Elezioni europee e lotta politica nella UE di oggi: contraddizioni e difficoltà


Il cammino che portò, a partire dal giugno 1979, all’elezione dei membri del Parlamento europeo, in ogni Stato membro, tramite suffragio universale diretto, per un periodo di cinque anni, era già stato in qualche modo indicato al momento della costituzione delle comunità europee. Prima del 1979 i membri del Parlamento europeo erano delegati dai rispettivi Parlamenti nazionali secondo modalità non uniformemente stabilite, ma autonomamente fissate da ogni Stato membro.

L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo era stata prevista dal Trattato di Roma, istitutivo della Comunità, il quale, mostrando un profondo convincimento della necessità di dare una valenza democratica al processo di integrazione europea, oltre ad indicare che il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati era da considerare provvisorio, affermava che il Parlamento europeo avrebbe elaborato progetti volti definire una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri.

Tra il 1958 e il 1976 si sono succeduti numerosi progetti volti all’istituzione della procedura di elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, ma nessuno di essi trova concreta attuazione. Nel 1958 e nel 1962 l’istituzione cambia denominazione, rispettivamente, in Assemblea parlamentare europea, prima, e poi in Parlamento europeo.

Ma gli anni ’60 sono anni di crisi per la costruzione dell’integrazione europea, soprattutto a causa dell’opposizione gollista. E’ solo nel corso degli anni ’70 che si concretizza il progetto dell’elezione diretta grazie alle spinte date dalla conferenza dell’Aja del 1969, dai movimenti del ’68 – che spingevano verso un maggior coinvolgimento dei cittadini – e il vertice di Parigi del 1974 nel corso del quale i nove capi di Stato e di governo dei paesi aderenti alla CEE decidono di riunirsi nel Consiglio Europeo (tre volte all’anno), propongono di eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale e decidono la creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR).

Con l’atto del Consiglio del 1976 la questione della procedura elettorale fu accantonata, lasciando liberi gli Stati membri di adottare la propria procedura; si stabilì in compenso la data della prima elezione a suffragio universale (1978) (le difficoltà di ratifica dell’atto, però, fecero slittare di un anno la data della prima elezione) e si dettarono alcune regole per lo svolgimento delle consultazioni elettorali. In particolare:

  • fu stabilito che le elezioni si svolgessero ogni cinque anni, alla scadenza del mandato del Parlamento quasi contemporaneamente in tutti gli Stati membri, in un giorno, scelto da ciascuno Stato, nell’ambito di un unico periodo che va dal giovedì alla domenica successiva;
  • fu stabilita la ripartizione dei seggi tra gli stati membri con un metodo proporzionale attenuato per tutelare i paesi meno popolosi;
  • si stabilì per il deputato europeo l’assenza del vincolo di mandato e la compatibilità con il mandato di parlamentare nazionale nonché l’incompatibilità con le cariche di: membro del Governo Nazionale, membro della Commissione Europea.

L’atto lasciava agli Stati la possibilità di introdurre altre forme di incompatibilità.             L’armonizzazione delle procedure elettorali è prevista dal Trattato di Amsterdam che affida al Parlamento europeo l’elaborazione di un progetto di elezione comune, ma permettendo al momento che ogni Stato adottasse il proprio sistema. In tutti gli Stati membri le elezioni europee si svolgono ora secondo il sistema proporzionale; per le elezioni del 1999 anche il Regno Unito ha abbandonato il sistema maggioritario. Successivamente, inoltre venne data la possibilità agli Stati di adottare una soglia minima di sbarramento e, dal 2004, è stata introdotta l’incompatibilità tra mandato parlamentare ed europeo.

La legge elettorale per l’elezione dei rappresentanti italiani presso il Parlamento europeo fu deliberata con provvedimento n.8 del 24 gennaio 1979; improntata al principio di proporzionalismo puro, regolamentava l’elezione della rappresentanza al Parlamento europeo recependo le incompatibilità previste dall’Atto del Consiglio e allargandone il campo alla carica di presidente e assessore della giunta regionale (art. 5); venivano inoltre indicate le cinque macro-circoscrizioni territoriali attraverso le quali si sarebbero eletti i rappresentanti italiani (stabilendo numero massimo e minimo di rappresentanti per circoscrizione).

