pari passo il patrimonio culturale italiano in tutto il Mondo.

Il testo è abbastanza complesso e si compone di ben 39 articoli che definiscono il trattamento economico, lo stato giuridico del personale nelle scuole statali all’estero e i criteri per la formazione del personale. Prima del presente decreto, le scuole italiane all’estero erano regolamentate dal D. Lgs. 297/94, a cui seguirono ulteriori decreti e misure urgenti  per definire l’organico in servizio e gli stanziamenti in favore delle scuole italiane all’estero, come nella legge di Stabilità 2016 che disponeva  l’erogazione di un milione di euro per ciascun anno a partire dal 2016 al 2018 per la spesa del personale supplente delle scuole italiane all’estero.

Il decreto definisce le finalità, l’articolazione del sistema, l’organizzazione e la gestione delle scuole italiane all’estero e la selezione di personale specializzato per i Lettorati. Si prevede inoltre la possibilità di creare associazioni di scuole con lo scopo di sostenere la mobilità degli studenti e si sollecita l’attivazione di partenariati con soggetti pubblici e privati. Con il D. Lgs. n. 64/2017  si prevede un aumento di circa il 10% dell’organico degli insegnanti di ruolo da destinare all’estero. E’ stato istituito un Portale Unico dei dati della scuola.

Novità sono state introdotte dal decreto per quanto riguarda i periodi da destinare all’estero all’interno dell’intera carriera: previsti due periodi di 6 anni, intercalati da un sessennio in Italia.

All’art. 34 si prevede la possibilità di prestare il Servizio Civile nel “Sistema di formazione Italiani nel mondo”. Al tirocinante spetta un rimborso forfettario delle spese sostenute nella misura minima pari a 300 euro mensili. Il Miur sentito il MAECI individua i candidati italiani ai posti di direttore e direttore aggiunto di scuola europea, previa pubblicazione di un bando che regola modalità e criteri di selezione.

Si riparte!!!

Riparte la 18ª legislatura dopo tentennamenti e perplessità e per le politiche scolastiche ci potrebbe essere una nuova ripartenza, una nuova ridiscussione delle ultime riforme pensate e implementate con la legge 107 del 2015 che è stata ampliamente al centro della discussione nella passata campagna elettorale.

Si riparte con un nuovo Ministro dell’Istruzione, a cui vanno gli auguri di Buon lavoro da parte della rivista “Scuola 4 All” e si apprezza la recente dichiarazione di voler porre fine alle reggenze dando ritmo ai concorsi per Dirigenti Scolastici e per Direttori Servizi Generali ed Amministrativi per permettere a tutte le scuole di poter avere dal 1 settembre 2019 Dirigenti Scolastici e Direttori Amministrativi titolari in tutte le Istituzioni scolastiche che sono diventate organizzazioni complesse che necessitano di dirigenti strategici, capaci, motivati e competenti e di Direttori amministrativi efficienti.

Dedichiamo il terzo numero della rivista alla tematica dell’Inclusione e devo esprimere subito i ringraziamenti a Dario Ianes che ha voluto offrire un suo originale ed elegante ed attuale messaggio innovativo sull’argomento. L’attenzione a tematiche di civiltà come l’inclusione da parte della nostra rivista, nei giorni drammatici della vicenda della nave Aquarius, dimostra come le Istituzioni Scolastiche e gli operatori scolastici rimangano baluardo significativo e forte di civiltà, di cultura, di confronto interculturale per dare valore e dignità alle speranze per una costruzione di un mondo sostenibile, inclusivo ed intelligente.

Negli ultimi 50 anni grazie al contributo di docenti  illuminati e di legislatori buoni interpreti della necessità di costruire “coscienze terrestri”, ricche di una “coscienza ecologica” e di una “coscienza antropologica”, le politiche di inclusione hanno rappresentato un continuo progress culturale che ha provocato una vera rivoluzione copernicana  passando dai “cittadini invisibili”, ai “cittadini segregati” nelle classi differenziali, per poi garantire ai diversamente abili di vivere  e convivere nelle classi normali per socializzare prima ed integrarsi dopo.  E questo incedere “elegante” non poteva non concludersi con l’esaltazione dell’inclusione e della “diversità normale” come sottolineato nell’ultima nota del MIUR del 17 maggio 2018.

Un’altra felice coincidenza della nostra rivista è la pubblicazione alcuni giorni fa da parte della European Agency  for development in Special Need education del Profilo dei docenti inclusivi in cui si esalta come “l’inclusione è un principio, un approccio educativo basato sui diritti, sostenuto da una serie di valori fondamentali: uguaglianza, partecipazione, sviluppo e sostegno delle comunità e rispetto della diversità.

E il successo dell’inclusione dipende dai “valori di cui il docente è portatore”.

E noi di “Scuola 4 All” ci stiamo provando!!!

La nocchiera

Ed ecco una situazione reale, una di quelle che si incontra tutti i giorni a scuola. Oggi la definiscono “classe pollaio”, “classe eterogenea”, “numerosa”, “difficile”… Personalmente la chiamerei semplicemente “classe tipo”. La presento o potrei dire che l’ho già presentata almeno dieci anni fa. Cosa è cambiato da allora? Nella composizione delle classi, nulla! Analizziamola insieme.

C’è V. con diagnosi di ritardo psicomotorio, immaturità cognitiva e psicoaffettiva; c’è T. con  disturbo dell’attenzione certificato; c’è G. con epilessia criptogenetica a crisi generalizzate; c’è A. che presenta importanti difficoltà di apprendimento nella letto-scrittura e che ha crisi di pianto continue dovute ad una complessa situazione familiare (orfana di padre e in affido perché la madre non riesce ad occuparsi di lei a tempo pieno); c’è F. celiaco; c’è M. che reagisce con opposizioni e atteggiamenti aggressivi quando si trova dinnanzi a dei nuovi compiti in cui sente di non riuscire; c’è N., figlio di genitori separati, intelligente e intuitivo, ma che purtroppo crede di essere il solo a dover essere ascoltato; c’è P., figlio di genitori cinesi, che vivendo in un ambiente familiare in cui la lingua parlata non è l’italiano, mostra notevoli difficoltà nella produzione e nella comprensione della comunicazione; c’è Y. di origine ucraina, arrivata ad aprile priva di qualsiasi forma di alfabetizzazione della lingua italiana; c’è R che presenta continui atteggiamenti aggressivi nei confronti dei compagni e delle insegnanti. Rifiuta qualsiasi forma di aiuto e  presenta enormi difficoltà nell’ambito degli apprendimenti; c’è S., figlia di genitori albanesi, che si presenta molto silenziosa tanto da non riuscire a capire dove termina l’educazione e dove inizia la totale assenza ed estraneazione; c’è E. che essendo molto emotiva spesso ha attacchi di incontinenza perché non riesce a controllare le sue ansie; c’è L. che crede di vivere in un film di fantascienza e si muove con le stesse modalità dei supereroi; c’è G. che spesso crea litigi ed incomprensioni poiché anche se solo le chiedi “come stai?” diventa permalosa e risponde urlando; c’è H. che è alla continua ricerca del proprio sé (a volte crede di essere un bambino e a volte una bambina) e assume atteggiamenti e comportamenti diversi a seconda di chi gli sta seduto accanto; c’è S. che sembra una piccola enciclopedia sconnessa poiché ha tante conoscenze che non è in grado di applicare nella quotidianità della vita; infine ci sono le “UNICHE SETTE” persone “NORMALI” della classe!

Ma a questo punto ci si chiede: “ESISTE LA NORMALITA’?” CHI LA DECIDE? O FORSE E’ PIUTTOSTO UNA CONDIZIONE CHE VIVIAMO, CHE SENTIAMO DENTRO QUANDO SIAMO INSERITI IN UN CONTESTO ACCETTANTE? Forse siamo proprio noi a dettare le leggi della normalità e della deviazione dalla norma!

Dal libro “Le radici filosofiche della differenza” di A. Nievo e L. Pasqualotto vi riporto quanto segue. Etimologicamente “differenza” deriva da “dis-ferre”, che significa “portare da una parte all’altra”, “portare oltre, in varie direzioni”, “portare qua e là”. Proprio per la sua differenza, ogni persona deve poter realizzarsi ed espandersi in tutta la sua originale pienezza, affermandosi come differente” non solo dagli altri ma anche da se stessa, dai propri limiti, dal proprio vissuto, dal proprio ambiente. Al fine di non deteriorarsi nel conformismo e nella ripetizione, deve coltivare le proprie doti, fare tesoro delle proprie esperienze, costruire rapporti interpersonali arricchenti, anche impegnarsi perché l’umanità tutta possa differenziarsi dal suo modo di essere attuale.

Il concetto di “diversità” da “dis-vertere”, (cioè volgere in opposta direzione) accentua quello di “differenza”. Esso richiama l’idea di dissomiglianza, di discostamento da una norma, da ciò che è più comune, diffuso, condiviso e che, nella sua accezione più negativa può richiedere talora interventi compensatori. La diversità pertanto, ancor più della differenza, richiede riconoscimento e rispetto, piuttosto che ambigue forme di aiuto e di sostegno, che più o meno consapevolmente tendono all’assimilazione.

Se riportiamo il discorso alla persona umana, definire “diverso” lo straniero, il disabile, l’anormale è ricorrere ad una categorizzazione generica per indicare una particolare diversità etnica, culturale, fisica, facendo così torto alla sua natura unica e irripetibile. Ogni individuo è diverso dall’altro nel suo vissuto, nelle potenzialità e nei limiti, nelle motivazioni, nello stile cognitivo e nelle competenze acquisite. Ad ognuno bisogna garantire quelle pari opportunità e quella apertura delle scuole A TUTTI sancite dagli art. 3 e 34 della Costituzione italiana, differenziando le proposte, personalizzando e individualizzando gli insegnamenti (DPR 275/99- L.53/2003), adattando la scuola e rendendola “inclusiva”.

In questo terzo numero della Rivista “Scuola for All” il filo rosso è dunque “l’inclusione”. Si è cercato in tutti i modi di dare un taglio reale, concreto! L’unione tra l’accademico e il pratico in un “ciclone prassico” intende guidare il lettore in uno dei temi più importanti che caratterizza la scuola reale, la scuola dell’oggi, della quotidianità. L’intento è quello di diffondere quanto più possibile le “buone pratiche” al fine di migliorarci e migliorare sempre più. Ha accolto questo invito un grande professionista, personalmente considerato da sempre “un punto bianco in un mondo nero”, Dario Ianes.  Non ha mai portato il vecchio nel nuovo. Ha sempre “innovato”. Ancora una volta lo fa per noi offrendoci un meraviglioso contributo “Univers-quità. Prosegue nella stessa ottica l’articolo di Roberto Turolla e Patrizia Todaro “Per aspera ad astra”. Lui  scrittore cieco dalla nascita, la cui disabilità non gli ha impedito di realizzare il sogno che da sempre ha coltivato. Lei, docente di filosofia che dopo l’incontro con Roberto ci riporta le sue riflessioni sull’outcome educativo, “… sull’evidente ed inequivocabile successo formativo ed esistenziale di un ragazzo che oggi considera l’esempio vivente dell’efficacia didattica”. Un articolo che rende concreto e percepibile quel connubio di cui parlavo prima. Infine si entra nel merito dei singoli articoli che affrontano in modo preciso e qualificato un timone complesso come quello proposto. Dall’analisi storica proposta nell’articolo “La storia della parola handicap” di Pietro Salvatore Reina, all’analisi del Decreto legislativo 66 del 2017 “Il successo formativo di tutti e di ciascuno” di Rosaria Perillo. Altrettanto interessanti e ricchi di riflessioni, spunti di lavoro concreti, replicabili e realizzabili, tutti gli altri articoli. Buona lettura a tutti.

“UNIVERS-QUITA’”

Il discorso inclusivo ci porta all’Univers-quità

In questi ultimi 10 anni si è diffuso gradualmente ma inesorabilmente il discorso di una scuola inclusiva, con la consapevolezza che inclusione non è soltanto un’integrazione degli alunni/e con disabilitá fatta un po’ meglio ma è qualcosa di molto più ampio, che coinvolge il 100% degli alunni/e, con l’infinita varietà delle loro differenze, con il loro diritto ad una piena personalizzazione, per evitare che quelle differenze diventino diversità negative, fonte poi di disuguaglianza e di espulsione.

Dalla disabilitá si è passati ai DSA, alle varie forme di BES e finalmente a tutte le differenze. In questa tendenza allora il discorso “inclusione” può sembrare stretto e troppo pieno di contenuti, anche emozionali, centrati sui “problemi” o sui “deficit” soltanto di alcuni alunni/e. Un passo concettuale in avanti potrebbe giovarsi di una prospettiva nuova, che ponga alla base delle sue pratiche due temi, quello dell’universalità e quello dell’equità (uniti nella nuova espressione univers-quità). Una didattica ed un’educazione universale renderebbe superfluo parlare di didattica inclusiva, perché la didattica per tutti sarebbe organizzata dall’inizio, nella sua prima progettazione (vedi l’Universal design for learning) come talmente plurale da poter essere adatta alle diverse forme di apprendimento.

La prospettiva universalistica si fonda su alcune conoscenze ormai patrimonio comune: ogni alunno è differente, questa differenza è comprensibile nelle fasi dell’apprendimento, dalla rappresentazione delle conoscenze, all’espressione e azione alla motivazione e dimensione emozionale che fornisce l’energia. Su questi tre fronti una didattica universale offre molti e diversi modi per rappresentarsi la realtà, per agire su di essa e per coinvolgersi attivamente.

Una didattica plurale riesce ad intercettare positivamente il più possibile di differenze, idealmente una didattica totalmente universale andrebbe bene per tutti, qualunque sia la loro condizione, senza chiedere successive e spesso maldestre correzioni e aggiustamenti. Il secondo tema necessario è quello dell’equità, e cioè di una scuola che persegua un forma “super” di giustizia, riuscendo ad avere la volontà e il coraggio di “fare differenze” in positivo, dare di più a chi ha di meno, per compensare quelle differenze che altrimenti diventerebbero ferite all’uguaglianza tra gli alunni/e.

Una scuola che usa le risorse per garantire davvero pari opportunità e non tollera che a danno degli alunni più deboli vengano perpetrate ingiustizie, quali emarginazioni ed esclusioni. Si vedano a tal proposito i recenti dati ISTAT sulla scarsa partecipazione degli alunni con disabilità alle gite scolastiche con pernottamento. Il discorso inclusivo, se vuole davvero allargare il proprio orizzonte, dovrà camminare sulle gambe dell’universalità (il pensiero tecnico) e dell’equità (la necessità etico politica).

Per aspera ad astra

Terza lezione di scrittura per noir, Torino letteraria. Mi inserisco a corso iniziato e irrompo nella sala carica di entusiasmo. Il primo ad avvertire la mia presenza è un ragazzo seduto di fronte a me, che mi porge immediatamente la mano non soltanto per presentarsi e per accogliermi, ma per conoscermi attraverso il tatto, l’olfatto, l’udito. Con la stretta di mano più lunga della mia vita, intuisco che deve aver apprezzato particolarmente la mia sensibilità, disponibilità ed empatia e subito nasce tra noi un’intesa che raramente, tra umani, si instaura.

Nel corso dei mesi, mentre io sono costretta dalle circostanze ad impiegare le mie risorse in caleidoscopici progetti che si declinano in un numero incredibile di attività, lui pubblica due romanzi, perfeziona le competenze nell’uso della chitarra e si manifesta in un’esplosione di virtù, capacità e abilità straordinarie. E’ un eccezionale amico!

Come docente di Filosofia, specializzata su sostegno e con un’esperienza didattica di tre lustri, non posso fare a meno di concentrarmi sull’outcome educativo, sull’evidente ed inequivocabile successo formativo ed esistenziale di un ragazzo che io oggi considero l’esempio vivente dell’efficacia didattica. Una persona che si è formata in un ambiente di apprendimento indubbiamente inclusivo nei principi e nella pratica. Un luogo educativo che non avrebbe trasformato il discente-scrittore-chitarrista in un maestro di vita se quest’ultimo non avesse avuto le intelligenze e i talenti che ha espresso nella massima ampiezza possibile.

La domanda è: quale scintilla ha permesso di neutralizzare il buio con tale gloriosa vittoria?

Impegno, autoironia, spirito di sacrificio e forza di volontà sono le sole scintille in grado di annientare il buio. Appena ho stretto la mano a Patrizia ho percepito subito che sarebbe stato “amore a prima svista”. Gli eventi mi hanno dato ragione: in breve tempo è diventata una delle mie amiche più preziose. Mi chiamo Roberto, ho trentun’anni e sono non vedente dalla nascita. Tutto ciò che ho conquistato nella mia vita me lo sono guadagnato combattendo, senza arretrare mai, da solo e col sostegno della mia famiglia. Studiare è sempre stato il mio obiettivo primario. Ne ho dato prova fin dalle elementari. Le medie, condizionate da episodi di bullismo anche molto pesanti, sia fisico che psicologico, sono state il periodo più duro. Per difendermi ho deciso di non parlarne a casa e procedere comunque per la mia strada con grinta, determinazione e metodicità, caricando a testa bassa come un toro, umiliando i miei oppressori con la miglior strategia che avessi: il rendimento scolastico in cui, al contrario di loro, eccellevo.

