“Una koinè della Storia: la fiaba”

Il titolo di questo articolo utilizza tre sostantivi splendidi sia come significanti che come significati.

Il termine koinè deriva dal greco e significava la lingua letteraria utilizzata dai prosatori di età imperiale. Dal 1933 ha assunto l’accezione di “lingua comune”, “lingua con caratteri uniformi” capace di mettere in relazione popolazioni anche geograficamente distanti e dissimili. La Koinè si contrappone al dialetto, alle parlate regionali, che localizzano la relazione e la diffusione delle informazioni.

La Storia, va da sé, è la somma di tutte le azioni umane perpetrate nel tempo e nello spazio e di cui si ha memoria o testimonianza o documentazione di qualsiasi forma.

Per Fiaba, infine, si intende una narrazione, orale o scritta, che ha radici antichissime e che racconta di uomini e donne che incappano in avventure cariche di magia e mistero, personaggi anche orridi e truculenti, capaci di mangiar vive le persone o smembrarle o trasformarle in qualsiasi cosa si immagini. Il suo fine non è pedagogico ma, come direbbe Sigmund Freud, rappresenta le paure umane, gli “ambigui sogni” che ognuno di noi porta in cuor suo, più o meno coscientemente, in forma più o meno silente.

E’ da questa definizione di base che sono partita per interpretare la funzione del patrimonio fiabesco mondiale, un lavoro immenso, praticamente infinito, capace di serbare sorprese degne del più famoso dei maghi fiabeschi.

La mia analisi, però, non si muove solo all’interno di un concetto linguistico/geografico, ma implica anche un filone che contempla la metaforicità del concetto di Koinè. Il mio viaggio fiabesco, quindi, è fatto, come per un treno, di due binari paralleli: uno squisitamente antropologico ed un altro storico; ambedue, ovviamente, strettamente connessi all’evoluzione di eventi sociali, economici, politici legati a luoghi, a microcosmi popolari e a macro esperienze di interi popoli ed etnie.

La Fiaba è questa Koinè, è questo strumento/mezzo attraverso cui, nei millenni, si sono strutturati e trasmessi saperi e “dissaperi”, fatti e misfatti.

Partendo da un’epoca relativamente moderna e tralasciando tutto ciò che è stato nei secoli precedenti, perché il tempo non ci permette di fare altrimenti, vi presento una velocissima panoramica: siamo nei primi anni del 1800 e due fratelli leggendari, Wilhelm e Jacob GRIMM conducono la loro ricerca e la stesura di quei racconti della tradizione tedesca, a quell’epoca, come tutta l’Europa, alle prese con l’espansione onnivora di Napoleone Bonaparte. Per i due “ricercatori”, come dice Italo Calvino nella sua famosa introduzione alla prima edizione di “Fiabe Italiane” del 1956(1), questo progetto aveva il sapore archeologico della scoperta di resti di un’antica religione della loro razza, religione custodita dal popolo e che si auspicavano potesse risvegliarsi al passare dell’era in corso. Per i due fratelli, la Fiaba, quindi, costituisce una sorta di navicella del tempo, come quelle da riempire e sotterrare al fine di tramandare conoscenze e memoria ai posteri, utile a perpetuare un patrimonio di saperi, che rischiavano di essere cancellati dagli eventi.

In Italia, nel medesimo periodo e poi un po’ più avanti, all’epoca dei moti insurrezionali e delle guerre di indipendenza, la Fiaba acquisisce il valore del Culto Patriottico, della resistenza culturale come primo baluardo di una auspicabile resistenza ideologica e, di conseguenza, di una reazione politica e militare.

Siamo lontani dal lavoro positivista degli studiosi, che andavano alla ricerca di nonne e nonni in vena di ricordare e narrare. Quello è l’ambito scientifico della ricerca sulla Fiaba, incentrato sulla raccolta e sulla conseguente catalogazione di una memoria popolare.

Proseguendo cronologicamente, sempre in Italia, perfino Benedetto Croce si cimenta con questo repertorio. Raccoglie testimonianze orali e le trascrive. Questo lavoro è affidato a” Demopsicologi”.

Il lavoro che sto cercando di impostare io, è, invece, una via di mezzo fra visioni simili a queste e considerazioni come quelle della scuola di Freud, di cui ho già detto in principio. Lo scienziato considera le Fiabe come espressioni di paure, “repertorio di ambigui sogni”(2) che vengono così rappresentati.

È il caso, a mio parere emblematico, di raccolte come “Le favole di Auschwitz”, raccolta edita dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau nel 2017 e che per una specialista in didattica della Shoah è materiale preziosissimo.

