I rapporti tra le fonti del diritto dell’U.E. e le fonti dell’ordinamento italiano. Il primato del diritto europeo e il suo impatto sugli ordinamenti nazionali


Il principio del primato del diritto dell’Unione Europea sui diritti nazionali trova il suo fondamento giuridico nei Trattati ed in alcune disposizioni costituzionali:

  1. Art. 4 par. 3 del TUE: «In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. […] Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione».
  2. Art. 11 Cost.: «l’Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
  3. Art. 117, co. 1 Cost.: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Va a tale riguardo ricordato che la Costituzione italiana, sino alla l. cost. n. 3/2001, non prevedeva una disposizione esplicita riguardante i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (art. 117, co. 1, Cost.), a differenza di altre esperienze costituzionali (artt. 23 e 24 Legge fondamentale Germania 1949; artt. da 88-1 ss. Cost. Francia 1958; artt. 93 ss. Cost. Spagna 1978). Ciò non vuol dire, però, che la partecipazione italiana alle Comunità europee (prima) e all’U.E. (poi) sia rimasta priva di copertura costituzionale: sia la dottrina maggioritaria che la giurisprudenza costituzionale hanno infatti individuato il fondamento costituzionale dell’integrazione europea nella seconda proposizione dell’art. 11 Cost., laddove si prevede che l’Italia consente «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni». Il novellato art. 117 Cost. pone, oggi, alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, tre vincoli: il rispetto della Costituzione, il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e il rispetto degli obblighi internazionali. Il rapporto tra il Diritto comunitario e quello dei singoli stati membri, distinti e separati, è stato affrontato sin da subito dalle Istituzioni dell’U.E., anche in virtù del timore che il Diritto comunitario invadesse del tutto gli spazi propri dei singoli paesi.

Il recepimento e l’attuazione del diritto dell’U.E. non immediatamente applicabile (Direttive) avviene in base ad un meccanismo stabilito dapprima con la l. n. 86/1989 (c.d. La Pergola) e, successivamente, con la l. n. 11/2005, che definisce l’iter per l’attuazione delle Direttive europee in Italia: entro il 31 gennaio di ogni anno, le Camere, su proposta del Governo, approvano una legge (c.d. comunitaria), con la quale si recepiscono in blocco le norme e le Direttive dell’U.E. e si dettano le disposizioni necessarie per dare esecuzione al diritto comunitario. In linea di massima la conversione deve essere disposta dal Parlamento entro il 31 marzo. Le disposizioni comunitarie possono essere recepite o direttamente con l’emanazione di una vera e propria legge, o tramite il conferimento di deleghe legislative al Governo o alle Regioni (con il sistema della legge-quadro sui principi e le questioni di carattere generale da rispettare), oppure attraverso l’adozione di regolamenti governativi, anche di delegificazione, o infine con semplici atti amministrativi o con atti legislativi delle Regioni, nelle materie di loro competenza. Con la riforma del Titolo V della Costituzione anche le Regioni, infatti, nelle loro competenze concorrenti o residuali, devono dare attuazione alle norme dell’Unione Europea.

I rapporti tra le fonti del diritto dell’U.E. e le fonti dell’ordinamento italiano (in particolare, le fonti primarie, vale a dire la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati, decreti legislativi e decreti-legge) si sono evoluti nel tempo ad opera della giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana e della Corte di giustizia delle Comunità europee.

Nei primi anni ’60 si è verificato un contrasto tra la Corte costituzionale italiana e la Corte di giustizia delle Comunità europee sul valore da attribuire alle fonti del diritto comunitario. La Corte costituzionale sosteneva infatti che il diritto comunitario ha natura di diritto internazionale pattizio, sicché i suoi principi e le sue fonti acquistano efficacia giuridica soltanto per il tramite delle leggi di adattamento, che sono derogabili dalla lex posterior (Corte cost. sentenza n. 14/1964, Costa). In un primo momento quindi (1964), la Corte costituzionale ha impostato la questione delle possibili antinomie – ossia di tutti quei casi in cui vi è incompatibilità tra due norme che disciplinano la medesima fattispecie, in modo tale che l’applicazione dell’una esclude l’applicazione dell’altra – utilizzando il criterio cronologico (lex posterior derogat priori), che comporta l’abrogazione della norma anteriore ad opera della successiva di pari grado. A sua volta, la Corte di giustizia affermava che il diritto comunitario è un ordinamento giuridico sui generis, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, e che attribuisce direttamente diritti agli individui (CGCE, sentenza Van Gend en Loos, causa 26/62).