Grazie ai docenti del classico di Casale sono tornato a ruggire: ho scoperto l’autoironia e il migliore degli ambienti in cui proseguire gli studi, seguito da persone preparate, competenti, empaticamente e umanamente attrezzate, nel quale il bullismo non solo non era praticato, ma neanche concepito. Nel 2013 mi sono laureato con lode alla specialistica in letteratura, filologia e linguistica italiana a Torino, dopodiché ho iniziato a seguire corsi di scrittura con Massimo Tallone, grazie a cui ho pubblicato con Golem nel 2017 Racconti del buio, e pochi giorni fa Il salto del salmone.

Paralellamente ho sempre coltivato gli studi di chitarra classica e negli ultimi anni ho acquisito un’indipendenza pressoché totale sia in casa che col bastone bianco, da me affettuosamente soprannominato Excalibur. Combattere e impegnarmi al massimo in ogni cosa che faccio è una scelta, la sola plausibile per vivere la mia vita. Le alternative, benché siano a loro volta scelte, non sono neanche degne di essere menzionate.

Nel segno della parola handicap

Storia di una parola

Il sostantivo handicap, di origine inglese, dalla locuzione «hand in the cap», ovvero «porre la mano nel cappello» per estrarre le monete, un gioco d’azzardo assai diffuso nel Seicento. Dal significato originale legato al gioco e allo sport la parola handicap è stata poi utilizzata alla fine dell’Ottocento per indicare, in generale, il modo di equilibrare una condizione, uno status compensando le «diversità», divenendo quindi sinonimo di «impedimento». Solo agli inizi del Novecento è stata adoperata in riferimento ai disabili e applicata ai bambini con una menomazione fisica.

L’handicap nella normativa scolastica italiana

L’odierno D. Lgs. n. 66/2017 Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità costituisce una sorta di nuovo Testo unico per l’integrazione scolastica dei soggetti con disabilità. Esso costituisce il punto d’arrivo d’un lungo percorso. Un viaggio, però, che parte dalla nostra Carta costituzionale che volge la sua attenzione, con saggezza ed autorità, alla tutela della «persona» (art. 3, comma 2 «persona umana» letta – come con acume sottolinea il dirigente scolastico Giuseppe Mariani – attraverso le tre culture [cristiana, illuminista, socialista] che sono alla base della nostra civiltà italiana ed europea).

Il termine handicap è stato introdotto nella normativa scolastica con la L. 517/1977.

Il termine handicap è normalmente adottato dalla legislazione italiana, ricordiamo le seguenti norme:

  • Legge 5 febbraio 1992, n. 104 Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (il testo vigente della L. 104/1992, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, ha ricevuto le ultime modifiche introdotte dalla Legge n. 53/2000 e dal D. Lgs. n. 151/2001).
  • Legge 8 marzo 2000, n. 53, art. 1, c. 1, lett. -a): l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori soggetti portatori di handicap
  • D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 42 Riposi e permessi per i figli con handicap grave
  • D. Lgs. 18 luglio 2011, n. 119 Attuazione dell’art. 23 della L. 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi: dall’art. 3 in avanti il termine utilizzato è handicap

La «corretta» definizione di persona handicappata si trova nell’articolo 3 (Soggetti aventi diritto), c 1,  della Legge n. 104/1992

«è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».

Il termine disabilità, invece, è stato introdotto nella normativa scolastica dalle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (MIUR, nota 4 agosto 2009 prot. n. 4274). Tale termine (in inglese disability) proviene dagli accordi internazionali ove è normalmente utilizzato, ad es.:

  • nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (art.1), approvata il 16 dicembre 2006 dall’Assemblea delle Nazioni Unite
  • nella Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) approvata il 22 maggio 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Si noti, infine, che nelle più recenti leggi, quali la n. 128/2013 e la n. 107/2015, viene adottato costantemente il termine disabilità.

In qualche circostanza (L. 244/ 2007, art. 2, c. 413 e 414) è usata la locuzione alunni diversamente abili.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: un’importante occasione di equa partecipazione sociale

DEFINIZIONE

L’acronimo DSA Disturbi Specifici dell’Apprendimento fa riferimento ad un gruppo eterogeneo di disturbi consistenti in significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e matematica, presumibilmente dovuto a disfunzioni del sistema nervoso centrale. Il termine disturbo in senso clinico indica un’alterazione del funzionamento di un organo, che si traduce nel caso specifico del DSA come alterazione del normale funzionamento del sistema cognitivo. Usare anche per i ragazzi con DSA il termine disabile vuol dire non tanto definire la mancanza totale di un’abilità come leggere, scrivere, parlare o fare di conto, quanto indicare la possibilità o meno a farlo in modo fluente.

LE CARATTERISTICHE

Un DSA ha caratteristiche individuabili: una base neurobiologica (anomalie a carico di determinate aree cerebrali), un carattere evolutivo (un’origine genetica), una variabilità espressiva (ogni abilità espressiva muta in base alla fase di sviluppo), una comorbilità (una comune origine biologica fa presentare i disturbi contemporaneamente), una rilevanza (un’interferenza negativa sull’adattamento alla vita scolastica e sulle attività quotidiane).

Le cause possono essere esogene, ovvero riconducibili ai fattori ambientali, al disagio sociale, alle difficoltà economiche, complessivamente definite come svantaggio socio-culturale; endogene, riconducibili a fattori di origine neurobiologica e costituzionale.

Si definiscono DSA quei disturbi che, in un soggetto con funzionamento intellettivo globale preservato, denotano il disturbo in un’abilità determinata. Si tratta di una situazione innata costitutiva dell’individuo che si manifesta al momento della scolarizzazione, nella fase di acquisizione delle abilità di base. Quando l’insegnante osserva che gli apprendimenti elementari non raggiungono il normale grado di automatizzazione,  cioè non ci sono velocità ed accuratezza nel compiere attività di lettura, scrittura, calcolo, allora deve procedere nella definizione del disturbo e dunque richiedere alla famiglia dell’allievo visita specialistica che produca una diagnosi, dalla quale si parta per progettare interventi didattici efficaci, in grado di rimuovere le cause disturbanti, nel caso di difficoltà di apprendimento, o di agire per il recupero funzionale, nel caso di conclamati DSA.

Attraverso test standardizzati si misurano sia l’abilità compromessa che il funzionamento intellettivo e in presenza di anomalie sensoriali, neurologiche, cognitive e psicopatologhe, si fa ricorso alla individuazione di DSA. La diagnosi tardiva spesso non dà spazio ad un intervento rieducativo ed allora si procede con un intervento compensativo, che certo, non ripristina la funzione danneggiata, ma provvede ad una sua vicarianza.

LE TIPOLOGIE

Il riconoscimento normativo nazionale dei DSA trae origine dalla Legge 170 dell’8 ottobre 2010, che definisce all’art. 1 c. 1 quattro disturbi specifici dell’apprendimento riferiti a quattro specifiche abilità scolastiche: dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia.

Si intende per dislessia un disturbo che si manifesta con la difficoltà nell’imparare a leggere, in particolare nella correttezza e rapidità della lettura (art. 1 c. 2).

La disgrafia è un disturbo specifico di scrittura che si manifesta come difficoltà nella realizzazione grafica (art. 1 c. 3).

La disortografia è un disturbo di scrittura che si manifesta nei processi linguistici di transcodifica (art. 1 c. 4).

La discalculia si manifesta con difficoltà negli automatismi del calcolo e nell’elaborazione dei numeri (art. 1 c. 5).

I quattro disturbi possono sussistere separatamente o insieme (art. 1 c. 6).

LA NORMATIVA ITALIANA

La legge 170/2010 sulle Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico è organizzata in 9 articoli di facile lettura, attraverso i quali si definiscono le finalità tese essenzialmente a garantire il diritto allo studio ed il successo scolastico dello studente, a ridurre i disagi relazionali, ad adottare forme di verifica e di valutazione ad hoc, a favorire la diagnosi precoce, ad incrementare la rete tra scuola, famiglia, servizi sanitari, ad assicurare eguali opportunità di sviluppo socio-professionale agli studenti (art. 2 cc. 1, lettere a-h).

La diagnosi è assicurata dal Servizio sanitario nazionale e impegna le scuole di ogni ordine e grado ad adottare in collaborazione con le famiglie interventi tempestivi idonei ad individuare i casi sospetti di DSA (art. 3, cc. 1-3). A garanzia di quanto appena detto sono stati stanziati per l’anno scolastico 2010-2011 fondi destinati alla formazione del personale docente e dirigenziale (art. 4 cc. 1.-2).

Gli studenti con diagnosi di DSA hanno diritto a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica, per cui gli insegnanti, disponendo di risorse specifiche, devono puntare ad introdurre strumenti compensativi compresi mezzi di apprendimento alternativi e tecnologie informatiche e misure dispensative. In particolare nell’insegnamento delle lingue straniere gli strumenti compensativi devono favorire la comunicazione verbale prevedendo anche la possibilità di esonero (art. 5 c. 1.-2).

Per assicurare maggiore presenza parentale i familiari, fino al primo grado impegnati nell’assistenza alle attività scolastiche a casa, hanno diritto a orari di lavoro flessibili deducibili dai CCNL dei comparti interessati (art. 6 cc. 1-2).

A livello mondiale la L. 170 del 2010 pone le sue radici nella Dichiarazione di Salamanca del 1994 e nella Classificazione ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2001. In ambito europeo La Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000 e le Raccomandazioni europee sui Principi Guida per promuovere la qualità nella scuola inclusiva del 2009 hanno segnato un solco fondamentale.

In ambito nazionale le indicazioni europee in stretta confluenza con i principi costituzionali di diritto allo studio riconoscevano nel 2010 con un’apposita legge, la 170/2010, i DSA, supportata da Linee guida del 6-7 dicembre 2010, promosse dal Sistema sanitario nazionale.

Nello stesso anno venivano varate nuove norme per i DSA in ambito scolastico col DM 144 del 14 dicembre 2010, veniva istituito il Comitato tecnico nazionale previsto dalla L. 170 del 2010 (art. 7 c. 3) con compiti istruttori mediante il DM 5669 del 12 luglio 2011, venivano pubblicate le Linee Guida per il diritto allo studio degli studenti affetti da DSA ( art. 7 c. 1). Si aggiungevano a queste norme l’Accordo Stato regioni del 25 luglio 2012 con cui veniva applicato l’art. 7 c. 1 e il DI del 17 aprile 2013 tra Miur e Ministero della Sanità, che adottava le linee guida per la predisposizione di protocolli regionali finalizzati alle attività di individuazione precoce dei casi sospetti di DSA.

Successivamente ciascuna regione concordava, con apposita delibera, l’approvazione dello schema di protocollo d’intesa tra regione e ufficio scolastico regionale per la definizione del percorso di individuazione precoce delle difficoltà di apprendimento, di diagnosi e di certificazione dei disturbi specifici di apprendimento (Dsa), in ambito scolastico e clinico, e l’approvazione del modello di certificazione sanitaria per i Dsa. (Ad esempio si veda la delibera della Giunta Regionale Campania n. 43 del 28/02/2014 Dipartimento 52 – Dipartimento della Salute e delle Risorse Naturali Direzione Generale 4 – Direzione Generale Tutela salute e coordinamento del Sistema Sanitario Regionale).

LA DIDATTICA

Una volta formati i docenti, venivano proposti dal MIUR format per definire in ambito scolastico il Piano didattico personalizzato, che si sviluppa in quattro aree: Generale, Funzionamento delle abilità di lettura, scrittura e calcolo, Didattica personalizzata, Valutazione.

Le prime due aree sono comuni ai due format per la scuola primaria e per la scuola secondaria e prevedono esattamente che nell’area generale si inseriscano i dati anagrafici, scolastici e medico-specialistici riguardanti l’allievo. Nell’area sul Funzionamento delle abilità di lettura, scrittura e calcolo sono distinte le tre abilità tra gli elementi desunti dalla diagnosi e quelli desunti dall’osservazione, in modo da garantire un percorso di apprendimento personalizzato.

Nell’area della Didattica personalizzata, nella scuola del primo ciclo, si declinano le strategie e i metodi di insegnamento e si indicano le misure dispensative e gli strumenti compensativi ed eventuali tempi aggiuntivi, seguendo la suddivisione tra macroarea linguistico-espressiva, macroarea logico-matematica-scientifica e macroarea storico-geografica-sociale.

Per la scuola secondaria la differenza sta nel fatto che mentre nella primaria la didattica si sviluppa lungo le macroaree, nella fase successiva vengono considerate le diverse discipline (linguistico-espressive, logico-matematiche, storico-geografico-sociali).

Per entrambi gli ordini di scuola la Valutazione viene definita per singola disciplina corredata di misure dispensative, strumenti compensativi ed eventuali tempi aggiuntivi.

In verità, la parte più interessante dei format proposti, riguarda la legenda allegata al format che chiarisce anche quali strategie metodologiche e didattiche preferire, le eventuali misure dispensative da adottare, gli strumenti compensativi da applicare, le strategie e gli strumenti prescelti dall’alunno e la valutazione da praticare, anche in riferimento specifico agli esami conclusivi di ciclo di studio. Le indicazioni proposte ai docenti mirano ad un ampio e svariato uso delle nuove tecnologie sin dall’emanazione della Legge n. 4 del 9 gennaio 2004 relativa alle Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici (Legge Stanca). Il contenuto di tale legge è stato successivamente potenziato da ulteriori Indicazioni da parte del MIUR (Nota MIUR n. 4099 del 5 ottobre 2004 sulle Iniziative relative alla dislessia e Nota MIUR n. 26 del 5 gennaio 2005 sulle Iniziative relative alla dislessia).

LE STRATEGIE  METODOLOGICHE E DIDATTICHE

Lo studente deve essere agevolato nell’apprendimento personalizzato utilizzando alternative al codice scritto come disegni, immagini, riepiloghi a voce; può, inoltre, utilizzare schemi e mappe concettuali. L’insegnante è invitato a potenziare l’esperienza e la didattica laboratoriale, a promuovere nell’allievo l’autocontrollo, a incentivare il tutoraggio tra pari, a favorire l’apprendimento cooperativo.  Il potenziale personale di sviluppo si ritrova sia nella differenza che nella diversità, che rappresentano i fondamenti epistemologici della pedagogia speciale, da cui discendono i fondamenti metodologici dell’individualizzazione e della personalizzazione. Individualizzare significa adattare un insegnamento a esigenze individuali; personalizzare vuol dire delineare percorsi di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze, in base alle capacità personali, sociali, metodologiche, in situazioni scolastiche e di vita reali. La personalizzazione mira all’orientamento e si fonda sul diritto alla diversità; l’individualizzazione punta all’alfabetizzazione e si fonda sul diritto all’uguaglianza.

LE MISURE DISPENSATIVE

L’alunno con DSA è dispensato da alcune prestazioni non essenziali come la lettura ad alta voce, la scrittura sotto dettatura, il prendere appunti, il copiare dalla lavagna, il rispetto della tempistica per i compiti scritti, la quantità di compiti a casa, alcune prove valutative.

GLI STRUMENTI COMPENSATIVI

A seconda del caso, della disciplina e del disturbo, l’alunno può usufruire di strumenti compensativi che bilancino le carenze funzionali tipiche del suo disturbo. Nella scuola primaria il bambino può usare la tabella dell’alfabeto, la tavola pitagorica, la linea del tempo, gli schemi e le mappe, il computer con un programma di video scrittura, la calcolatrice, il registratore, gli audiolibri, i libri digitali, i software specifici. Nella scuola secondaria può, in aggiunta a questi strumenti, fare anche ricorso al vocabolario multimediale.

Durante le attività didattiche, l’osservazione costante da parte del docente, deve puntare ad evidenziare le strategie utilizzate dall’alunno e la scelta che egli compie degli strumenti, per verificarne il grado di apprendimento e procedere ad una consona valutazione.

LA VALUTAZIONE

La valutazione degli studenti ai sensi del DPR 122 del 22 giugno 2009 (Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi del DL n. 137 del primo settembre 2008, convertito con  modificazioni dalla L. n. 169 del 30 ottobre 2008), definisce all’art. 10 la valutazione degli alunni con DSA.

Premessa indispensabile è che per gli alunni con DSA adeguatamente certificati la valutazione e la verifica degli apprendimenti, comprese quelle effettuate in sede di esami conclusivi dei cicli, devono tenere conto delle specifiche situazioni soggettive. Ciò chiarisce il fatto che la valutazione segue parametri che vanno comunque adattati al singolo caso.

Novità riguardo gli esami di conclusivi del primo e secondo ciclo vengono introdotte con il D. Lgs. 62 del 2017, applicativo della L. 107 del 13 luglio 2015.