La legge del gennaio 1989, n. 9 diede la possibilità a tutti i cittadini degli stati membri della CEE di candidarsi in Italia: l’Italia guardava all’integrazione europea e alla centralità del Parlamento europeo e ciò fu riconosciuto anche dal Trattato di Maastricht che allargò la legge italiana a tutta la UE istituendo però il vincolo di residenza per l’elettorato attivo (i cittadini Ue potevano votare in Italia se residenti). Con la legge 90/2004 si allargava il campo delle incompatibilità alla carica di consigliere regionale, presidente della Provincia e sindaco (comune con più di 15mila abitanti).

Nonostante le riforme ed i cambiamenti della legge elettorale, permangono tuttavia ad oggi diverse questioni aperte. Una riguarda l’adottato criterio di incompatibilità che, non abbinato a quello di ineleggibilità, consente a candidati politicamente molto noti, di attrarre voti, e poi una volta eletti, di cedere il posto al candidato subito successivo. L’ineleggibilità impedirebbe a tali soggetti di candidarsi.

Inoltre, manca una procedura elettorale comune tra gli Stati; i partiti nazionali e le federazioni transnazionali sfruttano poco le candidature di nazionalità diverse e le macro-circoscrizioni sono poco definite territorialmente. Spesso, inoltre le campagne elettorali europee sono state improntate su tematiche nazionali facendo sì che tali elezioni risultassero una sorta di test degli equilibri politici interni: le recenti campagne, tuttavia, hanno mostrato una maggiore europeizzazione ed una maggiore attenzione alle candidature tale da accrescere la forza di tali elezioni.

Ma quali le relazioni e i raccordi tra i partiti nazionali e quelli europei? L’elezione diretta del Parlamento europeo porta alla nascita delle prime federazioni transnazionali dei partiti europei (la prima fu quella liberale, seguita dalla popolare e dalla confederazione socialista) che, con il trattato di Maastricht, ricevettero il primo riconoscimento ufficiale: essi, si legge nel trattato, contribuiscono “a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”. Tale ruolo si rafforza con la fine della guerra fredda, l’approfondimento del processo d’integrazione e l’allargamento dei poteri del Parlamento europeo.

Le forze politiche europee nascono così nell’ambito delle culture politiche ottocentesche (Liberale, Socialista, Democratico-cristiana) o in quelle aree a vocazione transnazionale (es. Verdi). Per lungo tempo, le tre principali federazioni hanno fornito oltre il 70% degli eurodeputati, mentre di recente la situazione è sensibilmente cambiata. Esiste una dicotomia tra gruppo politico e federazione transnazionale: non tutti i gruppi politici al Parlamento europeo sono espressione di una federazione transnazionale.

Le federazioni transnazionali sono cinque: Popolari (PPE), Socialisti (PSE), Liberali (ALDE), Verdi (Greens) e Sinistra europea, ma nel Parlamento europeo i gruppi politici sono molti di più.   La forza delle federazioni transnazionali dipende molto dall’adesione o dall’allontanamento dei partiti nazionali affiliati e la loro rappresentanza al Parlamento europeo è legata strettamente ai singoli successi degli affiliati. L’aumento dei poteri del Parlamento europeo, unito alla costante prevalenza degli stati nell’architettura istituzionale dell’Ue ha portato a una dicotomia tra gruppo politico al PE e federazione mancando quel rapporto diretto, quasi gerarchico, che caratterizza gli emicicli nazionali. Nella UE il gruppo è più forte e importante della federazione, per cui diversi partiti scelgono di far parte solo del gruppo.

Un altro grosso limite alla lotta politica europea è la mancanza della militanza diretta: si può farne parte solo attraverso l’iscrizione a un partito affiliato, per cui per lungo tempo le federazioni transnazionali sono state alla portata di élite politiche nazionali (leader e segretari di partito, dirigenti, parlamentari). Ad ogni modo le contraddizioni e i limiti evidenziati non devono portare ad una valutazione negativa delle federazioni transnazionali il cui ruolo rimane importante e va rafforzato soprattutto in virtù e per risolvere le difficoltà in cui si dibatte la UE ed imprimere un’accelerazione sullo sviluppo del processo d’integrazione.

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