Questo libro presenta sei fiabe scritte da prigionieri del tristemente famoso lager. Questi, nel 1942 o 1943, erano stati mandati a lavorare negli uffici del Bauleitung, un ufficio che si occupava di produrre documentazione edilizia attinente i diversi campi di concentramento nazista. Fra le loro mani giunsero, di nascosto, quaderni di bambini ebrei di lingua ceca, che erano stati ritrovati nei pressi delle camere a gas nelle quali quei bambini erano stati fatti entrare. La fase dell’espoliazione aveva, ovviamente, implicato l’abbandono anche di questi materiali. Quando i quaderni giunsero nelle mani di questi 27 internati, diciamo pure, “fortunati”, essi pensarono ai propri figli, a come avrebbero potuto narrare loro una Fiaba tratta da simile melma esperienziale e cominciarono chi a tradurre o a scrivere, chi ad illustrare, chi a copiare in bella grafia, chi a rilegare, chi a produrre le copertine, chi, mentre tutto ciò accadeva, a fare da palo per evitare che si venisse scoperti.

A lavoro finito venne prodotta una cinquantina di copie di queste fiabe, che vennero fatte uscire dal campo nei modi più disparati.

Nell’introduzione dell’editore si legge “La favola sul leprotto, la volpe ed il galletto, trasmessa da Bernard Swierzyba al proprio figlio Felicjan nato dopo il suo internamento ad Auschwitz, venne trasportata da un ufficiale delle SS. La fiaba, con ogni probabilità mascherata tra le carte, fu inserita dall’ufficiale in un dizionario di lingua tedesca. La favola sulle avventure del pulcino nero, illustrata ad Auscwitz da Henryk Czulda per il proprio figlio Zbyszek, giunse a destinazione dopo aver attraversato ben cinque campi di concentramento.”(3)

Il linguaggio immaginifico e fantastico attraverso cui questi padri trasmettono messaggi rassicuranti e rasserenanti ai propri figli lontani esprime il desiderio genitoriale più naturale, ancestrale: proteggere la propria creatura dalle brutture di cui è capace quell’essere che spesso di umano ha ben poco. Il lieto fine, caratteristica quasi universale delle fiabe, è qui rispettato, perché non è naturale e salutare far sognare che il male possa predominare, sopraffare il bene, godere della vittoria finale. Qualche battaglia gliela si può anche dar vinta, ma la guerra no!

Questa formula, che si trova in queste come nelle fiabe di tante altre provenienze geografiche e quindi culturali ed etniche, manifestano un leit motiv, che sottende a necessità umane ataviche, innate, connaturate alle sue necessità di equilibrio, stabilità e armonia.

Gli “ambigui sogni” vengono in tal modo esplorati ed esorcizzati così come vuole il più umano dei percorsi di crescita.

Tale ricerca mi sta portando a spasso per il globo, quindi, e per il tempo. L’eccezionale, in tutti i sensi, raccolta e trascrizione delle “Fiabe Italiane” di Italo Calvino, edita, per la prima volta, nel 1956 è un’altra fonte di studio e progettazione disciplinare attinente la storia, la geografia e la Letteratura. Attraverso il suo uso si può giungere ad identificazioni di topoi antropo-culturali, linguistici, politici, socio-relazionali e storici.

Il viaggio prosegue verso l’estremo oriente e le Fiabe della Cina antica e poi nelle Americhe con le culture del nord, del centro e del sud di questo immenso continente, che attraverso la tradizione e trasmissione di tale memoria, sono riuscite a superare il terrificante ostacolo posto dalle invasioni e dalle violazioni dei più elementari diritti civili di tutela e sopravvivenza imposti dai popoli occupanti.

La fiaba, qui, ha spesso funto, come è stato per la cultura dell’Africa nera saccheggiata e violentemente sparpagliata per il mondo, da rifugio segreto, da Griot immateriale atto a perpetuare al fine di non cancellare le radici, l’origine, il perché dell’esistere di interi popoli, di splendide culture, di un ricco passato di grande umanità.

Note:

  1. Italo Calvino, Fiabe Italiane – Volume Primo. Introduzione; Ed. Oscar Mondadori, Milano 2006, pag XI.
  2. Ibidem, pag XII.
  3. Le favole di Auschwitz, Ed. Museo statale di Auschwitz/Birkenau, Oswiecim, 2017.

Scuola e società liquida

“La risoluzione dei problemi ed il perseguimento delle finalità debbono, necessariamente, comportare la riforma di pensiero e delle istituzioni” (Edgar Morin, La testa ben fatta, riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore. Milano 2000)

I due termini, pensiero ed istituzioni, mettono a fuoco, immediatamente, come l’etica della didattica e della formazione abbiano un’implicanza parallela, che coinvolge il singolo ed il plurale, l’individuo e la società, la persona e lo Stato.

Per ragionare e programmare in modo proficuo bisogna puntare ad un “insegnamento educativo” senza scindere i due termini, senza dimenticare che educare significa “mettere in atto dei mezzi atti ad assicurare la formazione e lo sviluppo di un essere umano”, aiutandolo a diventare “migliore e, se non più felice, insegnandogli ad accettare la parte prosaica del vivere ed a vivere la parte poetica della vita”.