L’art. 11 stabilisce che per l’ammissione alla classe successiva e all’esame di stato per gli alunni con DSA, bisogna tener conto del PDP (Piano Didattico Personalizzato) e calibrare i criteri e le modalità di svolgimento delle prove sul singolo caso. Tali studenti partecipano alle prove Invalsi, come requisito indispensabile per l’ammissione all’esame di stato (Nota Miur n. 1865 del 2017). Durante le prove d’esame gli studenti affetti da DSA devono seguire le modalità previste dall’articolo 14 del DM n. 741 del 2017, fare uso degli strumenti compensativi indicati nel PDP, ai quali già sono abituati e possono usufruire eventualmente di tempi lunghi durante le prove scritte, senza che tale modalità pregiudichi la validità della loro prova.

Gli studenti dispensati dalle prove scritte di lingua straniera possono essere sottoposti, da parte della commissione, ad una prova orale sostitutiva. Gli studenti esonerati dall’insegnamento delle lingue vengono sottoposti a prove differenziate con valore equivalente. La valutazione delle prove scritte deve tener conto delle competenze acquisite sulla base del PDP.

Il titolo del diploma finale degli studenti con DSA non deve fare menzione delle eventuali prove differenziate, né nei tabelloni affissi all’albo dell’istituto se ne deve rilevare traccia.

GLI ESAMI DI STATO DI II CICLO

La recente OM n. 350 del 2 maggio 2018 relativa ad Istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado nelle scuole statali e paritarie Anno scolastico 2017-2018, all’art. 23 recita che la commissione d’esame terrà in debita considerazione le specifiche situazioni soggettive e le modalità didattiche e le forme di valutazione individuate nel PDP ed inseriti nel documento del 15 maggio, ai sensi dell’art. 5 del DM n. 5669 del 12 luglio 2011. In particolare i candidati con DSA possono utilizzare strumenti compensativi informatici previsti e già impiegati in corso d’anno  e usufruire di dispositivi per l’ascolto dei testi in formato mp3.

Inoltre la commissione può individuare un proprio membro per la lettura ad alta voce dei testi delle prove scritte ed anche trascrivere il testo sul supporto informatico per coloro che utilizzano i sintetizzatori vocali. Sono suggeriti tempi più lunghi di quelli ordinari e l’adozione di criteri valutativi attenti al contenuto più che alla forma. L’ordinanza precisa circa la possibilità di usare le calcolatrici durante lo svolgimento della seconda prova e circa i modelli scientifici e grafici in produzione negli ultimi 5 anni consentiti per i quali è necessario consultare la Nota Miur n. 5641 del 30 marzo 2018, che vieta come lo scorso anno l’uso di calcolatrici con capacità di calcolo simbolico (CAS).

Le calcolatrici vanno consegnate alla commissione il giorno della prima prova per consentire che essa compia eventuali e necessari controlli dei dispositivi. I candidati che hanno seguito un percorso didattico differenziato ricevono solo il rilascio dell’attestazione, coloro che hanno praticato un percorso ordinario con la sola dispensa dalle prove scritte ordinarie di lingua straniera, nel caso in cui la lingua straniera sia oggetto di seconda prova scritta, dovranno svolgere nella stessa giornata di tale prova o il giorno successivo una prova sostitutiva. Anche nel caso di prova di lingua come terza prova valgono le stesse modalità. Chi ha l’esonero dall’insegnamento della lingua straniera riceve solo  l’attestazione di cui all’art. 13 del DPR n. 323 del 1998; chi è dispensato solo dallo scritto consegue il diploma conclusivo di istruzione secondaria di secondo grado.

IL MONITORAGGIO NAZIONALE

Un focus del Miur dello scorso 21 aprile ha confermato il notevole aumento degli studenti della scuola italiana con DSA certificati. Attualmente sono 140.000 gli alunni italiani affetti da dislessia, 58.000 gli studenti con disgrafia, 63.000 gli affetti da discalculia. Si è passati dal 2,5% dello scorso anno al 2,9% nell’anno scolastico in corso.

Grazie alla legge 170 del 2010 la scuola italiana ha acquisito una piena consapevolezza del problema, ha formato docenti oggi più attenti ai segnali di disturbo ed ha reso più tempestivi gli interventi mirati, con l’intento di favorire il percorso di inclusione degli studenti bisognosi di interventi didattici personalizzati.

LE CONCLUSIONI

Una scuola inclusiva è una scuola che nel progettare tiene presenti tutti ma proprio tutti, che si trasforma in un laboratorio di formazione finalizzato alla creazione di una cittadinanza attiva, che non pone al centro del suo mondo l’insegnamento, ma l’apprendimento, inteso non tanto come sapere ma come saper fare nel mondo reale. Ne deriva una didattica inclusiva che valorizza le differenze, che si muove con equità, efficienza e efficacia verso tutti, che raggiunge gli obiettivi prefissati, che facilita l’apprendimento attraverso canali visivi, canali uditivi, materiale strutturato ed un apprendimento cooperativo, che soddisfa tutti e ciascuno, che favorisce le diversità come forza del gruppo.

La scuola inclusiva, la didattica inclusiva, il mondo inclusivo abbattono gli ostacoli, usano la diversità come risorsa, promuovono valori umani, quelli che esaltano il contributo esistenziale delle persone, il loro potenziale di sviluppo leggendolo come talento da far fruttare, in quanto portatore di valori in qualsiasi età ed in qualsiasi stato psicofisico.

Il docente inclusivo applica i sette punti chiave della didattica inclusiva di Erickson:

  1. la risorsa compagni di classe,
  2. l’adattamento come strategia inclusiva,
  3. le strategie logico-visive,
  4. i processi cognitivi e gli stili di apprendimento,
  5. la meta cognizione ed il metodo di studio,
  6. le emozioni e le variabili psicologiche nell’apprendimento,
  7. la valutazione, la verifica ed il feedback.

La scuola inclusiva è quella in cui tutti, ma proprio tutti, raggiungono il massimo grado possibile di apprendimento; la società inclusiva è quella in cui tutti, ma veramente tutti, vivono in armonia la piena partecipazione sociale.

Bullismo e cyberbullismo

Numerosi autori e ricercatori si sono interessati nell’ultimo decennio, sia a livello nazionale che internazionale, del bullismo a scuola. I connotati salienti del bullismo possono essere sintetizzati in: intenzionalità delle molestie, la loro reiterazione e l’asimmetria del potere all’interno della relazione bullo-vittima. I primi studi sul bullismo risalgono agli anni ’70 e in una prospettiva sociologica e psicologica si riscontrano quasi sempre le stesse caratteristiche. Lo psicologo Dario Bacchini definisce i bambini e gli adolescenti dei nostri giorni sempre più arrabbiati, annoiati, fragili emotivamente, bisognosi di protezione, presentando cosi contemporaneamente le caratteristiche di prepotenti e vittime. Ne consegue un ruolo mutato anche della famiglia che adotta stili educativi tolleranti, dove si cerca di ottenere il consenso più che l’obbedienza, che concede ampie autonomie ai figli e che ha un ridotto controllo sul loro tempo libero.

I bambini di oggi hanno due famiglie, quella naturale e quella del gruppo di amici; quest’ultima ha un’influenza e un potere decisionale molto superiore a quella della famiglia naturale. Il gruppo pur essendo un’organizzazione sociale rilevante per la costruzione dell’identità del soggetto nelle varie fasi evolutive, può rappresentare anche un enorme potenziale di rischio e diventare deviante e cattivo.

Il bullismo comporta un coinvolgimento di tutti gli alunni della classe che, seppure in ruoli diversi da quello del bullo legittimano e fortificano, diventando complici, l’atteggiamento del bullo. Secondo lo psicologo statunitense Daniel Goleman i nuovi bambini sono carenti di intelligenza emotiva, incapaci di compartecipazione  affettiva e quindi impossibilitati a provare empatia necessaria alla comprensione tra gli esseri umani.

Un accenno va anche al cyberbullismo, cioè una forma di bullismo che viene esercitato attraverso i mezzi elettronici come e-mail, facebook, youtube, e l’uso di telefoni cellulari. Spesso, questo tipo di comportamento, è affiancato a quello tradizionale o è espresso in forma anonima. Vi sono varie forme di cyberbullismo come: harassment, cyberstalking, denigrazione, outing estorto, impersonificazione ed esclusione.

Per far fronte a questo fenomeno e in generale a tutte le forme di abuso, il  Parlamento ha promulgato la L. 71/2017 per dare disposizioni, a tutela dei minori, per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo. Nella L. 71/2017 vi è l’obbligo della rimozione entro 24 ore o dell’oscuramento dei dati, su richiesta dei genitori dei minori implicati e degli interessati, se maggiorenni. Inoltre la Legge prevede l’emanazione di Linee Guida di orientamento in ambito scolastico, attraverso la formazione del personale  con la nomina di un referente per Istituto, la promozione attiva degli studenti in attività di peer education, la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti.

Viene sottolineata la necessità di assumere un particolare rigore nei confronti di comportamenti di violenza e sopraffazione nei confronti dei coetanei. La sanzione irrogata, anziché orientarsi ad espellere lo studente da scuola,  deve tendere ad un maggior coinvolgimento e responsabilizzazione dell’alunno all’interno della comunità scolastica. La scuola dovrà indicare a chi ha violato, non solo una maggiore assunzione di consapevolezza della propria condotta ma anche la volontà di adoperarsi per riparare il danno, attraverso lo svolgimento di attività di rilevanza sociale o orientate all’ interesse generale della comunità.

L’ art. 5 bis del DPR. 235/2007 introduce il Patto Educativo di Corresponsabilità che mira ad una sempre più forte  alleanza tra scuola e famiglia e vede la partecipazione di quest’ultima nella condivisione delle strategie da seguire nei casi di bullismo o cyberbullismo. Altra iniziativa è l’insegnamento obbligatorio di Cittadinanza e Costituzione, per una maggiore acquisizione di una coscienza civile espressa nell’adempimento dei propri doveri, nell’esercizio dei propri diritti e nel rispetto dei diritti altrui. Il Miur ha attivato delle politiche d’intervento con progetti, come “Generazioni Connesse”, tesi a realizzare programmi di sensibilizzazione sull’ uso  corretto di internet, creando una helpline per le problematiche legate alla rete, realizzando due hotline per segnalare la presenza in rete di materiale pedopornografico.

Il bullismo non sempre emerge in modo evidente agli occhi degli insegnanti, quindi è opportuno attivare appositi corsi di sensibilizzazione e formazione che aiutino a cogliere i segnali di disagio connessi al bullismo. E’ importante affrontare la questione in classe aprendo finestre d’aiuto, anche garantendo l’anonimato e soprattutto creare diffuse occasioni di ascolto. Concludo con una frase dello scrittore Davide Rondoni che in un articolo pubblicato da “Il Tempo”, afferma che “Occorre voler bene. Cioè occorre per sé e per i propri figli, desiderare la libertà. Quella vera, che fa amare con ardore e tenerezza la vita” e in quest’ottica bisogna allontanarsi dagli atteggiamenti di sopraffazione tendendo la mano ai più deboli.

Inclusione a metà…

La scuola italiana è la più democratica ed inclusiva d’Europa. Ma questo basta per parlare di una vera inclusione?

L’Italia, a differenza degli altri Paesi Europei, può sicuramente vantare una grande esperienza, in tematiche come l’integrazione e l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Eppure rimane nella collettività, la convinzione che l’impianto normativo, pur illuminato, non sia stato sufficiente al fine di sviluppare reali  condizioni per una vera inclusione sociale dei soggetti con disabilità. L’inclusione scolastica, eccellenza italiana in Europa, rischia infatti ogni giorno, di essere svuotata, a causa delle politiche di contenimento dei costi. Il senso di abbandono e di solitudine delle persone con disabilità e delle loro famiglie è in continuo aumento, malgrado i grandi cambiamenti ed i progressi  culturali avuti nel corso degli anni.

Recentemente i ricercatori hanno condotto una rilevazione nelle Asl italiane,  per fornire una mappa sui servizi riabilitativi e socio sanitari integrati sui quali possono contare i disabili italiani. Hanno poi confrontato l’offerta di tali servizi e le strategie adottate con quattro Paesi europei: Spagna, Inghilterra, Francia e Germania. È emerso che l’Italia spende poco rispetto agli altri e pur vantando un sistema scolastico inclusivo, che annulla la diversità e la disabilità tra i banchi di scuola, non riesce a sostenere tali soggetti nel lungo percorso della vita.   La disabilità, al di fuori delle mura della scuola diventa soprattutto un problema di assistenza, rispetto ad altri Paesi europei, che pur adeguandosi più tardi all’idea di realizzare una società davvero inclusiva, hanno poi puntato maggiormente sulle pari opportunità, l’uguaglianza, l’eliminazione delle discriminazioni in tutti i settori, non solo in quello scolastico.

Dopo la scuola, dunque, il processo d’inclusione si blocca, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento lavorativo  e la qualità dei servizi offerti alle persone con disabilità ed ai loro familiari. A bloccare l’inclusione è dunque la politica del risparmio?

Osservando il percorso normativo italiano è evidente che la mancata realizzazione di una società che includa e non escluda i diversamente abili, non è dovuta certamente all’assenza di leggi idonee. Il nostro paese già nel lontano 1923 era, per quanto concerne la legislazione scolastica, all’avanguardia sul tema dell’integrazione dei soggetti portatori di handicap o diversamente abili. Infatti, mentre in altri paesi il superamento dei percorsi differenziati e delle classi speciali ha fatto e fa tuttora fatica a scomparire, in Italia l’abolizione delle classi differenziali si ha con la L. 118/71 e successivamente con la Legge 517/1977 si individuano modelli didattici flessibili con i quali attivare forme di integrazione trasversali, esperienze di interclasse o attività organizzate per gruppi di alunni, affidati ad insegnanti specializzati.

Dalla Riforma Gentile, che estese l’obbligo scolastico anche agli alunni ciechi e sordi, si passò nel 1933 alle classi differenziali per alunni con lievi deficit cognitivi e alle scuole o istituti speciali per i casi più gravi, che addirittura permettevano soggiorni in luoghi lontani dalle famiglie. Ci troviamo in un periodo storico che escludeva totalmente tali soggetti dalla società;  chi non ricorda lo sterminio del progetto nazista? Fin dall’antichità la disabilità veniva dunque vista come deformità o deviazione rispetto all’ integrità della persona umana, come ritardo o come inferiorità.

La storia della disabiltà è tutta racchiusa in questi due termini: minorati e diversamente abili. Mentre la società li riteneva minorati, la scuola invece avviava un lento ma importante cambiamento verso l’integrazione. Fino alla fine degli anni ’60 infatti, la logica prevalente era quella della separazione: l’allievo disabile veniva percepito come un malato da affidare ad un maestro-medico e come potenziale elemento di disturbo. Ma dal  1971 in poi, con la Legge n.118, si inizia a pensare all’inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo. L’allievo con disabilità, che fa il suo ingresso nelle classi comuni, deve però sapersi adeguare al contesto. Si fa strada il concetto di integrazione, riferito a tutti gli alunni diversamente abili e si cominciano a progettare interventi educativi individualizzati e finalizzati al pieno sviluppo della personalità degli alunni.

Nel 1977 tutti gli studenti con disabilità vengono così integrati nelle scuole comuni e si assiste all’abolizione delle classi speciali, alla nascita di modelli didattici flessibili e ad insegnanti specializzati.  Ma è sicuramente la L. 104/1992, LEGGE QUADRO per l’integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità a rappresentare una vera innovazione in materia di diritto allo studio dei disabili. L’obiettivo dell’integrazione scolastica viene ampliato e si giunge, dunque, finalmente ad una legge quadro, organica, che riordina gli interventi e non si concentra solo sull’assistenza ma anche sull’integrazione e sui diritti dei disabili.

L’obiettivo del legislatore è infatti quello di promuovere la massima autonomia individuale e l’integrazione scolastica viene propugnata per tutti e per ogni ciclo scolastico, compresa l’Università. Un aspetto centrale ed innovativo riguarda anche  la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi e sportivi, perché una reale integrazione poggia le sue basi sul coinvolgimento di tutto il territorio e la cittadinanza. Si inizia a parlare di diversità come valore e di conseguenza a rendere ciascun soggetto con disabilità protagonista della propria vita, in ogni suo aspetto, in vista di un progetto di vita futuro.

Con la legge 53/2003 e con il concetto di personalizzazione viene data ancora un’altra opportunità alla disabilità, in quanto la personalizzazione diviene elemento essenziale della costruzione dei processi di apprendimento, intesa come la realizzazione di percorsi diversi all’interno del curricolo della classe, percorsi che devono rispondere a precisi bisogni formativi dell’individuo, mettendo al centro del programma scolastico non le discipline tradizionalmente intese, ma l’alunno e quindi nel nostro caso specifico l’alunno diversamente abile che necessitava in certi casi di una personalizzazione degli apprendimenti.

Nel 2009 viene ratificata la CONVENZIONE ONU per i diritti delle persone con disabilità e viene introdotto il concetto di INCLUSIONE. Oggi, il termine “integrazione” scolastica è stato ormai racchiuso e sostituito dal termine “inclusione”: intendendo con questo il processo attraverso il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, studenti, insegnanti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di un ambiente che risponde ai bisogni di tutti i bambini e in particolare dei bambini con bisogni speciali.

