Una scuola che “promuove“


Partiamo dall’ingresso. Sull’architrave del portone dovrebbe esserci la scritta “Nessuno è somaro”. Per chiarire subito, meglio di ogni altro discorso complesso o titolo arzigogolato, che chi varca quella soglia sa di trovare ascolto, opportunità, rispetto e accoglienza. Io rifiuto il termine ‘scuola inclusiva’, perché la necessità di dichiararsi in questo modo significa riconoscere che in realtà esiste una scuola esclusiva, o meglio escludente. Ed è proprio così: la scuola, non solo nell’idea degli insegnanti, ma anche nell’immaginario e nelle aspettative delle famiglie, è un posto dove si classifica, si dividono i bravi dai meno bravi ed eventualmente si separano quelli che non ce la fanno da quelli che riescono.

Io invece immagino una scuola che ‘promuove’ e questo termine oggi sembra in controtendenza perché il bravo insegnante è quello che boccia, e la buona scuola è quella dove ci sono pochi extracomunitari. Andando avanti di questo passo avremo scuole sempre più differenziate ed esclusive e le scuole inclusive saranno in realtà il ricettacolo di coloro che hanno dei problemi e sinonimo di scuole scadenti. Le scuole per somari. La scuola deve promuovere le competenze e le capacità di ciascuno; per farlo deve prima farle emergere.

Deve scoprire cosa sa il bambino ma anche cosa sanno gli studenti delle medie, delle superiori e anche dell’università. Uno degli ostacoli principali ad assumere questa prospettiva deriva dal fatto che la scuola crede che i suoi studenti imparino esclusivamente dai docenti. Non c’è l’idea che l’apprendimento sia un processo attivo che nasce dalle idee di chi apprende e non da quelle di chi sa; quindi la lezione frontale diventa indispensabile e le informazioni ‘buone’ devono arrivare dagli insegnanti.

In realtà il processo di crescita delle conoscenze necessita di entrambi: chi sa e chi crede di sapere. Il bambino, ma anche l’adolescente, hanno le loro idee sul mondo, idee ingenue, spesso non corrette, ma idee che fanno parte in quel momento della sua enciclopedia personale. In genere l’insegnante non è interessato a conoscerle perché comunque lui è il depositario delle idee ‘buone’, della conoscenza esatta. Il suo compito è quello di travasarla nell’alunno che, siccome non sa, è considerato alla stregua di un contenitore vuoto.

Marco non fa i compiti. Luca gioca col cellulare. Mario rompe le penne. Antonio scrive “vado a casa”. Siamo di fronte a vecchi Pinocchi o nuovi somari? Cosa succede nella testa di molti adolescenti di oggi? Perché è così difficile coinvolgerli nelle attività didattiche? Per rispondere a queste domande bisogna indagare sulle emergenze sociali e culturali del nostro mondo, legate alla rivoluzione digitale, alla crisi della famiglia, alla frantumazione informativa, alla decadenza di principi morali un tempo ritenuti invalicabili. Dunque scegliamo il punto di vista del ripetente, cioè di colui che fallisce, ciò può aiutarci a capire cosa non ha funzionato e perché!

Il compito della Scuola non è quello di riempire di contenuti la testa degli allievi quanto quello di fare amare il sapere, di aprire mondi. Di far sentire che la verità non ha una sola lettura e che la bellezza si può cogliere in modi diversi. Quali sono gli insegnanti capaci di contagiare i propri allievi con il loro amore per il sapere? Insegnanti che amano il sapere e che come Socrate sanno di non sapere, sono consapevoli delle proprie mancanze.

Quel “vuoto di sapere” che spinge alla ricerca, apre al pensiero critico. Insegnanti che provocano domande, che generano curiosità, desiderio. Perché senza il desiderio di sapere non c’è possibilità di apprendimento. La scuola di oggi si ispira ad un modello aziendale dove ciò che importa è la produzione, il profitto e non le persone che la frequentano. In questo tipo di scuola però c’è posto solo per chi va veloce, non per chi ha difficoltà di qualsiasi tipo; chi va piano o in modo irregolare rischia di restare fuori.

Oggi esiste anche una scuola che si ispira ad un parco giochi in cui il maestro si deve continuamente ingegnare a tener alta l’attenzione degli allievi. Anche questo modello forse non è adeguato. Ci vuole, quindi, una scuola che premi l’irregolarità, l’inclinazione, la stortura, che tenga conto che ciascuno ha la propria misura di felicità e i propri desideri; è proprio questo atteggiamento che rende il rapporto con il sapere unico e irripetibile. Ricercare l’uniformità non è quindi un buon modo di fare scuola.

Occorre esigere che i ragazzi siano responsabili del loro talento ma non pretendere che debbano per forza recuperare e raggiungere il livello anche nelle materie in cui sono meno prestanti. Questo perché altrimenti anziché favorire l’amore per il libro si rischia di renderlo una cosa nauseabonda. In un modello di scuola così attento all’individualità degli studenti, a mio avviso, ci sarebbe meno bisogno di psicologi nella scuola e non sarebbe necessario fare ricorso a procedure testistiche di valutazione e di diagnosi.

E allora quale modello di scuola?

Citavamo all’inizio una scuola che promuove meglio del concetto odierno di scuola inclusiva. Un modello di riferimento di scuola che promuove potrebbe essere ravvisato nel modello della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani.

I Care” è il messaggio che campeggia su una parete della povera scuola di Barbiana. Come dice lo stesso Don Milani, è il motto della migliore gioventù americana, significa “Mi sta a cuore” ed è l’esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”. Ecco, è forse questo il bisogno più grande. Il bisogno di costruire una scuola in grado di “avere a cuore” tutti gli alunni, a prescindere dalle loro capacità, e di portarli tutti, nessuno escluso, verso il successo formativo.

LA SCUOLA CHE VORREI?    “I Care”… NESSUNO È SOMARO!

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