Paolo Borsellino, lettera di un maestro


Caro Paolo,
quando sono arrivato la prima volta in via D’Amelio ero un ragazzo che aveva da poco compiuto i 18 anni. Nella mia città, nella mia scuola, in casa mia, nessuno mi aveva parlato di mafia. Non mi avevano mai raccontato di Placido Rizzotto, di Peppino Impastato, di Portella della Ginestra.

La mafia e la lotta alla mafia non facevano parte del dizionario con il quale ero cresciuto in un piccolo paese della Lombardia. Mentre nella tua Palermo la gente veniva uccisa per strada, qualcuno al Nord diceva “si ammazzano tra loro. Non ci riguarda”, come se fossimo due Paesi diversi.

In via D’Amelio mi ritrovai a suonare a quel citofono al civico 19, a fare quello che probabilmente fu il tuo ultimo gesto. Tua sorella Rita, che si era spesa instancabilmente per tutt’Italia, per portare il tuo nome in ogni scuola, parrocchia, associazione o comune, mi accolse nella tua città, mi prese per mano accompagnandomi da giovane giornalista a conoscere la tua storia, raccontandomi del “suo” Paolo…

Fonte: Il Fatto Quotidiano
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