Non è più l’allievo ad adattarsi al contesto ma il contesto che tiene conto delle sue difficoltà. Successivamente vengono emanate ulteriori  leggi che approfondiscono la tematica sull’inclusione: la L. 170/2010 per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento  e viene introdotto il concetto di BES, alunni con bisogni educativi speciali dalla Direttiva ministeriale del 2012, proseguita con la C.M. 8 del 2013 tra cui rientrano anche gli alunni con disabilità certificati dalla L. 104/1992. La disabilità ha acquisito oggi più visibilità grazie al maggiore interesse alla tematica, ma in realtà essa si presenta come una costante nella storia del genere umano ed è per questo che non va considerata in maniera negativa bensì come una risorsa per tutti noi.

Una società che parla di inclusione non può dunque escludere i diversamente abili dal loro progetto di vita, rilegando alla sola scuola il compito di abbattere le barriere mentali e lavorare per l’inclusione e la L.107 del 2015 e il Dlgs 66 del 2017 – Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità – non possono restare semplicemente l’ultima novità  nell’ ambito dell’inclusione di tali soggetti.

Cosa  cambia di concreto con l’ultimo intervento legislativo in materia di inclusione e quali sono novità del Dlgs 66/17? Alcune di queste novità modificano significativamente il dettato della L. 104/92.  Ma basteranno per la vera inclusione dei futuri studenti con disabilità?

Il problema in realtà, non sarà tanto la creazione di una scuola inclusiva, quanto l’inserimento di tali soggetti in una società che purtroppo non possiamo ancora definire tale. Nell’età adulta, le politiche di inclusione sociale riguardano, anche l’aspetto occupazionale, oggi purtroppo ancora carente. E’ importante dunque, che si crei una vera e propria alleanza educativa che coinvolga tutti i soggetti interessati, dalla famiglia agli Enti locali perché la vera inclusione necessita ancora di comportamenti strategici e di coordinamento delle risorse economiche, finanziarie, strutturali e  professionali non solo di una buona organizzazione e gestione del sistema scolastico.

Una scuola per tutti…

Parlare di scuola come ambiente di apprendimento porta a prendere in considerazione due aspetti fondamentali: il primo è la dimensione cognitiva che attiene alla scuola in quanto produttrice di apprendimento, il secondo è la dimensione emotiva che attiene alla scuola in quanto ambiente sociale  in cui l’apprendimento si verifica.

La scuola italiana, secondo le Indicazioni Nazionali del 2012, sviluppa la propria azione educativa in coerenza con i principi dell’inclusione delle persone e dell’integrazione delle culture, considerando l’accoglienza della diversità un valore irrinunciabile. Attraverso specifiche strategie e percorsi personalizzati, favorisce la prevenzione e il recupero della dispersione scolastica e del fallimento formativo precoce, attivando iniziative in collaborazione con Enti locali e le agenzie educative presenti nel proprio territorio.

Il D.M. 254 del 2012 dedica un paragrafo e un capitolo all’importanza degli ambienti di apprendimento. Nella parte dedicata alla scuola dell’infanzia si legge che il curricolo si esplica in un’equilibrata integrazione di momenti di cura, di relazione, di apprendimento, dove le stesse routine svolgono una funzione di regolazione dei ritmi della giornata offrendosi come base sicura per nuove esperienze e nuove sollecitazioni. L’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione, l’azione, il contatto con gli oggetti, la natura, l’arte, il territorio, in una dimensione ludica, da intendersi come forma tipica di relazione e di conoscenza.

Nella parte dedicata alla scuola del primo ciclo, il documento, pone al centro la persona che apprende. Promuovendo un percorso di attività nel quale ogni alunno possa assumere un ruolo attivo nel proprio apprendimento, sviluppando al meglio le proprie inclinazioni, curiosità, consapevolezza di sé, costruendo un proprio progetto di vita. Viene sottolineata la dimensione comunitaria dell’apprendimento, si parla di aiuto reciproco, di apprendimento cooperativo e di apprendimento tra pari.

Negli ultimi  anni, in maniera graduale, si è passati dal paradigma dell’insegnamento (classi tradizionalmente intese con i docenti in cattedra e i discenti tra i banchi) a quello dell’apprendimento per scoperta( spazio aperto sul mondo).  Non più una visione incentrata sull’insegnamento, ma un’attenzione sul soggetto che apprende e quindi sui suoi processi (dal teaching centered al learning centered). Oggi i docenti hanno un ruolo fondamentale, in questa nuova prospettiva, dovendo far evolvere le classi in comunità che apprendono e in comunità di pratiche.

Stiamo assistendo a  rapidi cambiamenti nelle nuove tecnologie che pongono  alle scuole nuove e difficili sfide. Uno degli obiettivi di miglioramento è trasformare l’aula in un ambiente di apprendimento innovativo e interattivo, in cui gli studenti siano protagonisti.  È convinzione comune, infatti, che un ambiente di apprendimento ottimale garantisce una gestione costruttiva della classe, un aumento di interesse e maggiori motivazioni negli studenti. In questo nuovo scenario il docente è chiamato a svolgere un ruolo di facilitatore, con il compito di supportare e stimolare gli allievi, affinché in maniera autonoma questi possano determinare i propri obiettivi di apprendimento, scegliere le attività da svolgere, accedere alle risorse informative e agli strumenti messi a disposizione nell’ambiente di lavoro.

Per poter realizzare «una crescita sostenibile, intelligente ed inclusiva» (Europa 2020) si rende necessario organizzare, quindi, una didattica che integri linguaggi, strumenti e contenuti in nuovi quadri d’insieme. Le tecnologie digitali sono di grande supporto per il docente, che assume sempre più il volto di un «co-designer dell’apprendimento». Esse sono parte integrante degli attrezzi che mediano la relazione tra docente e discente, veicolano informazioni e saperi mettendo l’insegnante in condizione di porre in atto una didattica multimediale. Talvolta il supporto tecnologico risulta indispensabile all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni con disabilità.

Secondo il modello ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento della Salute e della disabilità) ogni persona si situa all’interno di un continuum di funzionamento a seconda dell’incontro tra le sue caratteristiche personali e le caratteristiche del contesto in cui vive. Ovvero, non esiste una netta distinzione tra la normalità e la patologia, esistono dei diversi livelli di funzionamento che dipendono dalle caratteristiche interne di ogni individuo e il tipo di contesti ambientali nei quali la persona vive.

Secondo una logica inclusiva la sfida è quella di strutturare interventi mirati e specifici, per una scuola che lavora sul contesto al fine di promuovere un’educazione per tutti, in una prospettiva ICF bio-psico-sociale, dove il concetto di «salute» supera il significato della semplice assenza di malattia per abbracciare il concetto di benessere bio-psico-fisico. Bisogna pensare la scuola, i suoi spazi, e i suoi tempi avendo come focus un approccio didattico globale, una didattica inclusiva.

Non più il ragazzo con la sua disabilità (che creerebbe discriminazione), ma tutte le condizioni educative che rendono la classe scolastica ambiente ospitale, accogliente, per TUTTI. Un ambiente dal punto di vista didattico capace di essere strumento in grado di promuovere gli apprendimenti in maniera differenziata, attento alla promozione e alle potenzialità di ognuno. Il contesto ambientale, quindi, può rappresentare una grande facilitazione se riesce a venire incontro al funzionamento della persona e limitarne o minimizzarne le difficoltà. La scuola si pone nei confronti di chi vi entra, siano essi alunni, personale scolastico o genitori, o come una facilitazione o come un ostacolo. Una scuola inclusiva cerca di diventare sempre più una scuola che trasforma i contesti in modo da renderli accessibili a tutti,  non solo da un punto di vista strutturale. Una scuola per tutti!

Chi sono gli alunni stranieri?

I minori stranieri, come quelli italiani, sono innanzitutto persone e in quanto tali, titolari di diritti e doveri che prescindono dalla loro origine nazionale.

L’Italia è stata tra i cinque Paesi, insieme a Germania, Grecia, Svezia e Ungheria, cui è stato chiesto di presentare le politiche educative in questo ambito e avviare un confronto di idee costruttivo. Negli ultimi 10 anni, nel nostro Paese si è avuto un forte aumento del numero totale degli alunni stranieri con cittadinanza non italiana: nel 2005/2006 il loro numero superava appena le 400.000 unità; nel 2014/2015 risultava quasi raddoppiato, raggiungendo circa le 830.000 unità.

Il Miur ha pubblicato nel febbraio 2014 le linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri nelle scuole italiane. La tutela di accesso del minore all’educazione scolastica trova le sue fonti normative nella legge sull’immigrazione n° 40 del 6 Marzo del 1998 e nel decreto 286 del 26 Luglio 1998. L’autonomia scolastica (275/99) ha poi consentito di affrontare con soluzioni flessibili le problematiche specifiche sull’immigrazione adattandole ad ogni scuola. L’istituzione scolastica infatti, occupa un ruolo centrale per la costruzione di regole comuni e rispetto della convivenza civile.

Le nuove indicazioni nazionali ed i nuovi scenari richiamano l’attenzione sull’importanza dell’inclusione vista come intercultura e crescita del bambino. L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione che quella di una convivenza formata da comunità chiuse tra di loro.

Ma chi sono gli alunni stranieri e come dovrebbero comportarsi le scuole secondo le indicazioni nazionali?

  1. Alunni nati in Italia ma con cittadinanza non italiana (genitori non italiani); a questa tipologia di alunni devono essere applicate le norme previste dalla legge sui cittadini stranieri residenti nel nostro paese (Ius Soli-Ius Culturae)
  2. Alunni con ambiente familiare non italofono (studenti che hanno frequentato la scuola nel paese di origine e che però vivono in un ambiente familiare dove si parla poco italiano). Questi alunni sono spesso estremamente competenti, e talvolta alfabetizzati, nella lingua d’origine della famiglia perché hanno frequentato la scuola nel Paese d’origine, o perché studiano la lingua con l’aiuto dei genitori o di associazioni gestite all’interno di ciascuna comunità. Queste competenze vanno tenute in grande considerazione perché aiutano a combattere l’insicurezza linguistica e agevolano considerevolmente i processi cognitivi legati all’acquisizione dei meccanismi di letto-scrittura in italiano
  3. Minori accompagnati (alunni provenienti da altri paesi che si trovano per qualsisasi ragione nello stato italiano privi di assistenza e rappresentanza). Per il loro inserimento si dovrà tenere conto che, a causa delle pregresse esperienze di deprivazione e di abbandono, anche le competenze nella lingua d’origine – oltre a quelle in italiano – potranno risultare fortemente limitate rispetto all’età anagrafica dell’alunno, rendendo necessaria l’adozione di strategie compensative personalizzate.
  4. Alunni figli di coppie miste (papà della stessa nazione e mamma italiana o viceversa).  Le loro competenze nella lingua italiana sono efficacemente sostenute dalla vicinanza di un genitore che, di solito, è stato scolarizzato in Italia,  ottimo per bilinguismo.
  5. Alunni arrivati per adozione internazionale. Per l’inserimento scolastico di questi bambini sono da prevedere interventi specifici e percorsi personalizzati, sia in considerazione di eventuali pregresse esperienze di deprivazione e abbandono, sia per consolidare l’autostima e la fiducia nelle proprie capacità di apprendimento.
  6. Alunni rom, sinti e caminanti, questi bambini presentano molteplici differenze di lingua, religione, costumi. Una parte di essi proviene dai paesi dell’Est Europa, anche da paesi membri dell’UE, spesso di recente immigrazione e non possiede la cittadinanza italiana. Lavorare con alunni e famiglie rom, sinti e caminanti richiede molta flessibilità e disponibilità ad impostare percorsi di apprendimento specifici e personalizzati, che tengano conto del retroterra culturale di queste popolazioni. Una lunga esperienza delle scuole ha consolidato molte buone pratiche con tale approccio.

Alcune novità in tema d’immigrazione però arrivano anche dalla rete Eurydice (Rete europea d’informazione sull’istruzione). La scorsa primavera è partito uno studio sugli alunni immigrati nelle scuole europee che ha messo in luce anche per l’Italia un coinvolgimento maggiore  per gli studenti che arrivano nella nostra nazione ad anno in corso. La lingua L2 che prima era considerata come una ‘buona conoscenza’ da parte dell’alunno, ora diventa ‘fondamentale’ visto l’aumento esponezniale degli stranieri nel nostro territorio. Permane in ogni caso il limite del 30% di alunni non italiani sul totale iscritti al fine di equilibrare la distribuzione dei ragazzi con cittadinanza non italiana fra scuole di uno stesso territorio.

BES e non… includiamo?!?!

Mi permetto di proporre alcune riflessioni in riferimento al dibattito in corso nel mondo della scuola e degli ambienti pedagogici sulla questione dei cosiddetti “bisogni educativi speciali” che ha trovato una sua esplicita formalizzazione nei documenti del Miur di dicembre 2012 e marzo 2013. Considero la questione estremamente delicata e complessa ma anche importante poiché è il riflesso di una concezione della scuola e di una visione della gestione delle differenze in termini di apprendimento, crescita individuale e collettiva. In sostanza ne va del modello di società che vogliamo costruire formando le future generazioni e quindi della nostra idea di democrazia. Faccio rapidamente alcune considerazioni e pongo alcuni quesiti sui quali invito il mondo della scuola ma anche dell’educazione in generale a riflettere seriamente.

I rischi della logica differenzialistica e delle stigmatizzazioni sofisticate.

Ricordo che nel 1977 con la legge sull’integrazione scolastica degli alunni disabili nella scuola di tutti si superava, almeno così si pensava allora, la logica differenzialistica delle classi differenziali , delle scuole speciali e delle sezioni ghetto. Si affermava il principio dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso all’istruzione e all’educazione predisponendo strumenti e risorse (vedi insegnante di sostegno) per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni tramite un’attività pedagogica accogliente, in grado di promuovere l’individualizzazione dei percorsi di apprendimento e l’attività di gruppo (produttrice di esperienze di socialità).

Tutto andava quindi nella direzione di lottare contro l’esclusione, la marginalizzazione e la stigmatizzazione/inferiorizzazione dell’alunno disabile. Negli anni si sono sviluppate esperienze didattiche e pedagogiche ricche di innovazione ma sono anche emersi molti limiti e tante criticità. Con una direttiva del 2010 il ministero pone la questione degli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia); si promuovono corsi di formazione per insegnanti (curriculari e di sostegno).

Comincia a porsi una domanda: se è giusto essere attenti al fenomeno dei DSA non v’è il rischio di una identificazione rapida tra difficoltà di apprendimento e disturbi specifici? Non v’è anche il rischio di accentuare lo sguardo clinico-diagnostico a scapito dello sguardo pedagogico che dovrebbe essere quello dell’insegnante? Abbiamo anche visto gli alunni con ADHD (sindrome da deficit di attenzione e iperattività); anche qui una nozione e categoria ambigua e molto discussa: cosa vuol dire? Chi sono?

Quale attenzione pedagogica da parte dell’insegnante (una volta lo psicopedagogista francese Henri Wallon parlava di “bambino turbolento”; si capisce che dire turbolento e dire iperattivo non è la stessa cosa, non è lo stesso sguardo; il primo colloca la questione nell’ambito educativo, il secondo in quello clinico-sintomatologico).

Adesso abbiamo i BES: chi sono? In parte si riprendono alcune categorie precedenti e si aggiungono:

  • gli alunni con difficoltà di apprendimento (quale alunno non presenta difficoltà di apprendimento?),
  • gli alunni con disagio psico-sociale (la povertà sociale è un problema?),
  • quelli con difficoltà linguistico culturali (l’essere figlio/a d’immigrati è un problema?),
  • gli alunni con un ‘funzionamento intellettivo limite’ (cosa vuol dire esattamente?).

Insomma un’ulteriore categoria insieme ambigua, generica e anche funzionale al paradigma clinico-diagnostico-terapeutico che sta colonizzando culturalmente la scuola e la società. Faccio notare che le categorie usate non sono per niente neutrali e che mentre la logica differenzialistica tende a produrre e riprodurre diseguaglianze (stigmatizzazioni sofisticate), il riconoscimento delle differenze passa tramite un’azione pedagogica basata sul principio di eguaglianza nell’accesso ai saperi e alle conoscenze. Insomma la logica differenzialistica delle categorizzazioni continue non ha nulla a che fare con il riconoscimento delle differenze.

Quale inclusione?

Anche sulla questione dell’inclusione occorre confrontarsi e chiarire meglio di cosa stiamo parlando. Per anni si è parlato di integrazione, in particolare in riferimento all’integrazione scolastica e sociale degli alunni con disabilità (distinguendo la disabilità-prodotta da un deficit sensoriale, motorio, intellettivo dall’handicap prodotto o conseguenza socio-culturale, ostacoli generati dalla società nell’interazione con il soggetto con disabilità); si diceva che fosse importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e formative in grado di rimuovere barriere e ostacoli. Di modificare tramite la mediazione dell’azione educativa pregiudizi e situazioni produttrici di esclusione, autoesclusione e stigmatizzazione/interiorizzazione.