A sua volta, la giurisprudenza costituzionale, nel 1973, pur riaffermando la netta separazione di competenze tra l’ordinamento interno e l’ordinamento comunitario, ha rivisto la sua iniziale posizione e ha finito con l’ammettere, in accoglimento della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, il primato dei regolamenti comunitari sulle leggi statali e la loro applicabilità diretta. Infatti, in quell’occasione la Corte costituzionale è giunta ad ammettere la capacità dei regolamenti comunitari di abrogare leggi statali anteriori e di resistere all’abrogazione da parte di leggi successive, tentando di affermare, però, successivamente, la tesi secondo la quale le norme nazionali non potessero essere direttamente disapplicate ma dovessero essere dichiarate incostituzionali per contrasto con l’art. 11 Cost. (sentenza n. 232 del 1975: incostituzionalità di una legge statale contrastante con un regolamento comunitario precedente per violazione indiretta dell’art. 11 Cost.).

Successivamente, sulla scorta dei principi della sentenza Van Gend en Loos, la Corte di giustizia ha affermato definitivamente la prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionali con la sentenza Simmenthal (causa 106/77): «In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere “ipso jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri – di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali , nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie».

Un passo in avanti decisivo si è poi avuto nel 1984: con la storica sentenza Granital (sentenza n. 170 del 1984), la Corte costituzionale, facendo proprio l’orientamento della Corte di giustizia delle Comunità europee, ha sostenuto non già il proprio ruolo necessario nel dichiarare costituzionalmente illegittima una legge successiva per contrasto con un regolamento comunitario, ma, al contrario, il potere-dovere di ciascun giudice di procedere alla disapplicazione (più correttamente: alla non applicazione) del diritto interno contrastante con le norme comunitarie immediatamente applicabili. La giurisprudenza costituzionale ha così sposato la tesi della prevalenza immediata delle norme comunitarie, confermando tuttavia la natura «dualistica del rapporto»: l’ordinamento nazionale e quello internazionale (comunitario) sono due ordinamenti separati e distinti e la supremazia del secondo è assoluta, diretta ed immediata. Il Diritto comunitario non abroga le norme contrastanti interne ai vari stati membri, ma le rende inefficaci, in modo tale che i Giudici nazionali possono direttamente disapplicarle, senza che intervenga la Corte costituzionale con una pronuncia di incostituzionalità.

Nella categoria delle norme comunitarie immediatamente applicabili vengono poi fatte rientrare non soltanto le suddette direttive autoapplicative, ma anche le sentenze interpretative e quelle di inadempimento della Corte di giustizia dell’U.E. Proseguendo su questa linea, la Corte costituzionale ha mantenuto ferma la sua competenza in ordine alla sindacabilità di leggi regionali contrastanti con il diritto dell’U.E. impugnate nel corso di un giudizio in via principale ed è persino giunta ad affermare l’idoneità dei regolamenti comunitari a derogare a disposizioni costituzionali, fermo restando il rispetto dei soli principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e nei diritti inviolabili della persona umana, che costituiscono i c.d. controlimiti costituzionali alle limitazioni di sovranità.

