Scuola e società liquida

di Deborah De Blasi

“La risoluzione dei problemi ed il perseguimento delle finalità debbono, necessariamente, comportare la riforma di pensiero e delle istituzioni” (Edgar Morin, La testa ben fatta, riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore. Milano 2000)

I due termini, pensiero ed istituzioni, mettono a fuoco, immediatamente, come l’etica della didattica e della formazione abbiano un’implicanza parallela, che coinvolge il singolo ed il plurale, l’individuo e la società, la persona e lo Stato.

Per ragionare e programmare in modo proficuo bisogna puntare ad un “insegnamento educativo” senza scindere i due termini, senza dimenticare che educare significa “mettere in atto dei mezzi atti ad assicurare la formazione e lo sviluppo di un essere umano”, aiutandolo a diventare “migliore e, se non più felice, insegnandogli ad accettare la parte prosaica del vivere ed a vivere la parte poetica della vita”.

Se educare significa “formare”, ciò implica anche le sue connotazioni di “lavorazione” e “conformazione”, ma si deve sempre ricordare che lo strumento principale attraverso cui perseguire questi obiettivi è l’ “autodidattica”, ossia la pratica che “suscita, desta e favorisce l’autonomia dello spirito”.

Troppo spesso si dimentica che la mole di conoscenze cui deve far fronte l’uomo moderno è immensa ed in costante e veloce espansione.

Morin la paragona ad una “gigantesca torre di Babele, rumoreggiante di linguaggi discordanti”. In tale situazione ecco che Eliot si domanda: “dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” e, di conseguenza, “dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?”.

Se a questi sostanziali dilemmi aggiungiamo la Multiculturalità e la multietnicità, i repentini cambiamenti legislativi e normativi, la crisi del ruolo della famiglia (interlocutrice primaria della Scuola) e la scarsa soddisfazione professionale in termini di riconoscimento valoriale del proprio operato, tutto ciò non può che provocare quel grave stato di stress ansiogeno che è la sindrome da burnout della classe docente.

Anche l’intromissione massiccia e fagocitante delle nuove tecnologie ha condotto ad una crisi del valore del pensiero, che ha perso importanza in virtù di un agire sempre più veloce e sempre meno meditato.

Bauman asserisce che noi viviamo in una fase di “interregno”, ossia in un periodo in cui “gli antichi modi di agire non funzionano più, gli stili di vita appresi/ereditati dal passato non sono più adeguati all’attuale conditio humana, ma ancora non sono state inventate, costruite e messe in atto nuove modalità per affrontare le sfide,  nuove forme di vita più adeguate alle nuove condizioni”.

Viviamo, quindi, in una fase di “modernizzazione” soggetta a cambiamenti repentini, compulsivi ed inarrestabili.

Su simili, ondivaghe ed instabili basi, la scuola ed i suoi docenti diventano l’agenzia della Formazione. Su basi così liquide essi hanno il compito di fondare un intervento significativo, coerente e stabilizzante.

Ciò lo si va a fare in modalità “modernità liquida” (Zygmut Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2017), ovvero nella convinzione che l’unica costante sta nel cambiamento e che l’unica certezza è l’incertezza. Tale liquidità, apparentemente, si manifesta con un’accezione negativa, in realtà non deve essere interpretata così. Lo stato di liquidità di cui parlo, infatti, non è in antitesi con quello di solidità, bensì ne è un’ evoluzione, un adeguamento.

La liquidità è lo stato utile, direi indispensabile, al fine di affrontare la modernità, che per la sua struttura costitutiva non può essere affrontata in una condizione di rigidità.

Partendo da questi presupposti teoretici di sociologia ci si addentra nel mondo tangibile e realistico della scuola.

Una condizione di apprendimento liquido presuppone la capacità di non fissare lo spazio e di non legare il tempo.

E’ in questo nuovo status sociale che si inserisce il nuovo modo di fare scuola, quello che punta sui beni immateriali, ossia la conoscenza, per intervenire significativamente sull’autocoscienza di sé, sulle relazioni, sulla produttività e sul Mercato. Solo la conoscenza è un processo che si fonda sul sapere pregresso, sulla ricomposizione, sull’integrazione e sulla costruzione ex novo di idee. Essa è insita nelle persone e quindi è parte integrante di qualunque sistema sociale.

Una conoscenza siffatta non può dunque prescindere dalla socializzazione, dalla condivisione di finalità, obiettivi, strategie e strumenti. Parliamo di una società educante, cioè di una struttura reticolare di professionisti dell’ “insegnamento educativo”.

Si arriva a parlare di Saperi  Relazionali e Sentimentali perché la Persona è, prima di tutto, Individuo in Relazione, animale sociale con un’innata propensione alla condivisione.

Per un perverso gioco dell’assurdo, su simili considerazioni ecco stagliarsi lo spettro dell’incomunicabilità, dell’insicurezza esistenziale, del monadismo relazionale.

La liquidità di tutta questa “massa” mette il docente innanzi ad una rivoluzione copernicana del proprio io e del proprio ruolo. Egli deve reinventarsi e quindi destrutturarsi per ricomporsi e ricostruirsi. Ma per fare ciò ci vogliono elementi costituenti dell’individuo e del professionista, dell’operatore e del formatore, che necessitano di essere sistematicamente stimolati, potenziati e substanziati in un processo senza soluzione di continuità, che comporta un’inesauribile e costante “corsa” dietro, o forse contro, l’evoluzione, o l’involuzione, di una società in cerca di sé, di generazioni sempre più “precocizzate” dall’ utile, dal produttivo, dal significativo. Generazioni cui non è più concesso sbagliare, fermarsi, tornare indietro e ricominciare perché la china intrapresa è lineare, in accelerazione e priva di piazzole di sosta, di momenti “vuoti”, di pause.

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