Poi da alcuni anni si è cominciato a parlare d’inclusione, precisando che si voleva sottolineare che il cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco (soggetto e ambiente). Troviamo queste considerazioni già nei lavori dello psicopedagogista sovietico Lev Vygotskij che parla di mediazioni: quello che oggi vengono definite con le espressioni strumenti compensativi e dispensativi (uso di tecniche, ausili e di accompagnamento e supporti). Produrre esperienze di apprendimento mediato per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni, appunto in una prospettiva d’integrazione e/o d’inclusione. Ma sorge un dubbio: se il concetto d’inclusione è strettamente connesso agli indirizzi proposti sui cosiddetti Bes si muove nella direzione del differenzialismo, allora cosa vuol dire includere?

Un concetto chiave rimane quello di adattamento funzionale. Quindi si tratta di adattare, per il bene dell’alunno “Bes”, di “normalizzare”, di “curare”, di “riparare”. Ma a questo punto non si rischia di riprodurre le diseguaglianze che si dichiara di volere combattere? Non si rischia di fornire una giustificazione “scientifica” all’esistenza, purtroppo reale, delle sezioni ghetto nelle scuole, e, quindi, di riprodurre la logica delle classi differenziali? Nei documenti del ministero si parla della valutazione dell’inclusività delle scuole: ma chi si occuperà di questa valutazione? Quale formazione e competenze avranno i valutatori? Quali criteri di valutazione saranno utilizzati? Non vorrei che i criteri (diffusi nei sistemi di valutazione PISA) usati (successo scolastico, abbandono e dispersione scolastica, autofinanziamento, progettualità approvate e realizzate) finissero per penalizzare ulteriormente le scuole delle periferie, le scuole povere dei quartieri emarginati, le scuole collocate nelle zone ad alta presenza di immigrati…

Vorrebbe dire riprodurre e accentuare le diseguaglianze e essere in contraddizione con il detto costituzionale della Repubblica italiana. Sono quesiti posti sia sul piano della riflessione filosofica, pedagogica e sociologica da eminenti studiosi e pensatori come il tedesco Jurgen Habermas (l’inclusione dell’altro) e il francese Charles Gardou (la società inclusiva). Inoltre si pone anche la questione della relazione e del tipo di collaborazione tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno, ma anche quella del rapporto tra scuola, famiglie e territorio: è quello che, nei loro recenti lavori, dei colleghi belgi come J.P. Pourtois, H. Desmett e B. Humbeeck chiamano “processi co-educativi”: come si costruisce l’alleanza co-educativa tra i diversi attori della comunità? Come si può attivare e realizzare insieme dei processi di emancipazione che garantiscono la giustizia nei processi di apprendimento?

Didattica o didatticismo? La marginalizzazione della pedagogia

La gestione del gruppo classe e l’organizzazione degli apprendimenti sono due aspetti fondamentali dell’attività docente. La tendenza va sempre di più (lo si vede nella formazione stessa del personale docente) nella direzione delle procedure didattiche, della tecnologia didattica, dell’uso degli strumenti; si sostituisce la didattica come processo vivo (che implica la relazione complessa tra docente, alunni, metodi, strumenti, comunità scolastica) con il didatticismo inteso come procedura.

Interessante notare che la figura dell’alunno come soggetto significante del processo d’insegnamento/apprendimento è assente. Se è presente lo è solo come fonte di problemi. Il rischio è di vedere l’insegnante diventare un operatore della diagnosi e della procedura tecnica per valutare la performance dell’alunno in termini stretti d’istruzione (come se istruzione e educazione non fossero interconnesse in modo vivo nell’esperienza in classe). La pedagogia (quindi la formazione pedagogica dell’insegnante che dovrebbe andare a caccia di risorse, capacità, potenzialità e non di “comportamenti problema”) viene marginalizzata nella cultura scolastica e colonizzata dallo sguardo di una certa psicologia clinica. Non a caso i documenti ministeriali non fanno praticamente mai riferimento alla lunga e ricca esperienza delle pedagogie attive e dell’educazione nuova; ancora meno di quelle prodotte dalla pedagogia speciale.

Quale modello organizzativo, quale politica? Logica burocratica o democratica?

Si parla di docenti esperti e preparati sui “BES”, si parla di Centri territoriali per l’inclusione: ma cosa vuol dire in modo preciso? Chi saranno questi docenti esperti dei BES? Quale formazione avranno? Quali compiti e competenze? Che fine faranno gli insegnanti specializzati o di sostegno? Vediamo in tutto questo una risposta tecnocratica-burocratica ad una questione di ordine culturale, pedagogica e sociale; di nuovo vediamo una scuola e un corpo docente deprivato del proprio protagonismo, della possibilità di partecipare all’analisi e anche all’elaborazione di proposte concrete per favorire l’effettiva eguaglianza delle opportunità per tutti gli alunni nell’accesso all’istruzione e all’educazione.

V’è bisogno del contributo degli insegnanti che ogni giorno attivano delle esperienze pedagogiche e didattiche nelle loro classi, che ogni giorno affrontano la complessità e le difficoltà del mestiere dell’insegnante in una società sempre più atomizzata e individualistica. Gli alunni portano a scuola le contraddizioni che vivono nelle loro famiglie e che nascono da una società che fa di ognuno un consumatore-spettatore e non un soggetto responsabile consapevole del legame tra individualità e comunità, tra diritti e doveri, tra desideri personali e bene comune. Gli insegnanti vanno coinvolti non come destinatari di indagini predisposte da pool di esperti, non come meri esecutori di direttive ministeriali o di tecniche specializzate ma come attori/autori in grado di produrre senso e di fornire, tramite la loro pratica, proposte e indicazioni per un rinnovamento della nostra scuola repubblicana.

Mi fermo qui. Sono solo alcuni spunti di riflessione; sono convinto che occorre rimettere al centro l’azione pedagogica e promuovere un autentico confronto dando voce agli operatori della scuola, agli insegnanti, agli educatori, ma anche agli alunni e ai genitori che spesso si trovano a dovere fare delle scelte senza capire di cosa si sta parlando. Ne va del futuro dei nostri figli, della scuola della Repubblica e anche del futuro della democrazia in questo paese.

Il dirigente scolastico: leader e artefice del processo di inclusione?

La società in cui viviamo presenta peculiarità di complessità che non sempre sono facili da decifrare e comprendere. Indiscutibilmente, essa si evolve e trasforma i suoi assetti con un ritmo più convulso rispetto al passato. É rilevante evidenziare le attuali esigenze educative per compararle con le realtà didattiche in atto e le linee di evoluzione presenti. La vera disfida concerne l’abilità del sistema scolastico di riuscire a mantenere il passo con il cambiamento sociale, l’apporto che la formazione scolastica può dare alla costruzione di cittadini attivi e consapevoli, il nesso tra l’istruzione scolastica e i bisogni individuali e sociali: in concreto, il legame tra scuola e realtà. É anche vero che la trasformazione è radicata con l’esperienza umana; il compito educativo è governare tale trasformazione alla luce di un progetto esistenziale e dei valori che lo ispirano.

Nello specifico, il tema dell’inclusione scolastica, in questo momento storico, diventa un argomento rilevante per le istituzioni sociali: la scuola e la famiglia. Il concetto di inclusione, avendo a che fare con le persone, con le diversità e con il superamento delle barriere all’apprendimento e alla partecipazione, sottace un processo dinamico in continua evoluzione. Il suo raggio di azione non si limita alla disabilità e ai bisogni educativi speciali, ma va oltre, abbraccia l’isolamento o le esclusioni derivanti dalla classe sociale, dallo svantaggio socio-economico, dalla razza, dal sesso e da altri fattori. Si occupa di pari opportunità, di diritti umani, di etica e altri concetti spesso difficili da tradurre in fatti concreti. Ed è per questa ragione che negli ultimi decenni l’inclusione è diventata uno dei principali temi di interesse per l’affermazione di diritti civili e sociali.

Le pratiche per l’inclusione degli alunni con Bisogni Educativi Speciali implicano attenzione e impegno da parte dei vari soggetti con funzioni di sostegno e intervento mirato ai più diversi livelli, nell’ottica di un coinvolgimento condiviso e responsabile in politiche educative, scolastiche, sanitarie e sociali coerenti e coordinate fra loro.

Nel mondo della scuola, il lavoro di promozione, di mediazione e di messa in atto di specifiche attività è prerogativa del Dirigente scolastico che, attraverso il coinvolgimento di tutta l’organizzazione-scuola, garantisce o meno la buona riuscita dell’inclusione dell’alunno con bisogni speciali. Il processo di inclusione deve incentrarsi sul progetto educativo da costruire, però, in collaborazione con tutti gli attori della comunità scolastica vista come comunità educante ed inclusiva.

Quanto e cosa può fare un leader educativo di fronte ai Bisogni Educativi Speciali? Emerge, dunque, la consapevolezza di considerare determinante il ruolo del dirigente scolastico nella promozione di una cultura dell’inclusione e della conseguente valutazione della stessa, che dimostri la capacità di riflettere sui dati di contesto e di saperli interpretare per il miglioramento, di coltivare la dimensione di senso delle decisioni e delle azioni per lo sviluppo culturale, pedagogico, gestionale e organizzativo di una scuola che possa dirsi inclusiva.

Alla luce dei più recenti studi psicopedagogici e didattici, i progressi in ambito educativo, la sempre maggiore presenza a scuola di alunni con bisogni educativi speciali, il diritto all’integrazione come valore ormai condiviso, i servizi esistenti sul territorio, l’apertura del mondo del lavoro ai disabili, devono rappresentare una base fondamentale per ulteriori conquiste civili e sociali, legate soprattutto al problema della competenza e della professionalità di coloro che si occupano del bene comune, che lavorano in posti di responsabilità sociale ed educativa, di coloro che soprattutto gestiscono il percorso formativo degli alunni con bisogni educativi speciali.

Con la Legge 59/97, le istituzioni scolastiche hanno acquisito personalità giuridica, ed autonomia organizzativa e didattica, esercitabile nei limiti della legge e nel rispetto dei principi di logicità e congruità in modo da evitare atti caratterizzati da disparità di trattamento quali potrebbero essere, in primo luogo, la mancata partecipazione di tutte le componenti scolastiche al processo di integrazione finalizzato alla costruzione di un progetto di vita che consenta agli alunni con bisogni educativi speciali di “avere un futuro”.

In particolare, i Principi Guida per promuovere la qualità della scuola inclusiva, nel 2009, definiscono le pari opportunità in termini di educazione, come partecipazione concreta e accesso reale alla formazione, non come una semplice “socializzazione in presenza”. Quello che diventa importante, al di là degli interventi e delle risorse, umane e strumentali, di cui una scuola dispone, che potranno essere più o meno vicine agli indicatori di qualità della formazione inclusiva, è la promozione di una cultura, di un atteggiamento inclusivo, delle convinzioni profonde, degli atteggiamenti e della disposizione professionale di quanti operano nella scuola, in primo luogo, del dirigente scolastico.

Per quanto attiene alle caratteristiche di una scuola inclusiva, il documento della European Agency for Development in Special Needs Education, fornisce indicazioni preziose non tutte indirizzate alla sola classe docente. Si tratta di “raccomandazioni politiche”, quindi rivolte a chi deve prendere decisioni di indirizzo e controllo del sistema, non solo agli attori del sistema stesso. In ogni caso, la complessità del progetto di inclusione di una istituzione scolastica pone la necessità di poter contare su squadre multidisciplinari, formate da specialisti di diverse competenze e settori. In queste squadre dovrebbero essere presenti anche i genitori: le sfide complesse si vincono se si è in grado di ampliare gli spazi d’azione e le prospettive di soluzione.

Il decentramento amministrativo, la riforma delle autonomie locali e della Pubblica Amministrazione, il riconoscimento dell’autonomia alle scuole, stanno cambiando le prospettive e chiedono con sempre maggiore urgenza di formare reti locali per la soluzione dei problemi. La necessità di stabilire accordi, intese, reti e, soprattutto, collaborazioni reali con gli enti del territorio e le famiglie rientra nello spazio di azione proprio del dirigente scolastico.

Dal punto di vista organizzativo, le scuole devono dotarsi di strumenti di gestione dell’inclusività, sia per rendere trasparenti le politiche di inclusione adottate, (premessa questa per la collaborazione anche con le risorse esterne), sia per fornire un quadro comune sul quale poi riflettere per migliorare le azioni di intervento. Strumenti di gestione del processo di inclusione, di cui si farà carico il dirigente in prima persona affinchè trovino piena attuazione, sono:

– Sezione del P.T. O.F. che riguarda in modo specifico il Piano Annuale per l’Inclusività;

– Profili di personalizzazione;

– Modalità di gestione del processo di individuazione e segnalazione dei bisogni educativi speciali;

– Modello di PDP in uso nell’istituto.

Facendo riferimento alla dimensione inclusiva dell’istituzione scolastica che si trova a coordinare, il dirigente scolastico dovrebbe:

  1. Promuovere una cultura dell’inclusione: per implementare questo obiettivo si devono sviluppare piani di formazione professionale che siano il più possibile estesi e generalizzati a tutto il personale. Non si potrà pensare di aumentare il grado di diffusione della didattica inclusiva se non si interviene sulle metodologie di insegnamento, se non si convincono i docenti a modificare le prassi didattiche.
  2. Sviluppare sostegni all’inclusione orientati al sistema: l’insegnante può molto, ma da solo non potrà garantire che l’alunno sia effettivamente inserito in modo produttivo in tutta l’esperienza scolastica. Per orientare la scuola verso l’inclusione, l’azione dirigenziale dovrà orientarsi non solo sulle persone, (formazione dei docenti) ma sul sistema tutto, in modo che questo possa essere predisposto per realizzare percorsi diversi in situazioni diverse e per offrire opportunità formative personalizzate organizzando, ad esempio, uno spazio-scuola che preveda attività, laboratori, strumenti e strutture che facciano da sostegno all’inclusione.
  3. Porre al centro dell’attenzione dei docenti il curricolo e la valutazione: aspetti sostanziali di ogni processo inclusivo sono la costruzione di un curricolo capace di dare indicazioni chiare in merito agli elementi essenziali della disciplina e di esprimere una sensibilità valutativa in grado di sostenere realmente lo sviluppo di tutti i soggetti in apprendimento. L’azione del dirigente deve promuovere la costruzione di un curricolo “a più velocità”, portando gli organi collegiali a ripensare le strategie valutative adottate, problematizzando le prassi, dando il giusto rilievo alle decisioni collegiali per far fronte ai problemi dei singoli, assumendo come prioritario l’impegno di rendere i processi collegiali attività sostanziali e vicine alla didattica quotidiana, non pratiche formali e burocratiche.
  4. Porre attenzione alle fasi critiche del percorso scolastico dell’alunno: per tutti i soggetti, ma in particolar modo per quelli più fragili, possono accentuarsi le problematicità nel momento del passaggio da un grado di istruzione al successivo. Sostenere questi processi di transizione è assolutamente indispensabile e deve essere sensibilità del dirigente scolastico preoccuparsi di attuare una adeguata politica di controllo sugli apprendimenti successivi degli alunni BES, soprattutto per rimodulare, se necessario, la dimensione organizzativa e metodologica della propria scuola.

Il sistema di istruzione risponde ai bisogni educativi e formativi dei giovani cittadini fino al compimento del percorso scolastico, favorendo il passaggio al mondo del lavoro e all’attuazione del progetto di vita che riguarda la crescita personale e sociale dell’alunno. Questo passaggio è particolarmente delicato per l’alunno con BES e va condiviso dalla famiglia e dagli altri soggetti coinvolti nel processo di integrazione: «Centrale diviene quindi la dimensione educativa, rivolta al disabile, agli operatori e alla rete parentale e sociale in cui il soggetto è inserito».

A tal fine il dirigente scolastico predispone adeguate misure organizzative per realizzare forme efficaci di relazioni con i soggetti deputati al servizio per l’impiego e con le associazioni.

Per rendere più efficace ed efficiente l’intervento dell’istituzione scuola nel processo di crescita e sviluppo dell’alunno disabile, il dirigente scolastico promuove la costituzione di reti di scuole, per un utilizzo più efficace dei fondi stanziati, una condivisione di risorse umane e strumentali, momenti di aggiornamento; in tal modo si dota il territorio di un punto di riferimento per i rapporti con le famiglie e con l’extrascuola. In questo panorama complesso di azioni, funzioni e buone pratiche da mettere in atto, il ruolo del dirigente scolastico promotore di azioni inclusive prevede che:

«Accanto ad una professionalità tecnica, è necessario associare una professionalità relazionale che sappia accomunare e ibridare modalità operative valide e funzionali alle diverse situazioni scolastiche, con riflessioni individuali e collegiali che valorizzino capacità personali e interazioni significative».

L’educazione interculturale: la nuova sfida per costruire una cittadinanza attiva

Le differenze culturali nella nostra società impongono un investimento sull’educazione culturale, inteso come progetto intenzionale che promuove il dialogo e il confronto rivolto a tutti, non solo agli alunni stranieri. La presenza di alunni non italiani a scuola deve diventare una risorsa, un punto di forza. Quella dell’intercultura deve essere una sfida, e la scuola tutta deve saperla rilanciare come prospettiva di innovazione educativa e didattica.