La disapplicazione di un atto normativo è un potere che spetta a un qualsiasi Giudice nel corso di un giudizio, ai fini della risoluzione di un’antinomia all’interno di un ordinamento giuridico. La disapplicazione è infatti, al pari dell’abrogazione o dell’annullamento, uno dei modi di cessazione di efficacia di un atto normativo, ma, mentre l’abrogazione e l’annullamento hanno una incidenza erga omnes, la disapplicazione ha incidenza soltanto inter partes, cioè limitatamente alle parti del giudizio. Soggetti obbligati al principio di prevalenza del Diritto dell’U.E. sono tutte le autorità nazionali chiamate ad applicare il diritto europeo, vale a dire:

  1. i Giudici nazionali: «il giudice nazionale è tenuto a dare a una disposizione di diritto interno, avvalendosi per intero del margine di discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale, un’interpretazione ed un’applicazione conformi alle prescrizioni del diritto comunitario. Se una siffatta applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che quest’ultimo conferisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno» (Sentenza Frigerio, causa C-357/06)
  2. le Amministrazioni: sono soggetti al principio del primato del diritto dell’Unione tutti gli organi dell’Amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, nei confronti dei quali i singoli sono pertanto legittimati a far valere una disposizione comunitaria contrastante con un atto di diritto interno (Sentenza Ciola, causa C-224/97).

Suscettibili di disapplicazione possono essere non solo gli atti regolamentari, ma anche gli stessi atti legislativi; è da rilevare, anzi, che la disapplicazione della legge costituisce la tipica modalità attraverso cui si esplicita il c.d. “sindacato diffuso di costituzionalità”, affidato – come nel caso degli U.S.A. a partire dal 1803 – non ad un organo costituito ad hoc (la Corte costituzionale), ma ad ogni singolo giudice. La Corte di giustizia ha quindi affermato che il diritto dell’Unione è idoneo ad imporsi, in generale, su qualsiasi atto o fatto avente valore «normativo»:

La Corte ha del pari considerato che è incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino, anche temporaneamente, alla piena efficacia delle norme comunitarie” (sentenza Factortame, causa 213/89).

La prevalenza opera anche rispetto alle norme costituzionali degli Stati membri (Sentenza Kreil, causa C-285/95).

Il diritto dell’Unione è idoneo a prevalere non soltanto sugli atti aventi forza di legge e sugli atti amministrativi a portata generale (regolamenti), ma anche sugli atti a carattere particolare:

La Corte ha inizialmente affermato che spetta eventualmente al giudice nazionale disapplicare le disposizioni contrastanti della legge interna; essa, in seguito, ha precisato tale giurisprudenza sotto un duplice profilo. Risulta, infatti, da quest’ultima che, da un lato, sono soggetti a tale principio di preminenza tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, nei confronti dei quali i singoli sono pertanto legittimati a far valere tale disposizione comunitaria. D’altro lato, tra le disposizioni di diritto interno in contrasto con la detta disposizione comunitaria possono figurare disposizioni vuoi legislative, vuoi amministrative. È nella logica di tale giurisprudenza che le disposizioni amministrative di diritto interno di cui sopra non includano unicamente norme generali ed astratte, ma anche provvedimenti amministrativi individuali e concreti”. (sentenza Ciola, causa C-224/97).

La prevalenza del diritto dell’Unione è stata affermata, da alcune sentenze della Corte di Giustizia, anche in relazione al contenuto di sentenze passate in giudicato:

  • Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva” (Sentenza Lucchini, causa C-119/05).
  • Il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta” (sentenza Olimpiclub, causa C-2/08).

Sono stati, ad ogni modo, individuati alcuni «controlimiti» all’applicazione della regola del primato del diritto dell’Unione, volti a bilanciare le esigenze di effettività del diritto comunitario con il rispetto dei diritti degli individui e con il principio di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche:

  • Limite all’ingresso nell’ordinamento nazionale di disposizioni comunitarie contrastanti con i diritti fondamentali ed i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
  • Limite alla disapplicazione di provvedimenti amministrativi divenuti definitivi.
  • Limite alla disapplicazione del giudicato.
  • Limite alla disapplicazione contra reum di norme penali contrastanti con il diritto dell’Unione.

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