Se educare significa “formare”, ciò implica anche le sue connotazioni di “lavorazione” e “conformazione”, ma si deve sempre ricordare che lo strumento principale attraverso cui perseguire questi obiettivi è l’ “autodidattica”, ossia la pratica che “suscita, desta e favorisce l’autonomia dello spirito”.

Troppo spesso si dimentica che la mole di conoscenze cui deve far fronte l’uomo moderno è immensa ed in costante e veloce espansione.

Morin la paragona ad una “gigantesca torre di Babele, rumoreggiante di linguaggi discordanti”. In tale situazione ecco che Eliot si domanda: “dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” e, di conseguenza, “dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?”.

Se a questi sostanziali dilemmi aggiungiamo la Multiculturalità e la multietnicità, i repentini cambiamenti legislativi e normativi, la crisi del ruolo della famiglia (interlocutrice primaria della Scuola) e la scarsa soddisfazione professionale in termini di riconoscimento valoriale del proprio operato, tutto ciò non può che provocare quel grave stato di stress ansiogeno che è la sindrome da burnout della classe docente.

Anche l’intromissione massiccia e fagocitante delle nuove tecnologie ha condotto ad una crisi del valore del pensiero, che ha perso importanza in virtù di un agire sempre più veloce e sempre meno meditato.

Bauman asserisce che noi viviamo in una fase di “interregno”, ossia in un periodo in cui “gli antichi modi di agire non funzionano più, gli stili di vita appresi/ereditati dal passato non sono più adeguati all’attuale conditio humana, ma ancora non sono state inventate, costruite e messe in atto nuove modalità per affrontare le sfide,  nuove forme di vita più adeguate alle nuove condizioni”.

Viviamo, quindi, in una fase di “modernizzazione” soggetta a cambiamenti repentini, compulsivi ed inarrestabili.

Su simili, ondivaghe ed instabili basi, la scuola ed i suoi docenti diventano l’agenzia della Formazione. Su basi così liquide essi hanno il compito di fondare un intervento significativo, coerente e stabilizzante.

Ciò lo si va a fare in modalità “modernità liquida” (Zygmut Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2017), ovvero nella convinzione che l’unica costante sta nel cambiamento e che l’unica certezza è l’incertezza. Tale liquidità, apparentemente, si manifesta con un’accezione negativa, in realtà non deve essere interpretata così. Lo stato di liquidità di cui parlo, infatti, non è in antitesi con quello di solidità, bensì ne è un’ evoluzione, un adeguamento.

La liquidità è lo stato utile, direi indispensabile, al fine di affrontare la modernità, che per la sua struttura costitutiva non può essere affrontata in una condizione di rigidità.

Partendo da questi presupposti teoretici di sociologia ci si addentra nel mondo tangibile e realistico della scuola.

Una condizione di apprendimento liquido presuppone la capacità di non fissare lo spazio e di non legare il tempo.

E’ in questo nuovo status sociale che si inserisce il nuovo modo di fare scuola, quello che punta sui beni immateriali, ossia la conoscenza, per intervenire significativamente sull’autocoscienza di sé, sulle relazioni, sulla produttività e sul Mercato. Solo la conoscenza è un processo che si fonda sul sapere pregresso, sulla ricomposizione, sull’integrazione e sulla costruzione ex novo di idee. Essa è insita nelle persone e quindi è parte integrante di qualunque sistema sociale.

Una conoscenza siffatta non può dunque prescindere dalla socializzazione, dalla condivisione di finalità, obiettivi, strategie e strumenti. Parliamo di una società educante, cioè di una struttura reticolare di professionisti dell’ “insegnamento educativo”.

Si arriva a parlare di Saperi  Relazionali e Sentimentali perché la Persona è, prima di tutto, Individuo in Relazione, animale sociale con un’innata propensione alla condivisione.

Per un perverso gioco dell’assurdo, su simili considerazioni ecco stagliarsi lo spettro dell’incomunicabilità, dell’insicurezza esistenziale, del monadismo relazionale.

La liquidità di tutta questa “massa” mette il docente innanzi ad una rivoluzione copernicana del proprio io e del proprio ruolo. Egli deve reinventarsi e quindi destrutturarsi per ricomporsi e ricostruirsi. Ma per fare ciò ci vogliono elementi costituenti dell’individuo e del professionista, dell’operatore e del formatore, che necessitano di essere sistematicamente stimolati, potenziati e substanziati in un processo senza soluzione di continuità, che comporta un’inesauribile e costante “corsa” dietro, o forse contro, l’evoluzione, o l’involuzione, di una società in cerca di sé, di generazioni sempre più “precocizzate” dall’ utile, dal produttivo, dal significativo. Generazioni cui non è più concesso sbagliare, fermarsi, tornare indietro e ricominciare perché la china intrapresa è lineare, in accelerazione e priva di piazzole di sosta, di momenti “vuoti”, di pause.