Una caratterizzazione della scuola in questa direzione consiste nel rispondere ai bisogni specifici non solo degli alunni non italiani, ma anche ai più ampi bisogni formativi della società complessa e multiculturale, che prevede una apertura delle menti ed uno sguardo non solo alle realtà locali, ma anche a quelle globali. Il progetto interculturale deve essere connesso all’educazione ai linguaggi; tutti i linguaggi, creativo, musicale, L2, motoria, ecc, devono essere considerati in chiave interculturale.

Il tempo prolungato, la curvatura musicale, teatrale, devono significare un grande punto di forza che apre la strada alle potenzialità educative anche in chiave interculturale. La scuola come contesto di educazione, oltre che di istruzione in senso stretto, offre infatti la possibilità di un lavoro serio di integrazione sociale e interculturale.

Sarebbe auspicabile dunque introdurre nei PTOF, in modo trasversale, le varie questioni inerenti l’intercultura. Alla voce “accoglienza” potrebbe essere arricchito il riferimento agli alunni di cittadinanza non italiana e alle prassi di prima accoglienza. Utile è la costituzione di una Commissione Intercultura, le cui funzioni andrebbero sommariamente delineate all’interno del PTOF.

Questo renderebbe più agevole il raggiungimento dell’obiettivo in questo modo esplicitato: “favorire la piena integrazione dell’alunno/a diversamente abile, promuovere iniziative di accoglienza e integrazione degli alunni/e stranieri, tutelandone la lingua e la cultura, anche attraverso la realizzazione di iniziative interculturali, stimolare riflessioni e attivare percorsi volti al benessere e alla tutela della salute dell’alunno/a”.

La traduzione del PTOF o di una sua sintesi nelle principali lingue d’origine degli studenti stranieri (albanese, rumeno, …), oltre che in inglese, francese, spagnolo. Sul lavoro di traduzione possono essere coinvolti gli insegnanti di lingua straniera e i genitori stranieri con buone competenze in italiano. La traduzione del POF costituisce non solo una forma di comunicazione istituzionale efficace e chiarificatrice, ma anche una prima forma di accoglienza che mira a coinvolgere genitori e alunni nella comunità scolastica, promuovendo collaborazione e partecipazione.

Nelle progettazioni curricolari è opportuno inserire riferimenti alla didattica interculturale nelle diverse aree disciplinari. Inserendo per ciascuna di essa almeno uno o due obiettivi o contenuti di questo tipo, costituisce uno stimolo per i docenti ad assumere una prospettiva interculturale e ad avviare un ripensamento del curricolo e dell’identità della scuola.

Potrebbe essere sottolineata la vocazione interculturale non solo attraverso la segnalazione di un progetto ad hoc, quanto attraverso una premessa al PTOF che potrà essere declinata all’interno di tutte le altre voci, anche quelle relative agli obiettivi tratti dalle Indicazioni Nazionali.

L’implementazione della progettualità interculturale nelle scuole può avvenire capitalizzando le esperienze di formazione del personale docente e non docente, istituendo, per esempio, la commissione intercultura. Questa commissione non va intesa come l’ennesimo organo con funzioni burocratiche, ma come laboratorio di idee e ricerca di strategie. La commissione intercultura cerca di sensibilizzare il collegio docenti sulle scelte effettuate, sulle loro motivazioni, fornendo al contempo consulenza didattica per chi prova disorientamento verso le questioni inerenti l’educazione interculturale.

Nel rispetto delle Linee guida del 2014 e delle migliori pratiche adottate, il momento dell’iscrizione va gestito attraverso un’accurata comunicazione con le famiglie, anche mediante una modulistica, una presentazione della scuola e del PTOF tradotte nella lingua d’origine, e l’individuazione del gruppo classe che meglio risponde ai bisogni dell’alunno. L’accoglienza dell’alunno nella classe va curata e gestita non solo sul piano normativo ma anche su quello didattico. La Commissione accoglienza individua e predispone a tal fine uno strumentario utile a tutti i docenti e rivolto a:

  1. raccogliere informazioni rilevanti sugli alunni (scolarizzazione pregressa, tempo libero, aspettative), anche attraverso brevi questionari bilingui (si segnalano i questionari bilingui per gli studenti migranti della casa editrice Vannini nelle seguenti versioni: italiano-cinese, italiano-albanese, italiano-rumeno, italiano-arabo, italiano-romanè, italiano-spagnolo, italiano-urdu);
  2. individuare i livelli di competenza linguistica mediante un test (sono disponibili numerosi strumenti standardizzati reperibili sul web e frutto del lavoro di altri progetti europei) utile ad ottenere dati rilevanti ai fini della progettazione educativa e didattica e a stabilire i livelli di partenza su cui lavorare;
  3. stabilire le attività dei primi giorni dell’inserimento scolastico, differenziate per i tre ordini di scuola, come ad esempio giochi di presentazione degli alunni, cartellini bilingui da apporre sugli oggetti della scuola e dell’aula, evidenziare i luoghi di provenienza mediante carte geografiche, far emergere le lingue d’origine, utilizzo dei linguaggi non verbali, ecc.

L’organizzazione dei servizi di mediazione interculturale non sempre è possibile e dipende da finanziamenti ottenuti ad hoc. Il lavoro educativo in sé per sé, tuttavia, postula la mediazione come prassi, consapevole o inconsapevole, che permette l’acquisizione dei significati, dei valori, degli apprendimenti.

La scuola dunque può lavorare per meglio esplorare le prassi della mediazione, attraverso un lavoro di riflessione e di emersione delle sue potenzialità. Nella prospettiva interculturale questo si traduce anche nell’assunzione del compito di mediare sia attraverso l’aiuto di uno o più mediatori culturali, sia senza di essi.

Paradossalmente, una scuola senza mediatore può essere in grado di promuovere efficacemente mediazione interculturale, e una scuola con mediatore può essere poco incline alla cultura della mediazione stessa. La differenza sta nel ruolo e nella funzione che la scuola assume: se si delega in toto al mediatore la funzione di mediazione, la scuola rinuncia al suo mandato e non acquisisce la cultura organizzativa necessaria per promuovere contatto, apertura, comprensione, comunicazione.

Nelle prassi, spesso la figura del mediatore viene assimilata a quella dell’insegnante di sostegno: viene in questo modo non solo travisata la sua funzione, ma si costruisce anche un alone, intorno agli alunni migranti, che restituisce un’immagine di essi che rimanda alle idee di svantaggio, di pedagogia compensativa, di diversabilità.  Uno dei compiti della Commissione può essere quello di sensibilizzare la scuola e di inserire nel PTOF proposte di lavoro in tale direzione. Tutti i docenti, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di I e II grado, possono essere stimolati in questo modo ad inserire nella loro programmazione curricolare, obiettivi e contenuti di tipo interculturale. Orientare il curricolo scolastico in direzione interculturale significa lavorare su più livelli:

  1. analizzare il curricolo e i libri di testo per individuare impostazioni e messaggi etnocentrici e svalorizzanti nei confronti della differenza e degli altri;
  2. prevenire e contrastare stereotipi e pregiudizi;
  3. mettere attenzione alle componenti del curricolo che passano attraverso l’organizzazione, la comunicazione in classe, il modo di verificare e valutare gli apprendimenti;
  4. progettare percorsi curricolari con approccio interculturale.

La revisione del curricolo in senso interculturale cerca di prendere in esame i quattro elementi che lo definiscono: gli obiettivi, i contenuti, l’organizzazione scolastica, la valutazione. Non si tratta soltanto di scoprire la diversità e di accettarla, ma di “integrarla” come fatto assolutamente normale all’interno del corpus dei saperi scolastici, in linea con quell’idea di identità terrestre che secondo Morin dovrebbe attivare un’educazione aperta alla complessità, allo sconfinamento dei limiti e dei punti di vista, alla costruzione dell’idea di comunità di destino che non può più mettere al centro soltanto le dimensioni locali e nazionali.

Questo non significa rinunciare allo studio della realtà locale e nazionale, ma di allargare lo sguardo al globale, al mondo delle interdipendenze, alle varie espressioni culturali che non solo ci permettono di riflettere sul valore della differenza, ma anche di scoprire gli elementi trasversali, transculturali che ci accomunano in quanto appartenenti alla specie umana. Per la scuola dell’infanzia, i campi di esperienza rappresentano il terreno analogo sul quale investire in direzione interculturale. Laddove siano presenti alunni di cittadinanza non italiana, si può dare risalto, attraverso le discipline, alle loro culture di appartenenza (fiabe, favole, lingua, espressioni letterarie ed artistiche, ecc.).

Interessante sarebbe, in ogni istituzione scolastica, la realizzazione di laboratori permanenti di livello di alfabetizzazione della lingua italiana. Laboratori dove si accolgono gli alunni stranieri in qualsiasi momento dell’anno scolastico. Per gli iscritti nei tempi ordinari questi laboratori possono iniziare nei primi giorni di settembre in modo da avviare una prima alfabetizzazione e individuare le reali esigenze per inserirli nelle realtà più idonee ad accoglierli.

Inoltre, gli inserimenti andrebbero fatti, dalle figure di sistema, sempre dopo un’attenta valutazione delle potenziali classi in cui gli alunni verranno inseriti. Al momento dell’iscrizione sarebbe necessaria la presenza di un mediatore culturale per adempiere tutto l’iter burocratico, e per poter svolgere test di verifica per individuare le competenze possedute dall’alunno e esportarle all’età anagrafica e a quanto dichiarato rispetto al percorso di studio vissuto. Il momento dell’accoglienza è determinante per dare il via ad un processo di inclusione che non sia solo di inserimento.

Dall’integrazione all’inclusione

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori,

ma nel possedere altri occhi,

vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro,

di centinaia d’altri:

di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva,

che ciascuno di loro è.

(MARCEL PROUST)

L’idea di integrazione rimanda soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della cultura dominante, quindi assume un significato più vicino ad “assimilazione” in cui mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Una parola come “inclusione” contiene in sé, invece, il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza, poiché l’ambiente è più sintonico rispetto all’elemento che si inserisce. Non si tratta quindi di sinonimi, perché veicolano significati differenti e vengono usati da prospettive differenti. Pertanto, vi è una sfumatura semantica sottile, tra l’uso di integrazione scolastica e quello di inclusione che sembra aver avuto un forte valore performativo ad esempio nell’evoluzione della normativa, di seguito sinteticamente riportata, dove si abbandona progressivamente il termine di integrazione, per sostituirlo con quello dell’inclusione.

– L’integrazione delle persone con disabilità nella scuola di tutti ha inizio nei primi anni Settanta, quando viene promulgata la legge 118/71. Comunque, è con la legge 517/77 che ebbe ufficialmente inizio il processo di inserimento delle persone con disabilità nelle scuole del nostro Paese, sempre all’insegna dell’obiettivo di integrarle.

– La legge 104/92 rappresenta poi una tappa fondamentale perché colloca il diritto all’integrazione scolastica tra i diritti fondamentali della persona e del cittadino.

– A seguire vi è il DPCM n. 185/06 (“Regolamento recante modalità e criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289”) che presenta elementi innovativi soprattutto rispetto alla certificazione della disabilità, che per la prima volta viene scorporata dalla classificazione della persona (soggetto con disabilità e non più soggetto disabile).

– Nel Decreto n. 5669 del 12 luglio 2011, emanato in attuazione della legge 170/2010, i DSA rappresentano una questione distinta dalle problematiche dell’handicap. Il Decreto, con l’Allegato: “Linee guida”, illustra in modo puntuale e articolato i percorsi didattici da privilegiare con gli alunni affetti da DSA e apre un canale di tutela del diritto allo studio diverso da quello previsto dalla L. 104/92 perché focalizzato sulla didattica individualizzata e personalizzata, sugli strumenti compensativi, sulle misure dispensative e su adeguate forme di verifica e di valutazione.

– L’espressione “Bisogni Educativi Speciali” (BES) entra in uso in Italia con l’emanazione della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” e successiva C.M. n° 8 del 6 marzo 2013, che riprende le indicazioni UNESCO del 1977: il concetto di Bisogno Educativo Speciale si estende al di là di quelli che sono inclusi nelle categorie di disabilità, per coprire quegli alunni che vanno male a scuola (failing) per una varietà di altre ragioni che sono note nel loro impedire un progresso ottimale. Se questo gruppo di bambini, più o meno ampiamente definito, avrà bisogno di un sostegno aggiuntivo, dipenderà da quanto la scuola avrà bisogno di adattare il curricolo, l’insegnamento, l’organizzazione o le risorse aggiuntive umane e/o materiali per stimolare un apprendimento efficace ed efficiente.

Analizzando in dettaglio il valore performativo della normativa, sembra che l’ integrazione sia sottintesa all’offerta formativa individualizzata, che è rivolta ai soli alunni con disabilità certificata; come garanzia del diritto ad apprendere degli studenti con DSA viene poi introdotto il concetto di didattica personalizzata , che si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno; l’inclusione invece consente di coinvolgere tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali.

Quindi nell’integrazione esiste una distinzione tra la persona con disabilità e la persona senza disabilità; nell’inclusione invece, tutti sono considerati persone, ognuno con i propri bisogni. Il termine inclusione, sempre nella DM del 2012, viene inteso come processo attraverso il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, alunni, docenti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di un ambiente che risponde ai bisogni di tutti, ed in particolare a quelli di alunni con Bisogni Educativi Speciali. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi, come viene specificato anche dall’I.C.F., (Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità)  , proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2000).

Dunque l’inclusione è un passo avanti rispetto all’integrazione, perché non solo garantisce un’offerta formativa individualizzata a tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ma definisce anche che ciò debba avvenire in un contesto favorevole. In questa prospettiva, la mancanza di inclusione e/o di successo scolastico di un alunno non dipenderebbe da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e delle sue pratiche didattiche, definibile come “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”.

Associata al concetto di Bisogno Educativo Speciale e di inclusione vi è dunque l’idea di didattica inclusiva, che non è più speciale (cioè diretta solo a chi ne ha bisogno) ma ordinaria, cioè per tutti. La Direttiva 27/12/12 del Ministro Profumo parte proprio da: «l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta.

Va quindi potenziata la cultura dell’inclusione: un approccio educativo, non meramente clinico dovrebbe dar modo di individuare strategie e metodologie di intervento correlate alle esigenze educative speciali, nella prospettiva di una scuola sempre più inclusiva e accogliente, senza bisogno di ulteriori precisazioni di carattere normativo. È sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: una didattica inclusiva più che una didattica speciale.

L’attenzione al contesto, piuttosto che al soggetto, è in linea con l’uso della ICF (2002) dell’OMS, che ci fornisce un’ottima base concettuale di funzionamento globale del soggetto: il funzionamento educativo-apprenditivo scaturisce dalla stretta relazione tra condizioni fisiche e fattori legati al contesto che inevitabilmente lo condizionano. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi. Quindi una scuola davvero inclusiva deve eliminare eventuali barriere relazionali o didattiche che potrebbero determinare o influire negativamente su forme di Bisogno Educativo Speciale, mettendo in atto strategie in grado di stimolare un apprendimento efficiente ed efficace.

Alunni adottati

Il 18 dicembre 2014, con la nota n. 7443, il MIUR ha emanato le “Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati”, uno strumento di lavoro finalizzato a fornire al personale scolastico conoscenze di carattere teorico-pratico e modalità di intervento per venire incontro in maniera organica e funzionale all’aumento – registrato negli ultimi anni – delle adozioni di bambini e di ragazzi provenienti principalmente da paesi extraeuropei.

Successivamente con la legge n. 107/2015, (art. 1, comma 7, lettera l) si fa esplicito richiamo alle linee di indirizzo, che rappresentano pertanto un documento ben strutturato, estremamente concreto e dettagliato, indispensabile punto di partenza per comprendere la specificità degli alunni/figli adottivi e per costruire percorsi formativi individualizzati e personalizzati che consentano una concreta inclusione degli alunni adottati e delle loro famiglie nel contesto scolastico e territoriale di appartenenza.

Per quanto riguarda l’ambito amministrativo-burocratico, conviene soffermare l’attenzione sulle c.d. buone prassi: iscrizione, tempi d’inserimento e classe d’inserimento.

Per entrambi i tipi di adozione – nazionale ed internazionale – si possono iscrivere i figli in qualsiasi periodo dell’anno, basta recarsi direttamente presso gli uffici di segreteria della scuola prescelta, fermo restando la possibilità di inoltrare la domanda di iscrizione on line secondo la tempistica e l’iter burocratico previsti.

Un elemento particolarmente complesso è quello che attiene ai  tempi di inserimento: è preferibile che all’alunno – adottato internazionalmente – sia concesso un tempo sufficientemente lungo al fine di creare un legame affettivo con la famiglia, procrastinando pertanto l’inserimento nel gruppo classe non prima di dodici settimane dal suo arrivo in Italia nel caso della scuola dell’infanzia/primaria e quattro/sei settimane in quella secondaria.

Altro momento cruciale è la scelta della classe: il dirigente scolastico, tenuto conto del DPR N. 394/99, assegna la classe in accordo con i docenti, la famiglia e  le eventuali figure di supporto generalmente previste nella fase post-adottiva: équipe adozioni, enti autorizzati e gli altri soggetti coinvolti, tra cui le associazioni cui spesso le famiglie fanno riferimento.

È importante essere a conoscenza del fatto che i minori stranieri soggetti all’obbligo scolastico vengono iscritti alla classe corrispondente all’età anagrafica, salvo che venga deliberata l’iscrizione ad una classe diversa, tenendo conto dell’ordinamento e del titolo di studio conseguito dall’alunno del paese di provenienza, che può determinare l’iscrizione ad una classe immediatamente inferiore o superiore rispetto a quella corrispondente all’età anagrafica.

Tutti questi aspetti finora citati rientrano all’interno del protocollo di accoglienza per gli alunni adottati, un documento elaborato da ogni istituzione scolastica, che contenga criteri, principi, indicazioni, al pari di quello per alunni stranieri.

Altra buona prassi è quella di nominare un docente referente, figura identificata in sede di Collegio dei Docenti – generalmente tale incarico viene ricoperto dalla funzione strumentale per l’inclusione – con il compito di accompagnare l’alunno e la famiglia nelle diverse fasi di inserimento a scuola, avendo cura di raccogliere le informazioni necessarie (situazione personale e scolastica pregressa, padronanza della seconda lingua), di valutare la necessità di elaborare un piano didattico personalizzato (PDP) in collaborazione con il consiglio di classe/interclasse/sezione, di considerare l’attivazione di corsi di alfabetizzazione della lingua italiana come L2, di suggerire idonei sussidi didattici per facilitare le prime esperienze di studio, infine di monitorare costantemente il processo di inclusione, creando una rete di coordinamento tra e con la famiglia, l’ente comune, i servizi socio-sanitari, le associazioni familiari e le altre agenzie educative presenti sul territorio.

Il ruolo dell’insegnante risulta fondamentale per favorire il benessere scolastico e una corretta inclusione dell’alunno adottato all’interno del gruppo-classe. Pertanto è buona prassi che il docente prenda visione del protocollo di accoglienza e dell’informativa sull’alunno messa a disposizione dal docente referente, che nella fase iniziale utilizzi specifici sussidi didattici, testi a tematica interculturale ad esempio, e che predisponga percorsi di studio calibrati sulle esigenze di apprendimento del bambino/ragazzo adottato.

Come indicato nelle linee di indirizzo, al dirigente scolastico, quale garante delle opportunità formative offerte dalla scuola e della realizzazione del diritto allo studio di ciascuno, spetta il compito di inserire nel PTOF le modalità di accoglienza e le specificità degli alunni adottati, di avvalersi della collaborazione del docente referente per il coordinamento con la famiglia e le figure di supporto, di provvedere alla stesura del protocollo di accoglienza e alla relativa modulistica (qualora tale documento non sia presente), di favorire l’attivazione di progetti di inclusione e alfabetizzazione, di monitorare i processi e gli esiti di apprendimento del bambino/alunno, infine (ma non ultimo in termini di importanza) di provvedere alla formazione e all’aggiornamento del personale, anche in rete.

Per quest’ultimo aspetto, ad esempio, è possibile realizzare brevi filmati di carattere informativo oppure mettere a disposizione dei docenti materiale esplicativo o didattico attraverso una pagina dedicata del sito internet della scuola. Altro aspetto particolarmente delicato per il dirigente scolastico é il trattamento dei dati personali, che, alla luce delle nuove indicazioni sulla privacy, merita particolare attenzione, soprattutto nei casi di iscrizione di bambini/alunni in adozione nazionale o in affidamento provvisorio.

Nel corso della mia esperienza è capitato di avere in classe alunni adottati, però per nessuno di loro l’istituzione scolastica aveva formalizzato un percorso ad hoc di inserimento/inclusione. Si procedeva, come da consuetudine, ad una condivisione all’interno del consiglio di classe di strategie e strumenti per migliorare il rendimento scolastico.

Nella scuola in cui insegno attualmente, un istituto comprensivo appartenente ad una comunità montana, sono stati iscritti da pochissimo tempo due fratelli (S., una bambina di 8 anni e J., un bambino di 10) di origine colombiana, figli di una collega.

La dirigente scolastica ha applicato la prassi indicata nelle Linee di indirizzo, e pur non essendoci un protocollo di accoglienza specifico per i bambini adottati, ma soltanto quello per alunni stranieri, ha approntato un piano di inserimento avvalendosi della collaborazione con la docente funzione strumentale per l’inclusione: gli alunni sono stati affiancati dalla docente di Inglese della scuola Primaria con conoscenza di lingua Spagnola, affinché fosse semplificato l’approccio linguistico con i compagni italiani. Trascorso il primo periodo di inserimento, saranno seguiti da questa docente per quattro ore settimanali fino al termine delle lezioni.

Questa esperienza è stata significativa, in particolare per i docenti che hanno avuto modo di confrontarsi e crescere professionalmente attraverso una situazione scolastica inusuale per la realtà locale; sarà inoltre l’occasione per dotare l’istituto di un protocollo di accoglienza specifico e, in vista del prossimo anno scolastico, per strutturare un percorso formativo mirato che sia realmente inclusivo per i due fratellini colombiani.

Il Cooperative learning: metodologia efficace ed efficiente per alunni con Bisogni Educativi Speciali?

Il Cooperative Learning costituisce una metodologia complessiva di insegnamento e di gestione della classe attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso. In questo contesto l’insegnante assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività, strutturando “ambienti di apprendimento” nei quali gli studenti, favoriti da un clima relazionale positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo di “problem solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo personale di tutti, ovviamente anche degli alunni definiti BES.

Tali obiettivi possono essere conseguiti se all’interno dei piccoli gruppi di apprendimento gli studenti sviluppano determinate abilità e competenze sociali, intese come un insieme di abilità interpersonali e di piccolo gruppo indispensabili per sviluppare e mantenere un livello di cooperazione qualitativamente elevato. Tale metodo si distingue sia dall’apprendimento competitivo che dall’apprendimento individualistico e, a differenza di questi, si presta ad essere applicato ad ogni compito, materia e curricolo. Il lavoro di gruppo non è una novità nella scuola, ma la ricerca dimostra che gli studenti possono anche lavorare insieme senza trarne profitto. Può infatti accadere che essi operino insieme, ma non abbiano alcun interesse né soddisfazione nel farlo. Nei gruppi di apprendimento cooperativo, invece, i bambini si dedicano con piacere all’attività comune, si sentono e sono realmente protagonisti di tutte le fasi del lavoro, dalla pianificazione alla valutazione. I cinque elementi che rendono efficace la cooperazione sono:

  1. l’interdipendenza positiva, per cui gli alunni si impegnano per migliorare il rendimento di ciascun membro del gruppo, non essendo realizzabile il successo individuale senza il successo collettivo.
  2. La responsabilità individuale e di gruppo: quest’ultimo è responsabile del raggiungimento degli obiettivi ed ogni membro è responsabile del proprio contributo.
  3. L’interazione costruttiva, ovvero gli studenti sono chiamati a relazionarsi in maniera diretta per lavorare, promuovendo e sostenendo gli sforzi di ciascuno e congratulandosi a vicenda per i successi ottenuti
  4. La realizzazione di abilità sociali specifiche e necessarie nei rapporti interpersonali all’interno del piccolo gruppo: gli alunni si impegnano nei vari ruoli richiesti dal lavoro e nella creazione di un clima di collaborazione e fiducia reciproca. Particolare importanza in quest’ambito rivestono le competenze di gestione dei conflitti, ossia le competenze sociali che richiedono un insegnamento specifico.
  5. La valutazione di gruppo che osserva con sguardo critico il proprio modo di lavorare e si pone degli obiettivi di miglioramento.

Come si applica nel contesto classe? Perché?

Nel contesto del lavoro in classe, sembra dunque necessario adottare degli stili di insegnamento-apprendimento che possano consentire in particolare agli alunni BES di poter imparare con gli altri senza alcuna differenza sostanziale. Tutto questo può avvenire solo nel momento in cui i docenti saranno in grado di: non sostituirsi mai agli alunni, ma aiutarli ad organizzarsi, mostrarsi incoraggianti e ottimisti sulle loro capacità, dunque limitando il più possibile inutili rimproveri. Promuovere esperienze positive di socializzazione, cercando anche di rivedere, oltre che gli obiettivi di apprendimento, anche gli obiettivi comportamentali ed adattivi.

Le metodologie e strategie didattiche dovranno dunque essere volte a:

  • ridurre al minimo i modi tradizionali “di fare scuola” (lezione frontale, completamento di schede che richiedono ripetizione di nozioni o applicazioni di regole memorizzate, successione di spiegazione – studio – interrogazioni…)
  • favorire attività nelle quali i ragazzi vengano messi in situazione di confronto cognitivo con se stessi e con gli altri, dove ciascuno ricopre un ruolo specifico e di fondamentale importanza per il conseguimento dell’obiettivo finale;
  • sfruttare i punti di forza di ciascun alunno, adattando i compiti agli stili di apprendimento degli studenti e offrendo varietà e opzioni nei materiali e nelle strategie d’insegnamento;
  • utilizzare mediatori didattici diversificati (mappe, schemi, immagini).

Lo scopo di queste strategie sarà essenzialmente rivolto alla partecipazione attiva degli alunni, stimolando il recupero delle informazioni tramite il brainstorming, insegnando a collegare l’apprendimento alle esperienze e alle conoscenze pregresse. Nel contempo favorire l’utilizzazione immediata e sistematica delle conoscenze e abilità, mediante attività di tipo laboratoriale e sollecitare la rappresentazione di idee sotto forma di mappe da utilizzare come facilitatori procedurali nella produzione di un compito. Infine grande importanza riveste il puntare tutto il lavoro sulla motivazione ad apprendere.

Per fare questo occorre dunque che il docente sia capace di essere molto chiaro nel dare istruzioni, evitando troppo informazioni alla volta, di strutturare l’aula e la lezione sottolineando sempre l’importanza della partecipazione attiva da parte degli alunni che si possano sentire protagonisti del processo educativo e non solo semplici recettori di sterili informazioni. Agire sull’autostima dei bambini è una delle carte vincenti per consentire oggi un nuovo modo di apprendere sintetizzabile nello slogan “imparare ad imparare”.

Un metodo efficace al fine dell’inclusione

Rispetto ad un’impostazione del lavoro che si potrebbe definire tradizionale, il Cooperative Learning presenta alcuni innegabili vantaggi: anzitutto produce migliori risultati da parte degli alunni, i quali lavorano più a lungo sul compito assegnato, perfezionando la motivazione intrinseca e sviluppando maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico. In secondo luogo si instaurano relazioni più positive tra i bambini, i quali sono coscienti dell’importanza dell’apporto di ciascuno al lavoro comune e sviluppano pertanto il rispetto reciproco e lo spirito di squadra.

Infine, si registra maggiore benessere psicologico: gli studenti sviluppano un maggiore senso di autoefficacia e di autostima, sopportando meglio le difficoltà e lo stress. Quest’ultimo vantaggio risulta di grande valore soprattutto nei confronti di bambini che rientrano nella macro-categoria dei BES. L’efficacia della metodologia cooperativa è confermata inoltre dal supporto di alcuni comportamenti e valori specifici, che facilitano la partecipazione attiva anche da parte dei BES coinvolti.

All’interno di questo quadro generale, le diverse interpretazioni del principio di interdipendenza e delle variabili più rilevanti nell’apprendimento (interazione, motivazione, compito e ruolo dell’insegnante) hanno originato lo sviluppo di diverse correnti o modalità di Cooperative Learning. Alcuni aspetti del Cooperative Learning sono ancora oggi oggetto di discussione e di approfondimento, tra questi ricordiamo: la situazione dei più dotati, l’inserimento di alunni con handicap grave, le modalità in relazione a specifici obiettivi trasversali, la possibilità di sviluppare questo metodo combinandolo con altri e con l’uso delle nuove tecnologie, non da ultimo la sfida dei BES e il loro apprendimento. Risulta importante che anche in Italia questa metodologia continui ad essere approfondita, studiata e implementata e che non diventi un metodo educativo e innovativo che prima crea entusiasmo e poi viene presto accantonato per una presunta inefficacia dovuta più a un’inadeguata applicazione che non al metodo in sé.

Considerazioni finali

In conclusione, riflettendo sulla sfida attuale dei BES, sembra che agli insegnanti possano essere affidate alcune funzioni fondamentali per intervenire dando risposte individualizzate e per studiare metodologie e strategie di insegnamento utili da attuare per gestire situazioni problematiche sempre più variegate. La prima funzione è quella di istruire, cioè di aiutare in particolare gli alunni BES ad acquisire padronanza di abilità e di conoscenze disciplinari. La seconda è quella di condurre la classe, cioè di definire regole e procedure, tenendo costante l’attenzione e la partecipazione durante la lezione. Infine i docenti sono chiamati a far socializzare gli studenti e a mantenere un buon clima di classe.

Spesso succede che non tutti gli alunni reagiscano in maniera positiva agli interventi di istruzione, gestione della classe o socializzazione e che sia necessario un lavoro suppletivo, che richiede ulteriori abilità. Sono dunque necessarie la capacità di analizzare la situazione, di decodificare le diagnosi dei diversi specialisti, di condurre interviste anche con i genitori, finalizzate a raccogliere le informazioni utili alla costruzione di un piano di intervento. Ma prima ancora è essenziale la disponibilità ad accorgersi che esiste un problema e che su quest’ultimo è possibile intervenire efficacemente, anche se risulta difficile.

Risulta di vitale importanza pensare che sia effettivamente possibile risolvere il problema in stretta alleanza e collaborazione con le famiglie e i genitori e che il primo passo per fare ciò consista nell’affrontarlo, superando l’ansia, l’impotenza, l’inadeguatezza o la rabbia, che coglie chiunque di fronte ad una situazione nuova, complessa e stressante, ma che nonostante tutto rende il lavoro del docente sempre carico di novità e di impellenti sfide educative.

Scuola e nuovo liberismo

Pasolini,  nella sua opera intitolata “Fascista”, del 1974, sosteneva che, a ben guardare “negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini”, la “civiltà dei consumi” è una “civiltà dittatoriale”, che è determinante nella trasformazione dei giovani, nel loro cambiamento a livello dell’anima, proprio. Tenendo ben presenti le sollecitazioni che provengono dalla società cosiddetta “dei consumi”, l’Istruzione, in quanto concorrente nella costituzione delle politiche economiche e sociali, detiene un ruolo fondamentale per intervenire e modificare la realtà.

Nel Documento, a cura del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari”, si fa riferimento ad un aumento della “vulnerabilità” che, a causa di drammatici fenomeni che interessano il campo economico e quello culturale, costringe le persone a fare a meno di servizi e beni di ordine primario. Si fa riferimento, altresì, all’ “instabilità politica in aree già calde del pianeta” e alle “vecchie e nuove emergenze ecologiche ed economiche planetarie”.

Importanti documenti di istituzioni sovranazionali, quali ONU, UE, Consiglio d’Europa, sollecitano gli Stati ad un più ragguardevole impegno verso la sostenibilità e la coesione sociale. Il documento programmatico chiamato Europa 2020, ha una “mission”, rintracciabile anche negli obiettivi e nelle finalità della Legge 107 del 2015, che è individuata nel raggiungimento di una crescita “intelligente”, “sostenibile”, “inclusiva”.

La “crescita sostenibile” consiste nella promozione di un’economia più efficiente in ordine alle risorse, un’economia più verde, più competitiva.

La “crescita inclusiva” promuove un’economia con un alto tasso di occupazione, in grado di favorire la coesione sociale e territoriale. Nel programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, denominato Agenda 2030, l’ONU enuncia diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Di questi obiettivi, quello che coinvolge direttamente la scuola è il numero quattro: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.

Nondimeno, l’acquisizione di competenze culturali, sociali e metodologiche, conseguibile con l’istruzione, può favorire il raggiungimento degli altri obiettivi. Fra questi, l’obiettivo numero otto: “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” e l’obiettivo numero dodici: “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo”.

Istruzione, Crescita ed Economia sono, dunque, connesse ed interdipendenti. Nel trentennio che fa seguito al Trattato di Maastricht, si è attivato un sistema volto all’apprendimento permanente per l’incentivazione e la valorizzazione del “capitale umano”, indispensabile per la produzione e lo sviluppo del sistema economico. Estremamente interessante, per dirla alla maniera dell’economista, sociologo, antropologo e filosofo austro ungherese Karl Polanyi, è l’essenza “embedded” dell’Economia che si evince dalla mission dei documenti sopracitati. Quanto meno attuale si può definire il pensiero di Polanyi (vissuto e attivo sino ai primi anni sessanta del secolo scorso, uno dei precursori dell’ “indagine multidisciplinare”, che non godeva dell’amore dei circoli liberisti e liberali), secondo cui l’Economia non esiste avulsa dalla società, ma ne è integrata, radicata al suo interno.

Come diceva l’economista e sociologo tedesco Werner Sombart nella sua opera maggiore, intitolata “Il Capitalismo moderno”, l’Economia, non essendo “un processo naturale”, bensì una “creazione culturale”, è frutto della libera scelta degli uomini, e sono questi ultimi a determinarne il futuro, o a strutturare un determinato sistema economico. In quest’ottica, la Scuola, incentivando il Lifelong learning per l’accrescimento del “capitale umano” (che sostituisce il “capitale materiale”), per far fronte al continuo cambiamento e alle mutevoli richieste della società, ha un ruolo fondamentale anche nella direzione dell’agire efficace, laddove “efficace” sta anche come “leale”, in campo economico (magari maggiormente volto all’interesse pubblico).

In tal senso, la Scuola può contribuire alla strutturazione di una nuova forma di liberismo, capace di mantenere alta l’attenzione al sociale, e, magari, non del tutto contraria ad un controllo dell’evoluzione dei mercati da parte dello Stato. L’economista austriaco Eugen von Bohm-Bawerk enunciava in tal modo l’essenza economica del liberalismo: “Un mercato è un sistema giuridico, in assenza del quale l’unica economia possibile è la rapina di strada”.

Scuola e società liquida

“La risoluzione dei problemi ed il perseguimento delle finalità debbono, necessariamente, comportare la riforma di pensiero e delle istituzioni” (Edgar Morin, La testa ben fatta, riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore. Milano 2000)

I due termini, pensiero ed istituzioni, mettono a fuoco, immediatamente, come l’etica della didattica e della formazione abbiano un’implicanza parallela, che coinvolge il singolo ed il plurale, l’individuo e la società, la persona e lo Stato.

Per ragionare e programmare in modo proficuo bisogna puntare ad un “insegnamento educativo” senza scindere i due termini, senza dimenticare che educare significa “mettere in atto dei mezzi atti ad assicurare la formazione e lo sviluppo di un essere umano”, aiutandolo a diventare “migliore e, se non più felice, insegnandogli ad accettare la parte prosaica del vivere ed a vivere la parte poetica della vita”.

Se educare significa “formare”, ciò implica anche le sue connotazioni di “lavorazione” e “conformazione”, ma si deve sempre ricordare che lo strumento principale attraverso cui perseguire questi obiettivi è l’ “autodidattica”, ossia la pratica che “suscita, desta e favorisce l’autonomia dello spirito”.

Troppo spesso si dimentica che la mole di conoscenze cui deve far fronte l’uomo moderno è immensa ed in costante e veloce espansione.

Morin la paragona ad una “gigantesca torre di Babele, rumoreggiante di linguaggi discordanti”. In tale situazione ecco che Eliot si domanda: “dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” e, di conseguenza, “dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?”.

Se a questi sostanziali dilemmi aggiungiamo la Multiculturalità e la multietnicità, i repentini cambiamenti legislativi e normativi, la crisi del ruolo della famiglia (interlocutrice primaria della Scuola) e la scarsa soddisfazione professionale in termini di riconoscimento valoriale del proprio operato, tutto ciò non può che provocare quel grave stato di stress ansiogeno che è la sindrome da burnout della classe docente.

Anche l’intromissione massiccia e fagocitante delle nuove tecnologie ha condotto ad una crisi del valore del pensiero, che ha perso importanza in virtù di un agire sempre più veloce e sempre meno meditato.

Bauman asserisce che noi viviamo in una fase di “interregno”, ossia in un periodo in cui “gli antichi modi di agire non funzionano più, gli stili di vita appresi/ereditati dal passato non sono più adeguati all’attuale conditio humana, ma ancora non sono state inventate, costruite e messe in atto nuove modalità per affrontare le sfide,  nuove forme di vita più adeguate alle nuove condizioni”.

Viviamo, quindi, in una fase di “modernizzazione” soggetta a cambiamenti repentini, compulsivi ed inarrestabili.

Su simili, ondivaghe ed instabili basi, la scuola ed i suoi docenti diventano l’agenzia della Formazione. Su basi così liquide essi hanno il compito di fondare un intervento significativo, coerente e stabilizzante.

Ciò lo si va a fare in modalità “modernità liquida” (Zygmut Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2017), ovvero nella convinzione che l’unica costante sta nel cambiamento e che l’unica certezza è l’incertezza. Tale liquidità, apparentemente, si manifesta con un’accezione negativa, in realtà non deve essere interpretata così. Lo stato di liquidità di cui parlo, infatti, non è in antitesi con quello di solidità, bensì ne è un’ evoluzione, un adeguamento.

La liquidità è lo stato utile, direi indispensabile, al fine di affrontare la modernità, che per la sua struttura costitutiva non può essere affrontata in una condizione di rigidità.

Partendo da questi presupposti teoretici di sociologia ci si addentra nel mondo tangibile e realistico della scuola.

Una condizione di apprendimento liquido presuppone la capacità di non fissare lo spazio e di non legare il tempo.

E’ in questo nuovo status sociale che si inserisce il nuovo modo di fare scuola, quello che punta sui beni immateriali, ossia la conoscenza, per intervenire significativamente sull’autocoscienza di sé, sulle relazioni, sulla produttività e sul Mercato. Solo la conoscenza è un processo che si fonda sul sapere pregresso, sulla ricomposizione, sull’integrazione e sulla costruzione ex novo di idee. Essa è insita nelle persone e quindi è parte integrante di qualunque sistema sociale.

Una conoscenza siffatta non può dunque prescindere dalla socializzazione, dalla condivisione di finalità, obiettivi, strategie e strumenti. Parliamo di una società educante, cioè di una struttura reticolare di professionisti dell’ “insegnamento educativo”.

Si arriva a parlare di Saperi  Relazionali e Sentimentali perché la Persona è, prima di tutto, Individuo in Relazione, animale sociale con un’innata propensione alla condivisione.

Per un perverso gioco dell’assurdo, su simili considerazioni ecco stagliarsi lo spettro dell’incomunicabilità, dell’insicurezza esistenziale, del monadismo relazionale.

La liquidità di tutta questa “massa” mette il docente innanzi ad una rivoluzione copernicana del proprio io e del proprio ruolo. Egli deve reinventarsi e quindi destrutturarsi per ricomporsi e ricostruirsi. Ma per fare ciò ci vogliono elementi costituenti dell’individuo e del professionista, dell’operatore e del formatore, che necessitano di essere sistematicamente stimolati, potenziati e substanziati in un processo senza soluzione di continuità, che comporta un’inesauribile e costante “corsa” dietro, o forse contro, l’evoluzione, o l’involuzione, di una società in cerca di sé, di generazioni sempre più “precocizzate” dall’ utile, dal produttivo, dal significativo. Generazioni cui non è più concesso sbagliare, fermarsi, tornare indietro e ricominciare perché la china intrapresa è lineare, in accelerazione e priva di piazzole di sosta, di momenti “vuoti”, di pause.

Il successo formativo di tutti e di ciascuno

DECRETO LEGISLATIVO n. 66/17

Il D.Lgs 66/17, attuativo delle Legge 107/15, ha lo scopo di implementare l’inclusione scolastica, tema centrale e da sempre all’attenzione della scuola e del sistema di istruzione-formazione.

Il testo normativo, in particolare, interviene a favore di studenti con disabilità certificata (L. 104/92) per i quali introduce il modello bio-psico-sociale della ICF (1) adottato dall’OMS (2) che pone in primo piano i “processi di funzionamento” della persona disabile piuttosto che la sua condizione di “carenza” o “mancanza”.

Obiettivo della riforma è, infatti, rafforzare il concetto di “scuola inclusiva” che accoglie le “diversità” non per dovere assistenzialistico, ma per promuoverne e valorizzarne le potenzialità di modo che esse diventino risorse per il contesto. Si tratta di una impostazione pedagogica che prevede nuovi ambienti di apprendimento caratterizzati da dinamiche relazionali di interazione e  piena condivisione, presupposti essenziali di convivenza democratica e cittadinanza costruttiva .

La normativa, in vigore a decorrere dall’anno scolastico 2019/20, rilancia la funzione della scuola che realizza il diritto costituzionale ad apprendere con nuove più funzionali misure operative ed il coinvolgimento fattivo di tutte le sue componenti. Si entra, per così dire, in un’ottica sistemica che ridefinisce competenze familiari ed istituzionali ai fini della crescita personale e del successo formativo di tutti e di ciascun alunno.

Questi sono gli orientamenti europei che mirano alla “crescita inclusiva” attraverso la prevenzione di ogni forma di disagio, ineguaglianza o emarginazione nella prospettiva dell’integrazione sociale e della coesione mondiale, visione auspicata nella strategia “Europa 2020”.  

Prestazioni e competenze

La legge definisce in modo dettagliato ruoli e compiti spettanti a Stato, Regioni ed Enti locali nelle politiche di inclusione scolastica. Per la prima volta, si tiene conto, nel riparto delle risorse del personale ATA,  della presenza, in ciascuna scuola, a partire da quella dell’infanzia, di alunni disabili. Inoltre, in base al genere di disabilità presentata si determina l’assegnazione di collaboratori scolastici per i compiti di assistenza alla persona.

L’implementazione dell’inclusione si realizza anche mediante un’accresciuta qualificazione professionale delle commissioni mediche deputate all’accertamento della condizione di disabilità. Esse, nel caso operino per persone in età evolutiva, sono composte da un medico legale con funzione di presidente e da due medici specializzati in pediatria o in neuropsichiatria infantile (o nella specializzazione inerente la condizione di salute dell’alunno). Vi farà parte anche un assistente specialistico individuato dall’ente locale mentre resta confermata la presenza sia del medico INPS che delle associazioni delle famiglie.

Nuovi documenti

Il D.Lgs 66/17 innova anche la documentazione relativa agli alunni con disabilità. La Diagnosi Funzionale (DF) ed il Profilo Dinamico Funzionale (PDF), tuttora in vigore, lasceranno il posto ad un unico documento, il Profilo di Funzionamento, che sarà redatto, dopo la certificazione della condizione di disabilità, dalla commissione medica con la collaborazione dei genitori e di un rappresentante dell’amministrazione (preferibilmente un docente della scuola frequentata dall’ alunno).

Il nuovo documento, aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione (o per sopravvenute condizioni di “funzionamento” della persona), definirà la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica. Esso risulterà propedeutico e necessario alla predisposizione del Piano Educativo Individualizzato (PEI) elaborato dai docenti del Consiglio di classe con il supporto dei genitori e dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare. Il Piano, nel quale saranno definiti anche gli strumenti per lo svolgimento dell’alternanza scuola-lavoro, dovrà confluire nel Progetto Individuale (PI) che sarà redatto a cura dell’ente locale su richiesta ed in collaborazione con la famiglia (DPR 328/2000).

Progettazione e organizzazione

Tra le misure per una scuola inclusiva, figura la previsione di un Piano per l’Inclusione che ogni istituzione scolastica è tenuta ad elaborare quale principale documento programmatico-attuativo in materia. Esso dovrà riportare, annualmente, le modalità per l’utilizzo coordinato delle risorse e gli interventi di miglioramento della qualità dell’inclusione, divenendo parte integrante del Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF).

Nella stessa prospettiva si muove il riassetto dei Gruppi di lavoro per l’inclusione  ai sensi del D. Lgs 66/17. Sono previsti Gruppi di lavoro interistituzionali regionali (GLIR) istituiti dal I settembre 2017 presso ogni USR con funzione di consulenza e proposta su accordi di programma. Essi dovranno anche supportare le reti di scuole e  orientare i futuri Gruppi per l’inclusione territoriale (GIT) che nasceranno  dal I gennaio 2019. Il loro compito consisterà nel quantificare,  per ogni ambito territoriale (L.107/15), le risorse da destinare al sostegno didattico, come proposte, dopo l’analisi dei PEI, dalle singole scuole. Qui operano, dal I settembre 2017, i Gruppi di lavoro per l’inclusione (GLI), con funzione di programmazione, proposta e supporto al Collegio docenti per la definizione del Piano per l’inclusione. Tali gruppi, costituiti da docenti, personale ATA (novità rilevante della normativa) e specialisti dell’Azienda sanitaria locale, si avvalgono del supporto di studenti, genitori ed associazioni delle persone con disabilità.

La formazione iniziale ed in itinere

Il D.Lgs 66/17 ridisegna la disciplina di accesso alla carriera di docente di sostegno nelle Scuole dell’infanzia e primaria istituendo un Corso annuale di specializzazione in pedagogia e didattica speciale (per la Scuola secondaria di I e II grado, come è noto, interviene, al riguardo, il D.Lgs. 59/17 sulla formazione iniziale).

La formazione per l’inclusione è compiuta anche in servizio ed è estesa a tutto il personale scolastico, compresi gli ATA. Ogni scuola attiverà, nell’ambito della propria offerta educativa, progetti di formazione mirati, in linea con le priorità  del Piano nazionale di formazione relativo al triennio 2016/19 (L.107/15).

Al fine di implementare pratiche concrete di inclusione, la legge prevede, per la prima volta, che il dirigente scolastico, per motivi di continuità educativa e didattica, possa proporre ai docenti dell’organico dell’autonomia in possesso del titolo di specializzazione anche attività di sostegno. Nella stessa prospettiva, egli ha facoltà di prorogare (e reiterare il più possibile) un contratto a tempo determinato  al medesimo docente di sostegno nell’ anno scolastico successivo nel caso di proficuità del rapporto docente-discente e sulla base di eventuale richiesta della famiglia.

Valutare l’inclusione

L’inclusione scolastica, infine, diviene parametro fondamentale di valutazione delle scuole attraverso l’utilizzo di specifici indicatori che ne misurano il livello di inclusività raggiunto. Alla loro predisposizione prende parte l’Osservatorio per l’inclusione scolastica istituito presso il MIUR e composto da tutti gli attori istituzionali coinvolti nel processo di inclusione, a completamento e garanzia del suo approccio sistemico ed integrato. Qui si colloca anche il ruolo strategico del dirigente scolastico chiamato ad assicurare, nell’esercizio della propria autonomia funzionale ed operativa, l’effettività delle previsioni normative  per l’ attuazione di una scuola democratica, equa e di qualità, sfida e finalità precipua della riforma voluta dalla L.107/15.

1) Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute

2) Organizzazione Mondiale della Sanità

Valutare per migliorare!

Nella giornata conclusiva delle prove Invalsi esce il nostro secondo numero della Rivista “SCUOLA 4 ALL” che abbiamo voluto dedicare ad un argomento topico della pedagogia e della didattica italiana: la VALUTAZIONE  che finalmente è diventata una valutazione di  SISTEMA, considerato che, dopo il DPR 80 del 2013 e la Legge 107 del 2015, non solo gli apprendimenti degli studenti sono presi in considerazione dai docenti e dall’INVALSI, ma anche gli insegnanti, i dirigenti scolastici e la stessa istituzione scolastica vengono valutati, attraverso il Rapporto di Autovalutazione, il Piano di Miglioramento e la Rendicontazione sociale, che diventano strumenti  per attivare percorsi metacognitivi di miglioramento.

E i docenti dovrebbero essere i primi e i più solleciti a difendere i percorsi attivati in questi ultimi cinque anni, i quali potrebbero dare slancio, vivacità culturale e professionale ad una categoria che spesso mostra disorientamento e affaticamento nell’affrontare le innovazioni.

Il decreto legislativo 62 del 2017 e i successivi e conseguenti decreti ministeriali 741 e 742 del 2017 hanno ridisegnato la funzione ed il ruolo della valutazione per una scuola INCLUSIVA, che significa non una scuola più facile, una scuola permissiva, rinunciataria, ma un’Istituzione  che prende “in cura” lo studente e lo aiuta a realizzare il suo “progetto di vita”, lo orienta e lo accompagna verso le competenze alte che sono richieste oggi da processi di apprendimento personalizzati che spingono il legislatore ad assegnare al dirigente e alla comunità professionale il compito di valorizzare il talento che c’è in ognuno di noi (comma 29 della legge 107 del 2015).

Il D.M. 741 / 2017, nel rimodulare i contenuti degli esami di stato per il primo ciclo per quest’anno e per il secondo ciclo nel prossimo anno ponendo nella sua centralità le competenze di cittadinanza, obbliga e sollecita ad un ripensamento della didattica. Gli sforzi dei collegi, delle comunità di pratiche, dei dipartimenti, delle reti di scopo dovrebbero essere indirizzati non solo a rimodulare gli esami di stato, ma a ripensare i percorsi di apprendimento facendo tesoro anche dell’educazione informale e non formale così pervasiva, preponderante e più coinvolgente di quella formale.

Valutazione che non può limitarsi alle  sue tradizionali dimensioni sommativa, formativa ma che deve arricchirsi anche della valutazione orientativa che partendo dal progetto di vita del ragazzo costruisce un curricolo personalizzato capace di motivare e  di rispondere positivamente  al comma 28 della legge 107 del 2015 che chiede alle Istituzioni scolastiche di tenere nella massima considerazione, nel definire il Piano Triennale dell’offerta formativa, le esigenze di  arricchire il percorso istituzionale con un curricolo opzionale integrativo richiesto dallo studente e funzionale al progetto di vita dello stesso.

Sfide interessanti e avvincenti che possono rilanciare il protagonismo dei docenti, dei collegi e alle quali questa rivista cercherà di dare il proprio modesto contributo.